Somalia: le mani turche sul Paese dal 2011. Parla Federico Donelli, ricercatore dell’Università di Genova e di Bologna

Di Alberto Gasparetto

Bologna. A seguito della liberazione di Silvia Romano, l’italiana rapita in Kenya il 18 novembre 2018 e rimasta prigioniera dell’organizzazione al-Shabbab fino a qualche giorno fa, sono fioccati sulla stampa italiana commenti, analisi e resoconti carichi di sorpresa.

La mappa della Somalia

In molti si sono accorti che in Somalia esiste una presenza turca e che, attraverso i propri Servizi segreti, Ankara ha avuto un ruolo determinante nella liberazione della ragazza.

Eppure, è dal 2011 che la Turchia ha cominciato prepotentemente a mettere piede in Somalia, devolvendo una serie di aiuti economici e di welfare che le hanno permesso di costruire una rete capillare di contatti con la popolazione locale.

La propria presenza fisica sul territorio è stata segnata dall’apertura di un’ambasciata e della più grande base militare turca all’estero, dall’attivazione della rotta aerea Istanbul-Khartoum-Mogadiscio e, chiaramente, attraverso le attività di intelligence.

Per continuare con gli approfondimenti che Report Difesa sta garantendo da giorni sulla questione, abbiamo ritenuto che fosse utile confrontarci con chi, da anni, conosce e studia tali questioni.

E abbiamo intervistato Federico Donelli, ricercatore all’Università di Genova, docente di Storia e Istituzioni del Medio Oriente moderno all’Università di Bologna, analista rinomato che ha trascorso diverso tempo in Turchia per svolgere ricerche sulla politica estera turca.

In particolare, Donelli si è occupato specificamente della presenza turca nel Corno d’Africa e al proposito ha definito le modalità dell’allargamento turco in questa regione attraverso il concetto di Ankara consensus.

L’idea cioè che la Turchia stia perseguendo ormai da anni un modello esclusivo e unico di coinvolgimento in quella regione quale sintesi fra un approccio ai problemi di sostenibilità in Africa e un discorso utile a promuovere la proiezione della propria potenza a livello globale.

Fra le sue numerose pubblicazioni di prestigio, ci limitiamo a segnalare l’illuminante “The Ankara Consensus: the significance of Turkey’s engagement in Sub-Saharan Africa, apparso in «Global Change, Peace & Security” (2018) e la monografia “Le due sponde del Mar Rosso. La politica estera degli stati mediorientali nel Corno d’Africa” (Mondadori Università, 2019), una sorta di summa del suo percorso di studi.

Dottor Donelli, perché la Turchia percepisce il Corno d’Africa e la Somalia come aree geografiche appetibili? Vi sono particolari ragioni di carattere strategico legate alla competizione geopolitica per le sfere d’influenza, alla necessità di approvvigionamento di idrocarburi o altro ancora?

Quando nel 2011 la Turchia ha iniziato ad aumentare in maniera significativa il proprio coinvolgimento nell’area impegnandosi nel complicato processo di stabilizzazione della Somalia lo ha fatto soprattutto per opportunità.

In una fase in cui le rivolte mediorientali avevano alimentato le ambizioni di leadership del governo turco, la Somalia, entrava nel suo ventesimo anno di guerra civile attraversando una delle peggiori carestie degli ultimi anni.

Il Presidente turco Erdogan

La Turchia intravide nell’assenza totale di attori internazionali la possibilità di significativi guadagni (in questa fase soprattutto di popolarità e visibilità) ad un costo relativamente basso.

 

La scelta di intervenire era una situazione win-win anche perché avrebbe permesso di testare e perfezionare uno degli strumenti principali della politica turca in Africa ossia la diplomazia umanitaria.

In quel preciso momento, acquisire influenza in Africa avrebbe significato aumentare il sostegno diplomatico all’interno delle organizzazioni internazionali nei progetti di riforma della governance e allo stesso aprire nuovi mercati per l’export turco resi ancora più necessari a seguito della crisi economico finanziaria che aveva colpito le economie occidentali nel 2008.

Che ruolo ha la Turchia nel Corno d’Africa? A quando risale la presenza turca in quella regione che nel suo libro intitolato “Le due sponde del Mar Rosso. Le politiche estere degli Stati Mediorientali nel Corno d’Africa” definisce “sub-complesso di sicurezza del Medio Oriente”? Facendo un po’ di accademia, che significato ha questo concetto? A tal proposito, che peso hanno avuto le petromonarchie del Golfo sulla eventuale percezione di una minaccia da parte turca e sulla decisione di Ankara di essere presente in maniera così massiccia nel Corno d’Africa?

La nozione di complesso di sicurezza regionale la si deve alla Scuola di Copenaghen che per prima ha voluto sviluppare un quadro teorico di analisi in grado di analizzare la dimensione regionale come un sottosistema parzialmente autonomo, al cui interno sono presenti caratteristiche distintive, durature e, soprattutto, in grado di conservare un livello di indipendenza rispetto ai cambiamenti sistemici.

Occorre però sottolineare che il termine “regione” non identifica un’area squisitamente geografica, bensì un’area definita da relazioni di sicurezza tra le unità esistenti in quanto l’azione di una di esse produce inevitabilmente effetti sulle altre unità del complesso e viceversa.

A mio modo di vedere, il Corno d’Africa oggi costituisce una estensione del più ampio complesso di sicurezza mediorientale, ossia un’area geopolitica nella quale le interazioni di sicurezza tra attori mediorientali si intrecciano in alcuni casi sovrapponendosi alle interazioni dei Paesi africani.

Tali dinamiche sono l’esito di un processo graduale – nel volume lo definisco mediorientalizzazione del Corno d’Africa – iniziato nel primo decennio del nuovo millennio e che ha subìto una accelerata dopo il 2013, complici una molteplicità di fattori.

Le motivazioni dietro l’interesse dei diversi attori mediorientali in Africa sono varie e in alcuni casi simili (per esempio diversificare il portfolio investimenti dei fondi sovrani, raggiungere obiettivi di sicurezza alimentare, acquisire visibilità…) tuttavia con la riconfigurazione dell’ordine mediorientale successiva alle rivolte del 2011 la rilevanza della dimensione politica e securitaria delle interazioni è aumentata in maniera esponenziale.

Che dimensione e che natura hanno le relazioni fra Turchia e Cina, considerando l’influenza di quest’ultima nel Continente africano?

Nonostante la Turchia e la Cina siano a tutti gli effetti dei competitor (progetti infrastrutturali, manifatturiero) soprattutto in determinate aree africane come il Corno e più in generale tutta l’Africa orientale, è altresì vero che da parte turca c’è la consapevolezza di non potere sfidare la superpotenza cinese che è a tutti gli effetti il vero leader extraregionale.

Di conseguenza, al pari di quanto fatto dagli altri players mediorientali, anche la Turchia ha cercato di sviluppare i propri interessi in maniera complementare a quelli cinesi evitando il più possibile di generare frizioni.

Probabilmente a medio lungo termine il rischio maggiore è che una divergenza di interessi si possa sviluppare tra la Cina e un altro attore molto attivo nell’area che è anche il principale rivale della Turchia, ossia gli Emirati Arabi Uniti.

Il progetto di “string of ports” sviluppato dalla controllata emiratina DPWorld, nonostante secondo alcuni analisti rappresenti un investimento complementare e funzionale alla Via della Seta marittima di Pechino, dal mio punto di vista, potrebbe alla lunga diventare una concreta alternativa ai piani cinesi soprattutto in quel fondamentale “collo di bottiglia” rappresentato dal Mar Rosso.

E’ possibile ipotizzare che la Turchia sfrutti l’episodio per cercare una sponda all’interno dell’UE allo scopo di strappare una qualche concessione futura o magari semplicemente lavorare affinché le spaccature già presenti a Bruxelles vadano acuendosi? A tal proposito, molti analisti hanno ipotizzato una sorta di scambio o addirittura di accordo fra Italia e Turchia intorno alla liberazione di Silvia Romano. Potrà Ankara far valere tale credito su altri scenari e/o questioni di politica estera quali la Libia, Cipro e il gas nel Mediterraneo, la questione dei migranti? Se sì, come e con quali limiti?

Secondo me più che cercare una sponda all’interno dell’UE potrebbe cercarla all’interno alla NATO, soprattutto in chiave di contenimento della Grecia e della crescente partnership tra Atene e Parigi.

Dubito che la Turchia possa sfruttare il momento per portare dalla propria parte l’Italia nella questione EastMed in quanto l’Italia e in particolare l’ENI sono impegnati in maniera significativa e quegli equilibri non vedo come possano essere cambiati.

Ciò che si può rilevare è che in questo momento una grossa preoccupazione per la Turchia è data dal ruolo sempre più influente della Grecia. Atene ha acquisito il sostegno di un rivale storico regionale della Turchia, cioè gli Emirati Arabi Uniti.

Qui si è creata questa alleanza tra Emirati, Grecia, Egitto, Francia attorno alla questione dello sfruttamento del gas nel Mediterraneo che preoccupa molto la Turchia che, quindi, potrebbe forse giocarsi questo credito guadagnato, ammesso ma non concesso che lo abbia guadagnato.

Il Mediterraneo crocevia, da secoli, di commerci

Difatti, non so se questo possa rientrare tra i “favori” che tendenzialmente ci si scambia fra Stati o addirittura se vi sia siano stati accordi precostituiti. Si potrebbe osservare il precedente più recente di collaborazione tra servizi segreti italiani e turchi.

Infatti, già in occasione della liberazione del giornalista de La Stampa, Domenico Quirico, nel 2013, l’intelligence italiana aveva sfruttato grazie all’intermediazione turca la rete della Syrian National Coalition for Opposition and Revolutionary Forces.

Ad esso non hanno fatto seguito particolari cambiamenti o “favori”, senza contare che non è dato sapere se i Servizi turchi avessero un debito da saldare nei confronti di quelli italiani.

E’ comunque piuttosto difficile che possa essere utilizzato come leva al punto da creare dei cambiamenti degli equilibri interni all’UE.

Sono più persuaso del fatto che ciò possa al limite avvenire all’interno dell’Alleanza Atlantica, nella quale la Turchia è interessata ad ottenere sostegno sulla questione siriana.

In sostanza la liberazione di Silvia Romano non si presterebbe ad essere usata per influenzare le altre dinamiche regionali?

Non credo proprio che la liberazione di Silvia Romano sia tale da spostare gli equilibri a livello regionale. La liberazione di Silvia Romano credo che vada slegata dalle dinamiche del contesto libico e da quello regionale.

Va semmai inquadrata in un’ottica più tipica di una situazione nella quale l’Italia, quando ha capito che al-Shabbab aveva portato la ragazza nelle proprie roccaforti in territorio somalo, ha fatto esattamente ciò che avrebbe fatto in qualsiasi altro contesto: avrebbe valutato quali attori in quel contesto gode di maggiore influenza, di maggiori legami, di una maggiore rete – non solo a livello di intelligence – ma anche “trans-building”, cioè a livello di fiducia da parte della popolazione locale.

Miliziani di Al Shabaab

Se un Paese si trova costretto ad aprire una negoziazione con un gruppo di terroristi, occorre essere certi di arrivare a quel gruppo di terroristi.

Rimanendo nel campo delle ipotesi, e ammesso che vi sia stato effettivamente un intermediario fra i Servizi turchi e al-Shabbab (che, ricordiamolo è una organizzazione non monolitica ma dotata di diverse branche al cui interno i rapporti non sempre sono idilliaci), questo potrebbe essere stato il Qatar, che ha storicamente coltivato rapporti con i leader politici dell’esperienza conosciuta come le Corti islamiche, che sono l’istituto da cui nasce al-Shabbab. Ma ripeto, rimaniamo nel campo delle ipotesi e congetture.

Turchia e Italia hanno adottato modelli differenti per marcare la propria presenza in Somalia? Come si spiega il venir meno del ruolo di Roma a scapito di quello di Ankara? Quali spazi ci sono ancora per l’Italia nel Corno d’Africa e in Somalia?

Cominciamo col dire che è almeno dalla metà degli anni Novanta che l’Italia non è più in Somalia con una presenza forte e significativa. Solamente di recente, nel corso della scorsa legislatura – Letta-Renzi-Gentiloni -, l’Italia ha tentato di riacquisire influenza sottolineata anche dal viaggio nel 2016 di Renzi in Somalia.

Il viaggio era finalizzato a sostenere la candidatura alle elezioni presidenziali di Omar Abdirashid il quale si era detto favorevole all’esplorazione ENI nelle acque di confine tra la Somalia e il Kenya.

Venendo alla questione della cooperazione in Somalia, la Turchia ha adottato un approccio unico. Di fatto, le uniche Ong internazionali che hanno scelto di operare in territorio somalo sono state quelle turche, le altre sono solite operare per questioni di sicurezza dal Kenya.

Diversi progetti turchi di cooperazione condotti in territorio somalo hanno subito attacchi da parte di al-Shabaab. Al netto dei rischi, la scelta turca ha pagato in termini di popolarità e di costruzione dei rapporti con la popolazione locale.

Gli aiuti turchi vengono distribuiti direttamente alla popolazione somala in ottica face-to-face, da mano turca a mano somala. Pertanto, per ribadire il concetto esplicitato nella risposta alla domanda precedente, non essere presenti sul territorio non agevola il “trust-building”.

L’Agenzia turca Anadolu ha dato la notizia del rilascio di Silvia Romano pubblicando una foto che la ritrae sorridente mentre indossa un giubbotto anti proiettile recante i simboli della mezzaluna islamica. I Servizi segreti italiani hanno smentito la genuinità di questa foto, ma intanto ha fatto il giro del mondo, rilanciando prepotentemente l’immagine di un Paese che proietta all’estero la propria potenza in maniera spregiudicata. Quanto conta la dimensione comunicativa a livello geopolitico e di competizione internazionale? Dove vuole arrivare la Turchia? Dove la vuole portare Erdogan? Qual è l’interesse ultimo del leader turco?

La dimensione comunicativa e l’immagine in un mondo globalizzato e costantemente connesso ha senza ombra di dubbio una grande rilevanza. Tali immagine ha generato grande scalpore in Italia per l’attenzione mediatica che giustamente ha ricevuto la liberazione di Silvia Romano, tuttavia nel resto del mondo la notizia, se riportata, non ha avuto grande enfasi.

Negli immediati sviluppi che questa coordinazione fra Italia e Turchia produrrà su altri teatri, come quello libico, che posizione prenderanno gli Stati Uniti?

Sulla questione libica bisognerà vedere intanto se ci sarà un cambio nell’amministrazione americana. In secondo luogo, occorrerà capire se gli Stati Uniti vorranno sfruttare le difficoltà russe in Siria, con i primi disaccordi emersi con l‘Iran sulla sopravvivenza di Assad, per ridare vigore alla vecchia alleanza con la Turchia.

Malgrado le forti tensioni fra Usa e Turchia dovute alla politica estera sempre più autonoma da parte di quest’ultima, e sebbene la NATO abbia da tempo perso parte della sua ragion d’essere, è ancora possibile considerare Ankara un partner affidabile se non dell’Alleanza Atlantica almeno dell’Occidente e dell’Europa?

Il presupposto dovrebbe essere un ripensamento totale delle funzioni e degli obiettivi strategici della NATO. Un ripensamento di questo tipo inevitabilmente implicherebbe anche il ripensamento dell’avversario e della principale minaccia comune.

E in questo senso, credo che la principale minaccia, quantomeno percepita dall’Occidente, sarà inevitabilmente la Cina.

Se quindi ci fosse un ripensamento della NATO in questo senso associato all’espansione della Cina non soltanto nell’Oceano Indiano ma anche nel Golfo, nel Mar Rosso e in tutta l’Africa, un attore come la Turchia – che in questi anni è stata capace di ampliare la propria presenza in scenari multipli – potrebbe tornare utile.

Discorso simile andrebbe però fatto relativamente alle petromonarchie del Golfo, all’Egitto e ovviamente ad Israele. A mio avviso i tanti tentativi fatti dagli Stati Uniti nel corso degli anni per formare un fronte compatto e comune anti-Iran erano anche finalizzati a medio-lungo termine a creare un sistema di alleanze e sicurezza regionale in chiave anti-cinese.

I contatti che gli uomini di Ankara si dice abbiano da tempo instaurato anche con gli Al Shabaab fanno forse presupporre una divergenza di obiettivi strategici con gli Stati Uniti e i Paesi occidentali, confermando i timori già innescati da episodi analoghi quale i traffici con lo Stato islamico al confine con la Siria, oppure si tratta di spregiudicato realismo che la vulgata politico/giornalistica mainstream finge di non vedere in ossequio anche a un pregiudizio squisitamente anti-Erdogan?

Attorno al rapporto tra la Turchia e al-Shabaab credo che in questi giorni siano circolate molte disinformazioni e letture fuorvianti.

Come detto in precedenza, la Turchia dal 2011 è presente in Somalia e quasi da subito ha iniziato anche ad operare nell’ambito del processo di normalizzazione e di mediazione tra i diversi attori non statali in conflitto.

Nel 2013 proprio perché scelse di escludere da tale processo l’organizzazione radicale, in quanto non considerata un interlocutore affidabile, diventò essa stessa un bersaglio di molteplici attacchi.

La Turchia, al momento, è a tutti gli effetti il principale player esterno in Somalia insieme ad altri attori come UAE, Qatar e Gran Bretagna e grazie ad un particolare modus operandi (multistakeholders) nel campo umanitario e di aiuti allo sviluppo – strutturato in modo da ridurre al massimo l’utilizzo di intermediari e appoggiarsi alla società civile somala – ha saputo costruirsi una rete significativa e, aspetto ancora più importante, ha saputo guadagnarsi la fiducia della popolazione locale.

Quanto ancora potrà risultare sostenibile da parte di Ankara una politica estera così dispendiosa in termini di risorse da investire in altri Paesi, considerando lo stato difficoltoso di cui l’economia del paese soffre ormai da alcuni anni?

Inevitabilmente l’attuale crisi globale e le ricadute economiche avranno un impatto anche sulla già instabile economia turca. Personalmente non credo però ad un immediato ridimensionamento dell’impegno assunto in diversi contesti regionali che vanno dalla Siria alla Somalia passando per la Libia.

Questo perché dietro al comportamento e alle scelte politiche turche vi sono sempre calcoli politici legati alla competizione regionale e alla ricerca di influenza anche globale ma anche valutazioni pragmatiche e legate agli interessi economico commerciali del Paese.

Il reale rischio per l’economia turca e con essa anche per l’iper-attivismo in politica estera potrebbe derivare dall’eventuale approvazione americana del Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act, richiesto da ampi settori del Congresso statunitense.

Anche in questo caso dovremo vedere i prossimi sviluppi a Washington che rimane, a mio avviso, il vero ago della bilancia della politica estera turca.

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