“Sum, ergo cogito”, forse. I segnali deboli che non cogliamo sulla NATO

Di Vincenzo Santo*

Nel mondo di oggi, così veloce, frenetico e irrequieto, assume sempre più importanza l’osservazione dei segnali deboli. Uno tra questi è rappresentato dalla necessità di giustificare la propria esistenza e, quindi, il rischio è che, dal momento che si esiste, si produca pensiero, non di rado, “debole” (il buon Cartesio mi perdonerà se ho capovolto la sua riflessione). Ma anche troppo spesso inutile e dannoso, perché le belle idee non sono necessariamente anche buone.

La NATO, secondo il mio parere ha rilasciato segnali deboli. Almeno per due ragioni: la prima, facendosi indurre in confusione tra deterrenza e dissuasione e, per la seconda, avendo confermato la propria inutilità in caso di eventi sfavorevoli, in occasione di un recente evento esercitativo.

La prima circostanza è più complessa, e ne approfitterò per lanciare delle provocazioni di ordine concettuale. Ma vedremo di andare per gradi.

Ancora una volta, al centro c’è la Russia. Il recente incontro, giudicato molto cordiale, tra Putin e Trump, non deve trarre in inganno. Tanto lo stato profondo americano continuerà a guidare la narrativa contro Mosca, quanto Putin si divertirà nel mettere il bastone tra le ruote agli americani, mosso dalla volontà, legittima, di tornare a contare qualcosa e, quindi, di curare come fanno gli altri i propri interessi ovunque gli sia necessario, dall’Artico al Medio Oriente, in Africa e, ovviamente, nel cortile di casa, Ucraina e dintorni.

E l’Ucraina fa comodo a entrambi, con la complicità stupida di NATO e Unione Europea. Soprattutto agli americani, la cui vendita di armamenti nell’Est europeo negli ultimi due anni (incluse Finlandia, Svezia, Baltici, la stessa Ucraina e, udite bene, anche la NATO), rispetto al 2014, è cresciuta per più del 750%. Si vedrà poi come andrà questa tendenza a seguito del recente accordo sui Patriot con la Polonia.

La Russia è quindi ancora una grande minaccia. Bello e utile rifarsi un nemico. Anche se un temibile avversario già è in giro, costituito da tutta una congerie di frange terroristiche che interpretano alla lettera il comandamento della violenza religiosa contro i vecchi crociati e contro la nostra civiltà. Tuttavia, ritornare a riformulare i propri pensieri operativi in formato convenzionale rigenera la mente e consente un sospiro di sollievo nel piacere di tornare all’antico. Comprensibile se lo pensano gli americani, stupido se gli si accodano gli alleati della NATO. Se questi lo fanno, emettono un segnale debole, perché risulta evidente che non è farina del loro sacco.

Nel 1997, la NATO e la Russia concordarono su un “Founding Act”(1) che mirava a fornire le linee guida per stabilire misure di fiducia reciproca, comunanza di intenti e forme di consultazione e cooperazione. Un accordo politico, più che un trattato internazionalmente riconosciuto. Secondo l’accordo, la NATO avrebbe continuato a occuparsi della sua collective defense e di altre attività volte a migliorare la “necessary interoperability, integration, and capability for reinforcement” piuttosto che stabilire la presenza addizionale di forze combattenti sul territorio dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia.

Il testo prosegue specificando che “In this context, reinforcement may take place, when necessary, in the event of defence against a threat of aggression and missions in support of peace consistent with the United Nations Charter and the OSCE governing principles, as well as for exercises consistent with the adapted CFE Treaty, the provisions of the Vienna Document 1994 and mutually agreed transparency measures. Russia will exercise similar restraint in its conventional force deployments in Europe”.

A significare che dovrebbe esserci una minaccia di aggressione e tale minaccia è tale se, alla valutazione delle capacità operative si aggiunga anche la valutata intenzione di aggredire. Il fatto che la NATO, e a seguire la scodinzolante Europa, ritenga che l’annessione della Crimea e i fatti dell’Ucraina costituiscano la prova dell’intenzione russa di aggredire, mi pare velleitario, pretestuoso. Soprattutto volto a calare uno schermo sulla stupidità dell’EU a voler mettere piede, come detto, nel cortile di casa della Russia, e l’Ucraina, piaccia o no, lo è. Ma anche a salvare la faccia di NATO e USA per aver fatto accedere nell’Alleanza paesi che non avevano, e non hanno tuttora, quelle proprie capacità operative utili a iniziare una propria difesa, prima che l’Alleanza intervenga, appunto in forma “collettiva”. Qualcosa ho già scritto in merito(2).

C’è differenza tra sfida e minaccia? Per dirla in inglese, tra threat e challenge? Io dico di sì.

Non c’è motivo di fare molta filosofia sull’argomento. Ripeto, una minaccia è tale se alle capacità di far del male si accompagna l’evidente e già manifestata volontà di farlo, magari laddove si teme. Tutto qui. Ad essa, si deve contrapporre la deterrenza, cioè colui che si sente minacciato adotta ogni misura possibile per indurre l’avversario, che è già definito come tale, a convincersi che potrebbe, lo dico in termini da film, non passarla liscia. Semplice! Un caso particolare e interessante, sarebbe il ricorso alla pre-emption(3), cioè si attacca prima che l’altro lo faccia. Niente paura, è internazionalmente legale (la nota offre un utile approfondimento).

La sfida, tutto sommato, rappresenta quell’insieme di azioni volte a saggiare l’approccio di un possibile avversario, o di colui che si è scelto quale avversario, in risposta a proprie azioni, movimenti di truppe, lancio di missili, dichiarazioni, ecc..

Il Dizionario enciclopedico Treccani, alla sfida associa anche il termine provocazione. Ed è, per esempio, quello che fa Kim Jung-Un, una ripetuta provocazione verso il contesto internazionale, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti (4), per il perseguimento di uno scopo ben chiaro. Le azioni condotte dalla Cina nel Mar Cinese Meridionale, la realizzazione intendo di isole artificiali che poi possano legittimarle i privilegi dell’UNCLOS (United Nations Convention on the Law of the Sea), rappresentano anch’esse una sfida, una provocazione. Si vuol vedere, cioè, a mano a mano, fin dove ci si può spingere, tirando la corda con cautela, lentamente ma con costanza.

Azioni di sfida, tuttavia, sono anche le FONOPS (Freedom of Navigation Operations), condotte dagli USA da quelle parti in risposta alla ritenuta arroganza cinese. In tale ottica, quindi, si spera di dissuadere la controparte dall’andare oltre, cioè a non contrapporsi secondo un grado crescente di aggressività che poi conduca a un punto di non ritorno, quando cioè le parole fissano insuperabili “linee rosse”; un livello di confronto che poi è difficile sconfessare, perché si è arrivati nella sfera dell’intenzione.

Mentre per la deterrenza occorre essere veramente convincenti, per esempio dimostrando la propria forza ovvero le proprie capacità (5) o ancora schierarsi al confine in massa, per la dissuasione, invece, tutto questo non sarebbe necessario: far parte di una coalizione di per sé rappresenta un elemento di dissuasione. Putin, per esempio, è già cosciente che attaccando un Paese NATO, in pura teoria, si metterebbe in un bel guaio, difficile da gestire. Questo, ripeto, in teoria!

D’altra parte, il mettere in campo misure di presunta deterrenza, come sta facendo la NATO nel Baltici e in Polonia, presumendo nella Russia un avversario minaccioso (capacità e volontà), non fa altro che ridicolizzare quelle stesse misure, pur molto costose, in quanto, per un verso esse sarebbero assolutamente inefficaci – come intuibile, schierare permanentemente il corrispettivo di una o due brigate, a fronte di una dozzina o giù di lì, è patetico – a frenare un’intemperanza russa improvvisa. Dall’altro, l’evidente attuale mal celata disaffezione dei membri sconfessa la presunta ferrea unità e coesione dell’Alleanza, come viene mendacemente venduta dalla corrente narrativa. In sostanza, tutto qui? Solo quattro battle groups?

Soprattutto, quelle stesse misure rischiano di far saltare il livello del confronto in un campo estremamente pericoloso, quello volatile delle percezioni, un campo che si pone oltre la logica della deterrenza e della dissuasione, un campo indeterminato e instabile, che può far evolvere rapidamente un nonnulla in un aperto conflitto.

Che cosa ha contribuito a creare questo passaggio pericoloso? La concezione “debole” della minaccia ibrida. Importata dagli USA e completamente adottata senza colpo ferire dalla NATO, essa ha contribuito a rendere labili i confini tra i due concetti – deterrenza e dissuasione – grazie a una lettura volutamente forzata della vicenda della Crimea e del Donbass, laddove la percezione è resa più nevrotica dalle parole e dalle immagini, che da sempre sono strumenti di guerra.

E le parole scaturiscono da pensieri che pur devono sostenere una ragion d’essere, ma che venendo da più lontano, mettono a nudo una grossolana mancanza di autonomia concettuale. Un segnale debole, quindi. Qualcosa che è evitabile solo con un deciso e coraggioso cambiamento ovvero con una separazione.

Non so se la NATO produrrà un qualcosa di suo, riprendendo quanto pubblicato di recente dalla US Defense Intelligence Agency con il titolo “Russia Military Power”(6). Se lo facesse sarebbe un ulteriore segnale debole. Il documento è interessante da scorrere, comunque. Ma segue un modello degli anni della contrapposizione. Pertanto, andando ben oltre la necessità di dare un’informazione completa su una minaccia, intende sottolineare e convincere che si sta vivendo in una fase di nuova contrapposizione. Questa sì ibrida, secondo me, e non nel senso codificato dalla NATO, perché potrà risentire decisamente di quanto accade in Ucraina e soprattutto in Siria, dove le parti contrapposte di fatto combattono dalla stessa parte contro un nemico comune, l’ISIS, ma proteggono e guidano entità tra loro nemiche. Il documento della DIA, in sintesi, vorrebbe rappresentare una sorta di indiscutibile verità alla quale inchinarsi e, secondo la quale, sul piano più pratico, motivare, giustificare e spingere la spesa militare degli alleati più riluttanti al fatidico 2%. Il nemico ri-codificato aiuta l’economia.

Queste le parole.

E le immagini? E siamo alla seconda ragione. Più facile.

L’esercitazione Saber Strike 17 (7) si è svolta dal 28 maggio al 24 giugno scorsi, in differenti momenti, con modalità ed eventi, condotti in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, di diversa tipologia. Secondo il media-kit essa “is this year’s iteration of a long-standing U.S. Army Europe-led cooperative training esercisse  con l’obiettivo di “training and exercising the NATO enhanced Forward Presence (EFP) battle groups, focused on promoting interoperability with Allies and Partners to improve joint operational capability in a variety of missions”. Ora, sia ben chiaro, la vita del soldato si basa sull’addestramento continuo, suo individuale e dell’unità in cui è inquadrato. Su questo nulla da dire, più ce n’è e meglio è. Nonostante i costi. Ma proprio perché costa deve essere efficiente ed efficace.

Della NATO c’erano probabilmente solo le bandiere dei circa venti Paesi partecipanti ma, nella realtà è stata un’attività completamente pilotata dall’US Army Europe, il cui attuale comandante, il generale Hodges non smette di preoccuparsi della soglia di Suwalki e di farcelo sapere, di tanto in tanto, come se non fosse un qualcosa che persino il più stupido dei comandanti di plotone potrebbe comprendere, guardando quella parte del mondo su Google Maps. Ma, finalmente, ne ha avuta ampia soddisfazione nell’ultima settimana dell’attività, quando tutta l’attenzione è stata rivolta a quel passaggio stretto tra la Bielorussia (altro avversario?) e l’enclave di Kalinigrad, con un’unità, credo polacca, che l’ha attraversato arrivando in Lituania, credo anche con un ardimentoso river crossing.

Cosa significa questo? Semplicemente che la struttura di comando esistente della NATO, almeno dal livello operativo in giù, è inutile. Si dia uno sguardo ai comandi USA in Europa e ai loro generali cui è assegnato un ruolo a “doppio cappello”, cioè nazionale e NATO.

Il comando NATO di Brunssum (JFC Brunssum), dei cui costi si fa carico anche la nostra nazione, e non solo per gli emolumenti versati al personale nazionale inquadratovi (credo intorno a 1,5 milioni euro/anno), ha preso parte nell’esercitazione, è vero, ma con un ruolo non di primo piano nella realtà, solo con una cellula di risposta (Hicon – Higher Control), non importa quanto robusta, posta alle dipendenze della direzione di esercitazione, condivisa questa tra USA e Lettonia, e solo per i primi dieci giorni circa. Poca roba. Altro segnale debole!

In sostanza, succedesse veramente che a Putin girassero gli “zebedei” e decidesse di affacciarsi sul Baltico passando per Tallinn o per Riga, e lo farebbe in pochissime ore, chi avrebbe il mazzo in mano sarebbero gli americani, i quali ovviamente, hanno già dei piani ad hoc, in barba a quelli pur studiati della NATO. In buona sostanza, la NATO Enhanced Forward Presence è un’idea americana, strutturata dagli americani a loro uso e beneficio, ma chi arriverebbe per primo sarebbero loro, in barba a tutte le NATO Response Force e gli adattamenti vari creati con il Readiness Action Plan (8). Perché gli USA solo hanno gli strumenti per trasformare la readiness in vera responsiveness (vedi precedente nota 2). Quindi, al di là dei formalismi di facciata, dei vari cerimoniali e della scelta delle posizioni per il protocollo delle fotografie di gruppo, nell’esercitazione di cui sopra l’Alleanza avrà svolto solo un ruolo subordinato. Segnale debole! Esiste … quindi pensa! Anzi, peggio, fa finta di pensare quello che hanno già pensato gli altri.

I segnali deboli, quindi, dovrebbero suggerirci alcuni interrogativi. Infatti, ci sarebbe da chiedersi il perché la Russia debba costituire una minaccia dopo i fatti della Crimea e per il conflitto in Ucraina e gli Stati Uniti no, pur avendo essi data propulsione alla logica del regime change, come in Iraq e in Libia. E, perché no, dopo aver spinto l’UE ad attrarre nel proprio mercato anche l’Ucraina. Oppure domandarsi quale sia il motivo per cui la Russia sarebbe minacciosa a causa del suo intervento in Siria quando tanto qui, quanto in Iraq, per non parlare di Yemen, Somalia e così via, ci siano anche altri che vi intervengono militarmente. E, ancora, chiedersi come mai sempre la Russia dovrebbe essere una minaccia solo perché a casa sua è in grado di condurre esercitazioni, con decine di migliaia di soldati, quando siamo stati noi della NATO a rimangiarci quel “Founding Act”. E, poi, infine, esaminare le ragioni per cui le nazioni responsabili, come ha detto Trump in Polonia – ma lo avrebbe detto anche Obama e altri prima di lui – sono solo quelle che intervengono dove e come vogliono, mentre in caso della Russia, quello che fa è sempre irresponsabile.

Non è un salto logico necessariamente degno solo dei migliori geni il convincersi che quello che più piace, il che rappresenta un fatto soggettivo, non è detto che sia una verità, che è invece un fatto oggettivo. Il non volerlo cogliere è un altro segnale debole. È però vero che l’ambito internazionale vive anche di questi paradossi e questi sfuggono di norma a una logica etica. Ma la verità e la realtà vengono sempre a galla. La prima, come scoperta di qualcosa che c’era anche prima, ma che si è voluto nascondere, e mette a nudo l’irresponsabilità e il doppio fine delle azioni; la seconda viene a galla come emergenza di un evento reale che prima non c’era, e che mette a nudo l’impreparazione e l’incapacità di prevedere per poter porre un rimedio all’occorrenza. Tanto più che quell’emergenza potremmo averla favorita noi per pigrizia ovvero per ignavia.

Ora, che altre potenze facciano il loro gioco non è da discutere. A noi, cittadini, compete il capirlo per tempo e chiedere eventualmente il conto ai nostri governanti sul perché abbiano comunque sentito la necessità o l’obbligatorietà di accondiscendere agli interessi di altri, svilendo quelli nostri, per esempio rimanendo incatenati a strutture che hanno fatto il loro tempo, che non smettono di trasmettere segnali deboli e che costano tanto. Organizzazioni dove continuiamo a fare la parte del servo sciocco, magari contenti per una pacca sulle spalle, che è un altro segnale debole, laddove non lo si contraccambi con la medesima intensità.

E Gentiloni a Trump, quella pacca, non l’ha restituita!

3() Uno sguardo in materia si rende fondamentale: “Preemptive attacks are based on the belief that the adversary is about to attack, and that striking first will be better than allowing the enemy to do so. Preemption may be attractive because it promises to make the difference between victory and defeat, or merely because it will make the ensuing conflict less damaging than it would be if the enemy struck first. Preemptive attacks are quite rare, though the possibility of preemption was a central concern of nuclear strategists during the Cold War; the archetypical example is Israel’s attack against Egypt in 1967 that began the Six-Day War. Preventive attacks are launched in response to less immediate threats. Preventive attack is motivated not by the desire to strike first rather than second, but by the desire to fight sooner rather than later. Usually this is because the balance of military capabilities is expected to shift in the enemy’s favor, due to differential rates of growth or armament, or the prospect that the opponent will acquire or develop a powerful new offensive or defensive capability. Israel’s 1981 raid on the Osirak nuclear facility was a classic preventive attack, as was Operation Iraqi Freedom, the U.S.-led invasion of Iraq in 2003. Preemptive and preventive attacks have important differences; in addition to those already noted, international law holds that truly preemptive attacks are an acceptable use of force in self-defense, while preventive attacks usually are not. However, they are driven by similar logic, and since it is often useful to talk about both at the same time, the authors use the term anticipatory attack to refer to the broader category that includes both types of strategies. Anticipatory attack can be viewed as a continuum ranging from purely preemptive to purely preventive actions: All of them are offensive strategies carried out for defensive reasons, based on the belief that otherwise an enemy attack is (or may be) inevitable, and it would be better to fight on one’s own terms. Preemptive and preventive attacks are distinct from ‘operational preemption,’ taking military actions within an ongoing conflict that are intended to reduce the enemy’s capabilities or to achieve other effects by acting before the enemy launches an attack or takes some other undesirable action, such as deploying or dispersing its forces. Anticipatory attacks often involve operational preemption, but need not do so, and operational preemption may occur in any sort of conflict”- Karl P. Mueller, PhD, Senior Political Scientist at RAND Corporation.

4() Anche se c’è da ipotizzare che le ripetute affermazioni americane di non aver ancora pronto un sistema di difesa dai missili intercontinentali nord coreani potrebbe essere l’accorta “narrative” per supportare prima o poi un attacco “preventive”.

5() Il targeting effettuato in Siria dai russi in realtà è una misura dissuasiva rivolta all’occidente, con lo scopo di far capire e vedere che cosa si è ora in grado di fare, ma viene condotto in un altro scacchiere.

8() l’implementazione del piano ha visto la creazione di una Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), di 8 NATO Force Integration Units (NFIU), di un nuovo comando di corpo d’armata multinazionale in Polonia e di un nuovo comando di divisione multinazionale in Romania.

*Generale CA ris.

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