Afghanistan, l’incontro Stati Uniti e Talebani in Qatar utile solo per lavarsi le coscienze. Che garanzie possono essere date per la stabilità del Paese?

Di Daniela Lombardi 

Kabul. Toni trionfalistici ed ottimismo diffuso. L’ultimo incontro tra l’amministrazione Trump ed i vertici Talebani in Qatar sulla questione afghana ha prodotto sorrisi e pacche sulle spalle davvero difficili da giustificare.

Perché se è vero che ormai la NATO tenta di disimpegnarsi dall’Afghanistan nella maniera più onorevole possibile, è anche vero che la strada intrapresa di onorevole non ha nulla.

Gli Usa vorrebbero andare via dall’Afganistan

Dopo 18 anni di guerra ed un costo altissimo in termini di vite dei soldati della coalizione – non dimentichiamo, da italiani, i nostri 54 caduti – gli Usa strappano delle mezze promesse ai Taliban che sembrano più un modo per lavarsi la coscienza che per avere un effettivo ritorno, in termini morali e geostrategici, da una missione lunga, dispendiosa e sanguinosissima.

Il “riassunto” dell’accordo è che, alla fine, i Talebani tornerebbero ad avere il potere conquistato prima della guerra, quindi sarà molto difficile spiegare all’opinione pubblica americana, afghana, italiana e di tutti i Paesi della coalizione perché si siano spesi fondi, energie e vite per ritornare allo status quo ante.

Uno dei tanti attentati in Afghanistan

E’ facile immaginare, infatti, che tutti i piccoli diritti faticosamente conquistati dalla popolazione civile, in particolare dalle donne che ancora sono state lasciate a metà strada sul tortuoso cammino verso l’emancipazione, con i Talebani in una posizione di potere evaporerebbero in brevissimo tempo.

Anche i diversi punti dell’accordo che si vorrebbe ratificare, sono comunque evanescenti. Se le pretese dei Talebani sono ben definite e riguardano il ritiro della NATO dal territorio, quelle degli Usa si basano su più punti, ma non si ha nessuna garanzia che questi vengano attuati una volta ottenuto il ritiro.

Il primo punto riguarda il cessate il fuoco da parte dei Talebani. Questo sarebbe il più facile da attuare per ottenere ciò che si vuole ma non è detto che le ostilità non possano riprendere una volta andati via i “guardiani della democrazia”.

In ogni caso, gli impegni maggiori e più gravosi per i Talebani sarebbero quello di impedire alla rete di Al-Qaida di compiere attentati all’estero – il casus belli che portò alla missione ISAF  fu proprio l’attentato di Al-Qaida alle Torri Gemelle di New York – e l’inizio del dialogo con il Governo di Kabul.

L’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001

Sul primo punto, non si sa quali garanzie concrete i Talebani possano offrire, considerati anche i legami con il Pakistan che da sempre ha mostrato un feeling particolare con Al Qaida, fornendo peraltro rifugio al “capo dei capi” Osama Bin Laden all’epoca della sua latitanza.

Sul secondo, bisognerà vedere se il Presidente afgano rimarrà Ashraf Ghani, fermamente contrario ad un’ipotesi di accesso dei Taliban al massimo potere, da lui ritenuto “un ritorno al passato inaccettabile”.

Ashraf Ghani, attuale Presidente afgano

Le elezioni sono, del resto, alle porte e l’impressione che gli Usa vogliano “scaricare” Ghani è palpabile.

Per il momento, comunque, i Talebani rifiutano qualsiasi forma di dialogo con Kabul. Troppe le incognite che gravano sull’accordo, dunque, e che fanno comprendere come possa essere complicato per l’Alleanza Atlantica disimpegnarsi senza aggravare ulteriormente l’instabilità del Paese.

C’è, infine, da fare un’ulteriore considerazione. L’eventuale accordo, del quale esiste un lato non ancora ben definito, cioè quello di lasciare ai Talebani mano completamente libera nel caso delle province a loro maggiore influenza, come Kandahar e Kunduz, riguarda i Talebani “ufficiali”, quelli cioè che si avvalgono di un portavoce, di un ufficio in Qatar, di un “marchio” da apporre ad ogni attentato messo a segno.

Nel complesso universo del terrorismo afghano, però, si muovono diversi gruppi che propugnano il jihad, alcuni dei quali hanno compiuto attentati rivendicati poi dagli stessi talebani.

In tutto, sono stati censiti circa 30 gruppi dai nomi più vari e suggestivi, che si rifanno all’ideologia Talebana con qualche variante non sempre significativa.

In quale misura, c’è da chiedersi, questi gruppi sono autonomi? Fino a che punto potrebbero aderire all’accordo e quanto, invece, avrebbero interesse a continuare a creare il caos?

Infine, aspetto più inquietante, ci sarebbe da determinare il ruolo dell’ISIS sui futuri scenari. Il suo ramo afgano, il Wilayat Khorasan, si è finora conteso il territorio con i Talebani.

Qualora questi passassero sull’”altra sponda”, potrebbe il ruolo di seminatori di discordia e violenza diventare completamente loro appannaggio?

E soprattutto: le Forze afghane addestrate con la missione “Resolute Support” sono attualmente in grado di fronteggiare la minaccia, qualunque essa sia? Sono tutte domande che un Paese con una visione geostrategica “decente” dovrebbe porsi.

A meno che, dopo anni di violenza, morte tra i militari e lutti tra i civili determinati anche dalle bombe della coalizione, non si voglia lasciare il territorio con una pilatesca lavata di mani, al grido di “chi ha avuto, ha avuto e chi ha dato, ha dato”.

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