EUROPEAN DEFENCE UNION – L’insostenibile leggerezza … nelle scelte

di Vincenzo Santo*

Saranno state le nove del mattino o giù di lì. Un orario in cui è difficile immaginare che anche chi abbia fin troppa dimestichezza con il bicchierino non sia ancora lucido. Però … . Ebbene, Juncker ha buttato giù una dozzina di pagine in un sorso. La metafora del vento e delle vele, quelle dell’Unione Europea, hanno tirato la volata alle sue parole. Ha parlato con inspiegabile fiducia di commercio, di industria, di clima, di crimine informatico e d’immigrazione, persino con l’ardire di definire la necessità di fermare quella irregolare, con inevitabile pacca sulle spalle di noi italiani, popolo benefattore e generoso. Ha parlato di valori, quelli che sottendono uguaglianza, libertà e rule of law e che consentirebbero di rendere ancora migliore e più forte questa nostra unione.

La difesa ne è parte, una European Defence Union da realizzare entro il 2025, un qualcosa di assolutamente necessario, ha detto, qualcosa che persino la NATO vuole fortemente e su cui concordare il 30 marzo del 2019, tra meno di due anni, in un summit speciale da tenere in Romania: “…  My hope is that on 30 March 2019, Europeans will wake up to a Union where we all stand by our values. Where all Member States firmly respect the rule of law. Where being a full member of the euro area, the Banking Union and the Schengen area has become the norm for all EU Member States. Where we have shored up the foundations of our Economic and Monetary Union so that we can defend our single currency in good times and bad, without having to call on external help. Where our single market will be fairer towards workers from the East and from the West. Where we managed to agree on a strong pillar of social standards. Where profits will be taxed where they were made. Where terrorists have no loopholes to exploit. Where we have agreed on a proper European Defence Union. Where a single President leads the work of the Commission and the European Council, having been elected after a democratic Europe-wide election campaign. …”. Juncker già nel settembre 2016 aveva avanzato l’idea di un European Defense Action Plan affermando che “… If Europe does not take care of its own security, nobody else will do it for us …”.

 

Un’agenda mica da poco, tutto sommato, anche in considerazione delle imminenti elezioni in Germania. Qui la Merkel è in testa e io credo che, contrariamente al sovvertimento dei pronostici avvenuto negli Stati Uniti, lei vincerà, nonostante i pomodori. Tuttavia, l’approccio tedesco all’Europa non penso che potrà cambiare anche vincesse Shulz. L’ex presidente del parlamento EU ha visto e seguito queste tematiche dal loro nascere e non mi risulta che abbia mai esternato pareri contrari all’idea di una difesa europea o verso la costituzione di un fondo europeo per la difesa.

Inoltre, la porta lasciata aperta dalla possibile Brexit ha rianimato gli animi perché, uscendo la Gran Bretagna, verrebbe meno chi in Europa più degli altri si era sempre opposto a questa eventualità, sotto dettatura statunitense. Pertanto, l’ipotesi che la NATO, giocattolo di Washington, ne avrebbe piacere è da smontare immediatamente. In questo, io credo che tutti dovrebbero smettere di sognare. Il fatto che molti esagerino nel sottolineare che l’iniziativa non è in opposizione alla NATO significa che invece può esserlo – e io, ancorché abbia scritto dell’anacronismo che la NATO incarna, credo che sia proprio così – e che dall’altra parte dell’Atlantico devono ancora comprendere come mettere il bastone tra le ruote, per poi fornire le necessarie note di linguaggio al loro portavoce in Europa, sì proprio lui, il Segretario Generale della NATO che, guarda caso, essendo un norvegese, non è un appartenente all’UE.

Nel giugno scorso, il 7 per la precisione, l’EU ha svelato un piano di molti miliardi di euro volto a creare un fondo per l’acquisizione di armamenti e tecnologia militare, molto probabilmente scossa dal timore di rimanere scoperta a seguito dei rimbrotti di Trump, stanco che siano gli Stati Uniti a farsi nei fatti carico della difesa di alleati dal braccino corto. Evidentemente, dissidi tra il presidente americano e la Merkel e, poi, l’insediamento dell’europeista Macron all’Eliseo, che prelude al possibile rafforzamento dell’asse franco-tedesco, hanno favorito e velocizzato questa mossa e dato sfogo alle affermazioni della cancelliera tedesca sulla necessità degli europei di “riprendere in mano il proprio destino”.

Comunque, il piano prevede due parti: una “research window” per finanziare lo sviluppo di tecnologie per la difesa (elettronica, crypto-software e robotica, con circa 25 milioni nel corrente budget EU, e una “capability window” che consentirebbe ai paesi europei di condividere i costi per l’acquisto di equipaggiamenti come droni oppure elicotteri. Con l’obiettivo di finanziare fino a 90 milioni in tutto per la prima componente al 2020. Dopo di che, la Commissione prevede di dedicare un programma per la ricerca pari a un ammontare annuale di 500 milioni di euro. Per la seconda componente, l’obiettivo sarebbe quello di fissare un budget annuale di 5 miliardi di euro. Lo scopo, secondo Bruxelles, sarebbe quello di poter intervenire senza doversi rivolgere a Washington o a Londra perché ne prendano la guida, così che finalmente quei fantastici 1500 uomini dell’EU battlegroup possano essere finanziati a dovere ed eventualmente schierati da qualche parte anche per esercitazioni, cosa che finora è risultata complicata per via delle dispute tra i paesi per chi dovesse pagarne le spese.

Tuttavia, all’atto pratico, tutto è in potenziale e, del resto, questa lacunosità del pratico, non evita di far sorgere dubbi su come quei soldi potrebbero essere impiegati e a favore di chi. Le idee sono ancora abbastanza confuse, e questa confusione rischia di non portare a nulla di buono, confermando l’assioma che una bella idea, che solitamente è solidale, umanitaria, inclusiva, ecologica e così via, non si rivela poi essere necessariamente una buona idea. Punti di vista differenti tra francesi e tedeschi ce ne sono in termini di ambizioni, con i primi che spingono per una realtà più operativa, mentre i secondi la vedono più come un’occasione per sviluppare capacità … e soldi subito, dico io. Entrambi, infatti, tirano acqua al proprio mulino. In soldoni, per esempio, la Francia per alleggerirsi e coinvolgere altri nella “sua” Africa, la Germania per produrre armamenti che gli altri europei (o che persino l’UE) potranno acquistare. Non si dimentichi, tuttavia, che i francesi hanno più volte insistito a che gli europei guardassero di più anche sul Pacifico, e la Francia, dopo gli Stati Uniti, è la nazione che vanta la più ampia estensione della Zona Economica Esclusiva (ZEE), grazie ai suoi territori sparsi nel mondo.

Dalle nostre parti si parla di nicchie di capacità, pericoloso approccio. Lo vediamo tra un po’.

Una ragione nascosta di tanta eccitazione potrebbe essere invece la necessità di dare corpo e maggior senso compiuto – costi quel che costi – a tutto un insieme di strutture, quali l’EUMC (European Union Military Committee), l’EUMS (European Union Military Staff) oppure l’EDA (European Defence Agency), l’ISS (European Union Institute for Security Studies) e infine l’ESDC (European Security and Defence College) e via dicendo, create nel quadro della CSDP (Common Security and Defence Policy), che sulla spinta dell’eccessivo entusiasmo e dell’eccessiva ambizione sono state create nel tempo, ma della cui utilità francamente c’è da dubitare. Ad esse pare si aggiungerà un Military Planning and Conduct Capabilities (MPCC), 30 persone circa ora, per la denominazione del quale c’è stata in primavera un’appena accennata battaglia lessicale, laddove la Gran Bretagna aveva respinto inizialmente l’ipotesi che si parlasse di un Operational HQ; comunque, un passo avanti per la creazione di un vero comando militare “in vita”, probabilmente per sole non executive missions, cioè quelle con solo un advisory role.

Che volete, bizantinismi cercati e trovati per non pestare gli innumerevoli piedi e, lo so, anche fin troppi nomi e acronimi; ma si sa, parafrasando quanto disse un filosofo illuminista che la sapeva lunga sugli uomini, troppe sigle servono per prendere in giro gli altri e poi se stessi, credendosi importanti. E l’UE però, sotto la guida di questo Juncker, si dimostra supponente anche in merito a questo delicato progetto, quasi fosse sotto l’effetto Dunning-Kruger, laddove l’ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza, come diceva Darwin ne “L’origine dell’Uomo” … e supponenza, appunto.

In realtà, tutto questo non ha e non aveva semplicemente un senso. Soprattutto alla luce del fatto che in termini di difesa collettiva in Europa già si ha un trattato e una struttura militare più o meno funzionante, con gli americani, che è il Patto Atlantico. Senza contare quanto convenuto con l’accordo detto Berlin Plus che consentirebbe all’EU di impiegare strutture, meccanismi e assetti per lo sviluppo di operazioni alle quali la NATO non intendesse partecipare. Il 79% dei paesi dell’UE appartengono alla NATO e nell’Alleanza quegli stessi paesi vi rappresentano il 76%. Quali e quanti problemi decisionali ci potranno mai essere? E quali reali dicotomie in termini di politica estera ci possono mai essere, dato che comunque a reggere le fila sono e saranno sempre gli Stati Uniti? Basti guardare alla vicenda delle sanzioni alla Russia. E allora? Si deve proprio creare un duplicato della NATO? Una EU Force Structure e una EU Command Structure con annesso tutto il sistema satellitare aggiuntivo di agenzie, dalla logistica alle comunicazioni? Dobbiamo per forza di cose arrivare a spendere quel fatidico 2% del PIL e anche di più? E per quali interessi? Le spese vanno commisurate agli obiettivi che ci si prefigge e ai mezzi che si intendono impiegare per sostenere i propri interessi. Quali sono gli interessi europei e, soprattutto, quali gli obiettivi? Non ci sono, infatti. Solo gli stati li possono realisticamente avere, mentre alleanze o coalizioni in genere seguono la volontà di un leader, se è convincente.

La strada verso questo obiettivo, oltre a rappresentare un inutile, costoso e superfluo viaggio, è lastricata di ostacoli importanti, in primis negli stessi Stati Uniti. Ufficialmente favorevoli, non hanno mai gradito tali “gite fuori porta” se non altro per il rischio di non farla più da padroni sul mercato degli armamenti. In secondo luogo, chi fisserà le linee guida? Nella NATO c’è appunto l’America quale leader; in Europa chi? La Francia, La Germania … o noi? I francesi posseggono l’arma nucleare, quindi potrebbe costituire questo un discriminante a loro favore, ma anche la Germania ha avanzato l’idea di dotarsene. La Francia ha però il potere di veto in ambito Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Quindi? Una leadership preminente politica oppure un’altra eminentemente economico-industriale. È difficile fare una scelta e, francamente, per un qualcosa che è inutile è persino stupido. Per noi anche potenzialmente dannoso.

L’esperienza Fincantieri-Stx dovrebbe metterci in guardia, soprattutto se all’ipotesi di revisione di quel contratto, fatto favorevole ai francesi, non corrisponderà veramente un vantaggio per noi, come invece afferma Gentiloni, con la realizzazione di un assetto incrociato con la francese Naval Group (la vecchia DNCS), e con il ventilato decentramento da Leonardo su Fincantieri del comparto dell’elettronica della difesa e della missilistica, quindi per fare un nome parliamo di Selex Es, o anche magari della quota in MBDA (25%) della stessa Leonardo, facendo di Fincantieri un polo ancora più capace nel campo del naviglio militare, in grado di produrre scafi già integrati con sistemi di difesa e guida, missilistica e elettronica.

Ma al di là di queste manovre industriali, verso le quali il nostro Tesoro dovrebbe assegnare un’attenzione morbosa, il rischio che si corre è che accorpamenti maggiori – come per esempio frutto della fusione nella Knds, tra la privata tedesca Kmw (Leopard 2) e la francese Nexter (che ha dietro lo stato) – consentano per la massa critica che rappresentano il più facile ricorso ai fondi di cui si è parlato prima, che sono anche soldi nostri, tanto per lo sviluppo quanto poi per la produzione, lasciando le nostre industrie della difesa a bocca quasi asciutta, soprattutto se non si riuscisse a frenare le escursioni sul mercato europeo dell’industria americana. Non è che noi siamo posizionati male sul mercato, ma è giusto che già da ora ci si chiarisca bene le idee su come quei denari vadano utilizzati e come possa avvenire il ritorno delle vendite, anche fuori dal mercato europeo.

Mi spiego: se Airbus, che concorrente è per la produzione elicotteristica della nostra Leonardo, riesce, grazie ai soldi della research window, a mettere in campo un eccellente elicottero d’attacco e questo elicottero poi trova i favori del mercato europeo e non solo, le nazioni che comunque hanno partecipato al fondo devono poter beneficiare di un dividendo. Così come un’azienda che abbia vinto un contratto per la fornitura di un equipaggiamento per la “Difesa Europea”, per esempio mezzi per le comunicazioni o materiali per lo spiegamento in campagna di comandi, debba essere esclusa da altre gare per un certo periodo.

Cose molto complesse da attuare, forse anche impossibili laddove vadano a inficiare i concetti della libera concorrenza e del libero mercato. Ma sono aspetti su cui meditare per comprendere come poi sarà difficile controllare dove vadano quei soldi e, infine, come una bella idea non sempre riesce anche buona. In sintesi, è urgente che i nostri governanti immaginino le conseguenze di questi atti, perché, sarò anche pessimista, ma in genere non brilliamo per la cura e l’attenzione verso la nostra industria in genere, figuriamoci verso quella militare, colpevole a prescindere!

Insomma chi dovrebbe produrre i miei cingolati, le mie uniformi o i miei fucili? L’Agenzia della Difesa non riesce né mai riuscirà a gestire un settore in cui tutti brillano per le belle idee ma che all’atto pratico impongono determinati requisiti legati ai propri interessi di produzione. Il risultato è che, così come per la NATO, ognuno deve poi assicurarsi la propria catena logistica (financo il vitto riesce a essere diversamente gradito), a meno di classi di equipaggiamenti per i quali si sia riusciti nel far accettare uno standard unico, come avviene per munizioni o carburante.

Quindi, se è già difficile in un’operazione più soft, dove gli spazi e i tempi dell’azione e dell’impegno operativo mitigano il problema logistico, figuriamoci cosa potrebbe accadere in un impegno a maggiore intensità, hard (come credo che intendesse Juncker la settimana scorsa dicendo “… all of that shows that soft power alone is not powerful enough in an increasingly militarized world …”), con un insignificante Battle Group formato da unità di diverse provenienze nazionali e con diversi equipaggiamenti: lo dico chiaramente, sarebbe un incubo logistico. E un inferno nel comando e controllo. Nelle operazioni militari ad alta intensità, la guerra vera intendo, non si può accettare un qualsiasi livello di multinazionalità al di sotto della brigata. E qualche dubbio lo avrei anche per il livello divisionale. Non scherziamo! A nulla servirebbe, a quei livelli tattici, l’avere le medesime procedure e la stessa lingua operativa. Lo stretto coordinamento, le manovre e il fuoco a contatto ravvicinato richiedono il capirsi subito e bene.

E poi, di quali forze parliamo? Ogni nazione è difficile che rinunci al proprio strumento “tridimensionale” e, pur volendolo, a che cosa si può realmente rinunciare oppure quali nicchie mantenere? In quali settori delle capacità militari siamo noi più bravi di altri, così da costringere quegli altri a privarsene? Potrei qui allungare il mio discorso in tantissimi esempi. Se non siamo mai riusciti neanche con la NATO a comporre queste tematiche in quasi 70 anni, qualcosa vorrà ben dire, no?

Insomma, lasciamo stare le idee belle e, se proprio non possiamo tornare indietro ora, perché siano anche belle basta che stiamo attenti, con vero senso dello “Stato”, a come le nostre risorse vengono impiegate e a proteggere la nostra industria, senza trascurare la necessità morale di aver cura che per i nostri soldati sia assolutamente chiaro quello che gli si chiederà di fare.

Quella della difesa europea è una storia che sta camminando dietro alle quinte, forse volutamente sotto traccia, ravvivata ogni tanto con qualche bella intuizione, solo bella però, ma non è con una Nunziatella europea che asseconderemo la costruzione funzionalistica di un’Europa che, forse, ormai in pochi vogliono così come ci viene imposta.

Sono per una volta d’accordo con Juncker: realizzare questa idea non è come bere un bicchier d’acqua!

*Generale CA (riserva) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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