Uno sguardo in casa, là dove finisce veramente il Mediterraneo

Di Vincenzo Santo*

MED 2017 è la terza edizione della conferenza internazionale co-organizzata dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e dall’ISPI. L’evento trasformerà Roma in un hub globale per un dialogo di alto livello sul Mediterraneo Allargato, con l’obiettivo di ripensare gli approcci tradizionali e disegnare una nuova ‘agenda positiva’. Saranno presenti oltre 800 leader del mondo politico, economico e culturale – tra cui 45 capi di Stato, ministri e vertici di organismi internazionali – e 80 think tanks e istituzioni internazionali da 56 Paesi della regione Mediterranea ed oltre.” Così, sulla pagina web dell’ISPI si presenta l’evento1.

Intanto, sarà da vedere come si concilierà con il 5° African Union-European Union Summit che sarà in svolgimento ad Abidjan ((Costa d’Avorio) più o meno nello stesso periodo, subito a seguito del China-Africa Investment forum in Marocco. Poi bisognerà vedere come il meeting riuscirà ad armonizzare il suo narrative con la nuova politica per l’Africa che Macron avrà declamato in Burkina Faso, ore prima.

Il MED 2017, non illudiamoci, sarà un’ennesima passerella, dal 30 novembre al 2 dicembre, dalla quale io temo verranno fuori i soliti consumati paroloni e tantissime belle idee, e forse neanche quelle. Ma come noto, non sempre le belle idee sono anche buone idee.

Il sito promuove una pubblicazione (Looking Ahead: Charting New Paths for the Mediterranean), edita per l’occasione2, dalla quale si evince che il Mediterraneo si allarga solo ad Est. Sbagliato! Avendola scorsa, personalmente non ho trovato questi decantati “new paths”. Ma una cosa è certa, l’approccio è essenzialmente “MENA centric” e lo si intuisce spulciando anche l’elenco dei relatori. Di questi, l’unico che io credo potrà dirci qualcosa di pragmaticamente interessante è quel volpone di Lavrov, che pare sarà presente.

Come specificato, “il Rapporto raccoglie approfondimenti, analisi e raccomandazioni di policy da diverse prospettive e paesi, avvalendosi anche della collaborazione di 15 partner scientifici” e fa squadra con un altro documento, una pretenziosa “Strategia per il Mediterraneo”3. Opera della Farnesina che, a conferma di quanto sopra anticipato, poco si preoccupa anch’essa dell’Africa Sub-Sahariana, a parte i pochi riferimenti grafici al Sahel e che, comunque, laddove si sbilanci un po’ di più, lo fa in riferimento alla gestione dei flussi migratori. Infatti, viene specificato che “… Per dare maggiore concretezza e continuità all’impegno italiano nella collaborazione con i Paesi di origine e transito dei flussi migratori, è stato istituito, con Decreto ministeriale, il ‘Fondo per l’Africa’”.

Non male l’idea, in linea di massima. Tuttavia, andando nel dettaglio4, un lettore sospettoso ne trae solo l’imbarazzante idea che diamo tanti nostri soldi ad “altri” senza poi seguirne il tracciato. Poi crediamo di ripulirci la coscienza organizzando megagalattici meeting dove strombazzare il nostro impegno. Come il MED.

Infatti, difficile è capire chi controlli questi progetti. Quello che è veramente importante comprendere è che ci troviamo dinanzi a un mondo direi impenetrabile, nonostante gli sforzi “di trasparenza” del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI)5. Senza contare i denari che partono, anche nostri, tramite l’Unione Europea con i suoi vari e tanti progetti. Una galassia veramente oscura.

Dai “nuovi partenariati”, a loro volta affiancati da un Piano europeo di investimenti esterni (PIE) e da un Fondo europeo di sviluppo sostenibile (EFSD), si va alla Economic Resilience Initiative della Banca Europea per gli Investimenti oppure al Piano d’Azione della Valletta e al Fondo Fiduciario di Emergenza per l’Africa con 1,8 miliardi di euro. E che dire della Deauville Partnership, piattaforma di dialogo e cooperazione avente lo scopo di sostenere sei Paesi arabi in transizione (Egitto, Giordania, Libia, Marocco, Tunisia e Yemen) nell’attuazione di riforme di governance? E che dire del relativo MENA Transition Fund (MENA TF), nel quale, alla vigilia dell’assunzione del mandato di Presidenza G-7, l’Italia aveva già versato un contributo di 5 milioni di euro?

Siamo prigionieri, letteralmente, oltre che delle spinte liberal progressiste nostrane anche delle fantasiose elucubrazioni europee che, dalla Politica Globale per il Mediterraneo (PGM), alla Rinnovata Politica Mediterranea (RPM) sino all’Unione per il Mediterraneo (UM), passando per il Processo di Barcellona, ci ha portati alla politica Europea di Vicinato (PEV) e all’Agenda di Associazione (AgA), nonché ai programmi derivati dal Partenariato sulle Migrazioni (PM) e le iniziative che sono parte della Strategia per il Sahel (SS)6. Politiche e iniziative che, dati i risultati che sono dinanzi ai nostri occhi, non hanno mai approdato in linea di massima a nulla che non siano scatole vuote, tra loro normalmente sovrapponibili, o salotti buoni dove discorrere del niente. Salotti comunque costosi che vedono miliardi versati7 senza un effettivo controllo sui risultati. E, per finire, cosa possiamo trarre dal Processo di Rabat ovvero dal suo supposto miglioramento, cioè il Processo di Khartoum?

Insomma, progetti e processi che non riescono a non farmi sorgere il dubbio che abbiano una matrice politica di parte, volta a favorire più che a scongiurare l’emigrazione selvaggia e, inoltre, a trazione francofona, dato che le aree dove sono destinati i fondi sono per lo più quelle delle ex colonie francesi riunite nell’Unione Economica e Monetaria dell’Africa Occidentale (UEMOA)8 oppure nella Comunità Economica e Monetaria dell’Africa Centrale (CEMAC)9, tutti Paesi che utilizzano il Franco Africano il cui cambio con l’Euro è regolato dalla Francia. Ma guarda un po’! Vuoi vedere che chi manovra in Europa su queste cose ha un piede sotto la Torre Eiffel?

Prima di scorrere le pagine di questo sorprendente documento bisogna aver respirato a fondo per scongiurare il rischio di veder alzarsi la pressione arteriosa nell’intuire, a ragione, quanti soldi vengono riversati (di alcuni viene riportata la cifra di altri no) in un ginepraio di cui io ho tracciato solo un sin troppo facile riferimento.

Insomma, poco viene fatto per far comprendere a noi che paghiamo le tasse quanto sborsiamo per ciascuna bella idea, a chi vengono assegnati effettivamente i soldi, la loro reale destinazione, perché e con chi si portano avanti i vari progetti e, infine, chi li controlla e come vengono tratte le risultanze. Insomma un qualcosa che consenta di dare una risposta positiva alle domande: sto facendo la cosa giusta? La sto facendo bene? Veramente difficile. Ma scommetto che neanche Alfano sarebbe in grado di districarsi a dovere, come gli competerebbe, in questo grande marasma.

Avere una strategia significa avere individuato degli obiettivi chiari e concreti, aver fissato come li si vorrebbe conseguire, e non necessariamente buttandoci solo denaro, designare il “chi” deve portare a termine i vari compiti, chi deve controllarli e chi deve trarne le conclusioni, cioè la verifica che quell’obiettivo sia stato conseguito o no. Il tutto, attenzione, solo per i propri interessi. Altrimenti non è strategia, la si chiami “pippo”!

Non serve a nulla brandire un’altra bellissima idea di un Piano Marshall per l’Africa se questo non è parte di una strategia con degli obiettivi e delle modalità chiari, inclusa una modalità inequivocabile per il controllo e per il riporto dei risultati. Soprattutto pensando ingenuamente che il Marshall fosse solo uno strumento umanitario e non un qualcosa che ha anche ben accomodato qualche utile ricco tornaconto agli Stati Uniti.

Il documento di cui sopra parla soltanto di linee di sversamento del denaro pubblico oltremare giustificate con deboli principi (ancorché condivisibili). Di tutto il resto, pur fondamentale, non c’è traccia. Quindi non è un documento strategico, bensì un qualcosa che serve a dare una promozione speciale a chi lo ha redatto, perché ci ha perso il suo tempo, pur prendendo in giro gli italiani, come per il Libro Bianco della Difesa. In secondo luogo, necessaria giustificazione a posteriori dei finanziamenti (chiamiamoli così) che si è deciso di gettarvi. Infine, un documento strategico non può avere come sottotitolo “Stabilizzare le crisi e costruire un’agenda positiva per la regione”. Cioè, la mia strategia sta nel redigere un’agenda? E che sia positiva? Roba da pazzi.

Soprattutto, non guarda con la giusta attenzione a dove realmente il Mediterraneo oggi si allarga.

Mare tra le terre, quello che Giulio Cesare chiamò Mare nostrum. Mini, nel suo “Mediterraneo in guerra” attribuisce il significato che Roma avrebbe dato a quel “nostrum”, un bene pubblico e, come bene pubblico e di pubblica utilità, era necessario fosse protetto dalla potenza militare. Un’unica e indivisibile identità che, specifica Mini solo dopo la caduta di Roma tornò a essere spezzettato e ripartito nei vari mari che oggi conosciamo. Ma come oggi noi, allude il Mini, in qualche modo eredi dei Romani, possiamo “difendere” questo specchio d’acqua con un’attuale legge internazionale del mare (UNCLOS) che garantisce la libera navigazione e fissa le regole perché tale libertà sia fruibile da tutti? Soprattutto in ragione dei traffici illeciti, inclusa l’immigrazione incontrollata, che vi hanno luogo? L’errore di fondo, dice sempre Mini, è che la sicurezza di questo mare è vista come fatto esclusivamente marittimo ed essenzialmente sub-regionale, dimenticandone il valore di proprietà pubblica, indivisa e di pubblica utilità che era nella visione strategica romana.

Mini ha ragione nel sottolineare che il Mediterraneo debba essere qualcosa di più, un raccordo, non un diaframma, una separazione, un luogo dove far valere il diritto che, secondo Carl Schmitt, nasce dalla terra, cioè da come sia la terra la misura della proprietà dell’individuo o della sovranità dello stato. In sintesi, ne deduce il sottoscritto, la sicurezza e la prosperità nazionale si devono servire di questo mare quale area critica da difendere e, per difenderla, occorre proiettarsi dall’altra parte. Ma attenzione, ben oltre la frontiera magrebina. Il Mediterraneo oggi finisce ben oltre.

L’idea di un Mediterraneo Allargato aveva colto questo passaggio, ma venne poi subordinata a quella americana del Grande Medio Oriente con un baricentro e un centro di interesse differenti, facendoci coinvolgere in Afghanistan e in Iraq, distraendoci così dal capire cosa ribollisse al di là della costa settentrionale dell’Africa, al di là del Maghreb, cioè nella fascia sub-sahariana. Accusa Mini, non a torto, che tale approccio ci ha spinti ad assumere solo e esclusivamente una visione marinara verso l’Est, con baricentro appunto il Golfo Persico, “giustificando una flotta d’altura e mezzi aeronavali altrimenti inutili e inutilizzabili”, magari dando ristoro a interessi di parte per chi otteneva lucrosi contratti di cantieristica e armamenti più costosi. Ma dimenticando, ribadisco, che una tale idea non può prescindere dalla massa di terra che su quelle distese d’acqua e sulle sue immediate fasce costiere pur insiste. Sarebbe come accontentarsi di galleggiarvisi sopra senza controllare che cosa ci sia e accada attorno.

È la differenza tra fermarsi a guardare il paesaggio, cioè fare il turista, oppure capire come la geografia, non solo quella fisica, presenti minacce, pericoli e opportunità al conseguimento degli obiettivi che ci si prefigge di conseguire. Cioè fare l’uomo di stato. Ma problemi e opportunità non si affrontano né si risolvono o si colgono solo galleggiandovi sopra.

Il Mediterraneo, come ben noto, è da sempre luogo di incontro e scontro di varie culture, grazie agli scambi commerciali ma anche ai conflitti. Le sue rotte, dice giustamente sempre il Mini sono la continuazione delle linee di comunicazione terrestri, un unico sistema che tuttavia non ha mai visto tra le genti che vi si affacciano, “omogeneità e integrazione”. E quelle linee di comunicazione terrestri, quelle che più da vicino ci minacciano oppure offrono opportunità, oggi affondano le proprie radici nel continente africano.

L’importanza del Mediterraneo è fin troppo nota. Dal 7° rapporto annuale di SRM (Centro Studi e Ricerche Mezzogiorno) sulle “relazioni economiche tra Italia e Mediterraneo”, tenutosi lo scorso ottobre, emerge che nel Mediterraneo passa il 20% del traffico marittimo mondiale, il 25% dei servizi di linea container e il 30% del traffico petrolifero10. Il rapporto registra un sensibile aumento del traffico attraverso Suez negli ultimi 5 mesi con circa 700 milioni di tonnellate di merci e più di 13 mila navi. E nuovi attori commerciali che penetrano nell’area come la Cina e la Germania. L’interscambio tedesco è infatti cresciuto dal 2001 più del 120% mentre quello cinese dell’840% circa, senza considerare i progetti cinesi legati all’OBOR (One Belt One Road – oggi più volte riportata come BRI, Belt and Road Initiative) con infrastrutture portuali e aeroportuali nell’area MENA per circa 27 miliardi di dollari.

Nel Mediterraneo transitano circa 500 milioni di tonnellate di greggio all’anno, pari al 30% del traffico mondiale, e 30 milioni di tonnellate di gas liquido. Ma anche il 25% del fabbisogno energetico europeo passa attraverso il mare proveniente dalla sponda sud11. Nel 2015 ENI ha scoperto un giacimento di gas con un potenziale di 850 miliardi di metri cubi a largo delle coste dell’Egitto, una “scoperta di gas di rilevanza mondiale”. Il pozzo si chiama Zohr 1x, si trova a 1450 metri di profondità e dalle prime indagini ha mostrato uno strato di idrocarburi per oltre 630 metri. Il giacimento, considerato la più grande riserva singola di gas naturale del Mediterraneo, si trova in un’area che è nota da anni per essere ricca di gas. Non c’è più alcun dubbio sul fatto che una vasta parte del fondo marino che si estende dalla Grecia a Israele, il cosiddetto Bacino del Levante è densamente ricca di petrolio e gas, e sono giacimenti in grandissima parte ancora non sfruttati e che necessitano di adeguati investimenti. Le stime disponibili della US Geological Survey indicano che tutto il Bacino da solo contiene circa 3.450 triliardi di metri cubi di gas naturale e circa 1,7 miliardi di barili di petrolio. L’importanza di questi numeri è chiara se si considera che il consumo annuale di gas in Europa è di circa 500 miliardi di metri cubi, di cui circa 125 provenienti dalla Russia. Dalle stime finora elaborate si considera che entro il 2020, la regione orientale del mediterraneo potrebbe fornire circa il 20-25% del fabbisogno di energia in Europa. Ci si incamminerebbe in tal modo verso il raggiungimento di alcuni tra gli obiettivi energetici più importanti dell’UE, compresa la diversificazione delle fonti e delle vie di approvvigionamento, in modo da compensare le sue riserve in contrazione. Integrando e riducendo la dipendenza da Mosca? Discutibile, già per Zohr, l’ENI ha ceduto il 30% della sua partecipazione alla russa Rosneft, e questa a sua volta ha ceduta una sua fetta a una compagnia cinese. Tutto ciò, in un momento in cui si registra una crescente domanda di gas naturale nella regione del Mediterraneo stesso e nei mercati vicini in Europa meridionale.

Incredibile solo a pensarlo, è l’area in cui abbiamo fatto un tifo sfrenato, e stupido in quanto tale, per le primavere arabe. In proposito, mi chiedo quali analisi siano state fatte. Visti i risultati, nessuna degna di questo nome. Temo solo il consueto infantile e pigro scodinzolamento all’idea tutta americana (di Obama ma prima ancora di Bush) che assecondandole avremmo avuto dei benefici nella lotta contro il terrorismo. Derivazione fisiologica dell’assunto del “caos creativo”, già sdoganato con la guerra in Iraq, con il quale si sperava in un effetto domino, nella convinzione che una maggiore rappresentatività politica avrebbe scongiurato il ricorso alla violenza terroristica. Pazzia!

Tutto sommato, le primavere arabe non hanno portato a grossi risultati, sotto l’aspetto politico. Se mai, tanta instabilità e un flusso incredibile di immigranti, a dimostrazione che i processi di democratizzazione, che nascano dal basso o che vengano dall’alto, hanno sempre trovato difficoltà, soprattutto nell’area. Il nostro appoggio alle cosiddette “primavere” ha di fatto rischiato di vanificare i dettami dei processi come quello di Barcellona che, nella realtà, si basava sulla cooperazione di regimi comunque autoritari, relegando lo sforzo di democratizzazione in un secondo piano, non andando comunque oltre la sfera retorica.

Sempre a proposito di Maghreb, qualche osservatore ha sottolineato che, tuttavia, in un sistema di fatto ormai multipolare come è nell’area, per via della presenza di molti attori in grado di polarizzare gli orientamenti, non escluso il differente orientamento nell’interpretazione religiosa, la tentazione di accentrare sempre più il processo decisionale nei singoli stati favorisce l’accentramento del potere. E il disordine che noi oggi vediamo, dovuto a vari fenomeni, rifugiati, displaced persons, attori non statali, contribuisce a questo processo. Quindi, l’aumento dell’insicurezza o della sua percezione favorisce il ritorno all’enfasi sull’unità nazionale, e, in ultima analisi, al ritorno a strutture autoritarie. Vedasi l’Egitto oppure sotto diversa sfumatura la Turchia. Ma sempre autoritarie, anche se con caratteristiche distributive più o meno forti, sono il Marocco, l’Arabia Saudita, l’Iran, la Giordania e l’Algeria. Maggiore pluralismo si osserva in Tunisia, pur tra mille difficoltà e problemi di sicurezza, e in Libano dove un equilibrio molto delicato di fatto vede uno stato, Hezbollah, nello stato. Insomma un trend di cui di cui probabilmente, con un po’ più di pelo sullo stomaco come del resto dimostrano di avere altri amici/alleati, approfittare.

I trasporti marittimi sono cambiati ma non solo per la containerizzazione e la dimensione delle navi, anche per il ruolo che i singoli porti rivestono per e verso l’entroterra. La capacità di espansione e di innescare un sistema intermodale è divenuta una discriminante assoluta e che sta mettendo in luce le difficoltà dei nostri porti del Tirreno settentrionale a mantenere le posizioni di vertice continentale mentre quelli dell’Adriatico settentrionale, pur non presentando volumi paragonabili a quelli del nord Europa, mostrano una sensibile crescita negli ultimi anni.

L’ideale che faceva capolino negli anni ’90 che vedeva il mare Mediterraneo, e quindi l’Italia, al centro delle grandi rotte tra estremo oriente e Americhe non si è al momento realizzato. Mancanza di coordinamento, situazione geografica il più delle volte penalizzante del nostro sistema portuale rispetto al nord Europa – in quanto i porti mediterranei sono per lo più incuneati e limitati nei loro processi di ampliamento dagli ambiti urbani preesistenti e dalla morfologia – hanno contribuito a questa sofferenza. Fatto sta che i porti nord europei movimentano il 70% dei container europei, proprio grazie in larga misura a una ben differente realtà infrastrutturale dell’entroterra. Ma non solo. Concorrono infatti una cultura logistica diversa e qualità organizzative superiori che garantiscono ai clienti tempi e costi certi.

Ma anche il sud del mare ci deve preoccupare. Una sorta di “Mediterraneo a rovescio” si sta delineando. I porti nazionali subiscono la forte concorrenza anche da parte del Marocco con Tangeri, della Turchia con Ambarli e dell’Algeria con Djen Djen. E di Port Said in Egitto. Per esempio, il motivo per cui la Maersk aveva deciso di abbandonare il porto di Gioia Tauro stava nel fatto che questo garantiva una movimentazione di 22 o 23 container all’ora contro i 32 circa di Porto Said con un costo medio orario per un lavoratore egiziano di soli 3 euro a fronte dei 22 italiani12.

Pertanto, non è solo una questione geografica ma anche organizzativa e di offerta.

Ma, se la differenza tra i porti italiani rispetto ai grandi scali del Nord-Europa la fanno la qualità e l’affidabilità dei sistemi di terra collegati ai porti, l’unico campo su cui competere è l’innegabile vantaggio che possiamo mettere in campo per un migliore posizionamento geografico da valorizzare proprio là dove vi sono ancora potenziali inespressi. Alcuni nostri esperti affermano, che “oggi l’Italia si trova, ad esempio per quel che concerne i porti del Mare Adriatico nord-orientale, in una posizione invidiabile per svolgere funzioni di gate (ferroviario) per l’entroterra dell’Europa centro-orientale, ad esempio nel raggio dei 700-1000 Km, regione nella quale la produzione industriale, e quindi l’import-export marittimo, cresce molto di più che nell’Europa occidentale. É chiaro che questa partita si può vincere se la qualità e l’affidabilità dei sistemi e delle connessioni (infrastrutture e servizi, a partire da quelli ferroviari) è di livello adeguato. Ed è anche a questo che puntano i cinesi”. E i cinesi sono già al Pireo che può capitalizzare la sua vicinanza al Canale di Suez, oggi allargato, divenendo un hub di distribuzione importante per e dal mercato cinese, che per l’80% viaggia via mare.

Insomma, non ho trovato traccia di una seria strategia per i nostri porti in quel documento “di strategia” della Farnesina. Si inizi a cambiare approccio anche in questo settore se proprio il “Mare nostrum” ci sta veramente a cuore. E neanche per la pesca esiste una strategia. Attività primaria che nel Mediterraneo accompagna l’uomo dagli albori della civiltà, prima ancora dello sviluppo dell’agricoltura, l’economia ittica vi continua a giocare un importante ruolo socioeconomico: nel Mediterraneo, si pesca l’1,7% delle catture mondiali, pari, però, al 4% del valore, per il maggior pregio delle specie pescate con un esercito di oltre 110 mila pescatori e più di 40 mila pescherecci, spesso obsoleti, di cui l’80% inferiore ai 12 metri. Si tratta di piccola pesca artigianale per l’80%, messa a forte rischio dall’attività di una flotta che svolge attività industriale, battente bandiera giapponese, coreana, più spesso bandiera di comodo, come quella di Panama o dell’Honduras, che continua a pescare oltre i limiti delle acque territoriali in assenza di qualsiasi controllo. Si inizi a fare squadra con gli altri paesi rivieraschi allo scopo di titolare il mare come una riserva ad uso esclusivo per solo coloro che su di esso si affacciano.

L’Italia, viene riportato, conserva tuttora una posizione rilevante nelle relazioni commerciali con i Paesi MENA: 70 miliardi di import-export stimati in crescita ad 80 miliardi nel 2018. Rispetto al 2001 gli scambi sono cresciuti del 54,8%. Sono importanti mercati di sbocco per le imprese italiane con un valore di oltre 41,4 miliardi di esportazioni pari al 10% dell’export complessivo del nostro paese e più di quanto noi esportiamo negli Stati Uniti. Ma anche i nostri IDE (Investimenti Diretti Esteri) verso l’area hanno superato i 45 miliardi di dollari.

Certamente non bruscolini, ma per la maggior parte un impegno dipendente più dal coraggio o comunque dall’abilità dei singoli operatori nazionali che da un progetto-paese che sappia indicare direzioni e opportunità. Il che lascia anche pensare che ci siano margini di miglioramento davvero straordinari se solo si volesse passare dalle parole ai fatti.

La geopolitica evidenzia il punto secondo il quale assicurarsi una predominanza politica non è soltanto una questione di avere potere (in termini di possedere risorse naturali), di acquisizione di ricchezza o di possedere la capacità di proiettare forze militari, ma è anche dipendente dalla configurazione del campo, dello spazio entro il quale quel potere è esercitato o si vuole esercitarlo. quello spazio o campo con il tempo può variare nella misura, in più o in meno, data la natura mutabile delle alleanze o l’emergere di nuovi avversari o nemici, nonché a causa di cambiamenti tecnologici, nuove esigenze di sicurezza e prosperità, per errori di valutazione e di decisioni politiche o altro. Fermo restando che stare in un’alleanza non rappresenta un interesse, ma solo un modo per garantirselo. L’obiettivo di chi formula politiche non può che essere quello di estendere la configurazione geografica dello spazio entro cui quel potere è esercitato, virtuale o materiale. Spesso, qualcosa che non sempre si può dire …. Ma fare sì!

Per il senso umanitario, catto-liberal-progressista il Mediterraneo si forma lì dove arriva, le rive del Nord Africa, ma per ragioni relative alla sicurezza e alla prosperità deve arrivare a inglobare il Sahel. Sì, proprio quella fascia di territorio dell’Africa sub-sahariana tra il deserto del Sahara e la savana del Sudan. Qualcosa è cambiato e dobbiamo capirlo presto.

Soprattutto la formidabile avanzata della Cina sul continente africano rischia di comprimere le nostre auspicabili aspettative di allargamento del mercato da quelle parti, per la forte differenza dei tempi di azione e reazione. Mentre da noi si dibatte e ci si perde pensando al Mediterraneo solo come uno specchio d’acqua, dall’altra parte si agisce con velocità, fermezza e guardando ben oltre.

Peraltro, non potendo confrontarsi con la marea cinese in atto, ci farebbe bene prendere a confronto un nostro vicino simile, la Francia. Diciamo che nel nord Africa, dal Marocco all’Egitto, almeno le bilance commerciali nostra e dei nostri cugini transalpini si equivalgono. A parte, però, la decisa deriva a loro favore che al momento sembra stia prendendo la situazione libica dove noi, illusi dall’ONU, patteggiamo per un perdente, Serraj, mentre loro, in perfetta autonoma coscienza dei propri interessi, appoggiano un possibile e probabile vincente, Haftar. Cosa poi accadrà del nostro mercato energetico da quelle parti, ove loro risultassero dalla parte della ragione, è facile intuirlo. È pur vero che in area Egitto, alle imbecillità dimostrate per il fatto Regeni, ha fatto seguito l’importante scoperta del giacimento Zohr le cui riserve in gas promettono bene per l’ENI, e per noi. Speriamo. L’ENI è tra le più attive nel Mediterraneo, tuttavia temo che ciò non basterà a impedire che la ricostruzione delle infrastrutture libiche del settore vedano l’intervento o francese oppure americano. E la libica NOC (National Oil Corporation) ha già avviato rapporti con gli USA13in tal senso.

Nella fascia del Sahel, invece, loro hanno la meglio, per tradizione, storia e chiarezza di obiettivi. Un interscambio che supera il 10 miliardi di Euro, più del triplo del nostro. Il Nord Africa amplifica le sfide di sicurezza, le crisi umanitarie e le guerre civili proprie del Sahel e dell’Africa sub-sahariana, situazioni che mettono da una parte a dura prova gli interessi commerciali europei, dall’altra favoriscono il flusso migratorio verso la sponda nord del Mediterraneo, quindi l’Italia, e la maturazione del terrorismo di matrice islamica.

Già questo sarebbe dovuto bastare ai nostri politici per comprendere che alla vuotezza e ignavia europee si doveva già da tempo contrapporre il soddisfacimento dei propri interessi, appunto sicurezza e prosperità.

Se parliamo di sicurezza anti-terrorismo, quindi di lotta contro il terrorismo di matrice islamica, allora dobbiamo fare riferimento soprattutto a cosa la Francia fa in Africa14. Certo, abbiamo la Siria e i suoi dintorni, e altro ancora, ma nel Continente nero è il Paese europeo più impegnato in questa lotta. Almeno così appare. Alla Francia, ma anche alla Gran Bretagna, non va giù che, con la “ritirata strategica” obamiana, una sorta di leadership di secondo grado, come afferma Sapelli15, potesse essere affidata all’Italia. Ancora più rabbiosi, i nostri cugini d’oltralpe, dopo le critiche che lo stesso Obama espresse durante un’intervista nei loro riguardi, per il ruolo avuto nella faccenda libica del 2011.

L’imperativo, pertanto, è quello di impedire l’emergere dell’Italia come leadership di seconda istanza “a medio raggio” per ristabilire l’ordine in un punto strategico, a prescindere dalle lacunose e instabili idee di Trump in merito. La rotta del futuro è l’Africa, a partire dal suo nord dove non fa mistero del suo appoggio per Haftar.

Ed è su questo Nord dove la Francia, non solo da Hollande, si è proiettata, ben comprendendo che la fascia del Maghreb libico è terra di conquista, non più coloniale, ovviamente, ma di influenza, appoggiandosi all’Egitto che di interessi ne ha, e non pochi, nella Cirenaica; ed è per questo che favorisce Haftar. È nel Mediterraneo che l’Italia finirà di pagare il conto alla Francia, da quella che sarà la nuova Libia all’Africa sub-sahariana. Quella da cui partono migliaia di disgraziati, convinti e illusi, persino soggiogati se non persino obbligati, che venire in Europa significherà stare meglio. C’è un disegno destabilizzante in questo?

Certo, mantenerci impegnati in un’estenuante corsa all’emigrato ci indebolisce facendoci perdere il filo conduttore delle dinamiche africane. La presenza di Parigi in quelle aree, non solo militare, è invidiabile e significativa. Perché è in quella parte del continente che si gioca la partita per il dominio globale. E la Cina lo ha capito e anche la Francia tenta di limitarne i danni. Le risorse africane fanno gola, naturalmente, soprattutto laddove dall’Islam si passa ad aree dove l’animismo favorisce le divisioni e, pertanto, l’influenza di potenze esterne, appunto come la Francia. Paese che, come detto, già presente con il suo “Franco africano”, guarda con soddisfazione alle attività dei propri privati. Non ultimo il ben noto a noi Bollorè, lì ormai da qualche decennio, in settori quali i trasporti, l’import-export, grazie alle privatizzazioni che le istituzioni finanziarie mondiali hanno imposto ad alcuni Paesi africani per ripagare i debiti16.

Quindi, è imperativo essere presenti per il futuro, per anticipare da quelle parti l’ulteriore globalizzazione e dirigerne la statualizzazione, per prevenire, per conoscere prima degli altri, per espandersi allo scopo di diversificare sia gli approvvigionamenti di materie prime sia per incrementare le fette di mercato. Pare poco? Cosa stiamo facendo noi, Italia, nella famosa politica del “fare da soli”, così tanto decantata da Renzi? Forse soltanto donare del denaro? Ma anche quel bel pezzo d’Africa è sotto la mira di gruppi terroristici legati all’ISIS o ad al-Qaeda. La Francia pertanto, si preoccupa correttamente della difesa della prima fonte di approvvigionamento di materie prime, quali ad esempio lo stesso uranio per le sue centrali nucleari (che fino all’anno passato producevano circa l’80% del fabbisogno nazionale di energia), che è il Niger. Ma anche il 30% del petrolio che la Francia importa arriva dall’Africa. Negli ultimi anni, quindi, si è potuto assistere ad una vera e propria rinascita della Françafrique. Come affermava François Mitterand, “è grazie all’Africa che la Francia ha un posto nella storia del ventunesimo secolo”.

Sia chiaro, la Cooperazione Italiana interviene in molti di quei Paesi, ma lo fa con iniziative che sulla carta si concentrano prevalentemente nei settori della sicurezza alimentare, dell’educazione, della sanità, del sostegno alle fasce più vulnerabili della popolazione, della lotta ai cambiamenti climatici e del rafforzamento del settore privato locale nell’ottica della lotta alle cause profonde delle migrazioni irregolari. Con un esborso di denaro pubblico che, come ho commentato in apertura, non è chiaro nella sua quantità né ne sono chiari gli esiti né, infine, gli organi di controllo per la valutazione dei risultati.

Quindi, credo che la Farnesina debba essere molto più trasparente.

Un impegno notevole che però ho l’impressione che si disperda in troppi rivoli per poi garantire solamente linfa vitale per le organizzazioni cooperanti, una sorta di assistenza di ritorno. Sono invece gli investimenti diretti dei “nostri Bollorè” che fanno la differenza e sono investimenti di cui la nazione deve tener conto per garantire e concordare le necessarie e doverose agevolazioni per assicurarsi un ritorno di ricchezza in patria. Si può fare molto di più, e molto di più di quanto noi ci accontentiamo di fare per esempio in Ghana, dove è stato Gentiloni in queste ore17.

Ma è anche l’attiva e coraggiosa presenza militare e le sue attività operative, di cooperazione, assistenza e scambio che contribuiscono a dare significato al “Mediterraneo Allargato”, in quei luoghi da dove le perturbazioni sociali, economiche, migratorie e climatiche creano forti ripercussioni sin sulle nostre coste e sul nostro territorio, secondo il concetto di sicurezza avanzata, dalla fascia del Sahel appunto. L’ormai da tempo inutile impegno militare in Afghanistan e in Iraq, spesso ridicolo come la guardiania a una diga, andava già da tempo interrotto, gravitando invece da questa “parte del Mediterraneo”. Per non parlare della stupida sicurezza ad un ospedale da campo in Libia, anch’esso debole manifestazione della capacità di proiezione di potenza, o dell’altrettanto parodia operativa che è UNIFIL.

John Mearsheimer dice che dal momento che con l’essere egemone i benefici in termini di sicurezza sono enormi, in un sistema anarchico in cui non esiste più un’entità egemone mondiale – e non siamo lontani da quella realtà – altre potenze tenteranno inevitabilmente di emulare a livello regionale uno più potente. In sostanza, tale volontà, così tanto vituperata e disconosciuta negli ambiti politici del perbenismo e del relativismo e dell’illusione della R2P onusiana, già altri l’hanno rimessa in campo a sostegno dei propri interessi.

Forse è già ora di svegliarsi, perché viviamo un mondo dove dobbiamo essere capaci di far valere i nostri interessi e inquadrare i propri obiettivi, senza aspettare gli altri o sperare negli altri. Un mondo con mappature di fenomeni difficili da gestire con i paradigmi del dopoguerra e che richiedono un processo di analisi molto approfondita che tenga conto, con molto pelo sullo stomaco, di quello che per ciascuno dei soggetti nel panorama odierno è un diverso senso dello spazio ma anche e soprattutto una diversa necessità di spazio. E lo spazio, materiale o virtuale che sia, va ricercato: o lo facciamo noi o lo faranno gli altri a nostro discapito.

2 LOOKING AHEAD: CHARTING NEW PATHS FOR THE MEDITERRANEAN (http://www.ispionline.it/sites/default/files/media/img/rapporto_med_ispi_2017.pdf)

4 Si tratta di un Fondo straordinario che serve per finanziare iniziative di: (a) supporto tecnico; (b) formazione; (c) assistenza nella lotta contro il traffico di esseri umani; (d) sviluppo delle comunità locali; (e) informazione sui diritti umani e sui rischi di affidarsi ai passeurs; (f) protezione a favore di rifugiati e di altre categorie vulnerabili di migranti, specialmente minori. Grazie al Fondo Africa, sono già stati finanziati numerosi interventi in diversi Paesi africani di transito e di origine dei flussi, privilegiando il sostegno alle organizzazioni internazionali competenti in materia migratoria (in particolare OIM e UNHCR). Da segnalare anche il programma “corridoi umanitari”, frutto di un’intesa interconfessionale (Comunità di S. Egidio, Tavola Valdese e Comunità delle Chiese Evangeliche) in collaborazione con UNHCR, il Ministero dell’Interno e Farnesina. Si tratta di un’iniziativa che permette di reinsediare in Italia persone bisognose di protezione internazionale e migranti particolarmente vulnerabili.”

6 Abbiamo il Piano d’Azione Regionale del Sahel (PARS), un rappresentante europeo per il Sahel con il compito di coordinamento politico di missioni di stabilizzazione a guida europea quali le EUCAP Sahel in Niger e in Mali nonché l’EUTM Mali, missione di addestramento e formazione per la ricostruzione delle forze di sicurezza del paese. Un’ultima componente della Strategia è è il partenariato UE G-5 Sahel, creato nel 2014 con i governi della Mauritania, Burkina Faso, Mali, Niger e Ciad.

7 Nello specifico, l’UE per il 2015 risulta abbia impegnato ben 216 milioni di Euro nell’Africa settentrionale e nel Sahel, senza considerare altre iniziative ad hoc per razionalizzare il controllo del flusso migratorio, per la sicurezza dei migranti e delle vie di comunicazione terrestri e marittime da essi utilizzate (Triton, Sophia e il costoso accordo con la Turchia).

8 Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Togo, Mali, Niger, Senegal e Guinea-Bissau (quest’ultima ex colonia portoghese).

9 Camerun, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Gabon, Ciad e Guinea Equatoriale (quest’ultima ex colonia spagnola).

11 I pozzi di petrolio e di gas in italia sono modesti, molto frammentati e spesso situati a grandi profondità oppure offshore, e questo ha reso difficile sia la loro localizzazione che il loro sfruttamento (l’Italia è il 49° produttore di petrolio nel mondo. i giacimenti di petrolio più importanti in Italia si trovano in Sicilia e nel suo immediato offshore, in particolare il giacimento di Ragusa, 1.500 metri di profondità) o quello di Gela (scoperto nel 1956, ha caratteristiche simili a quello di Ragusa e si trova a 3500 metri di profondità) e quello di Gagliano Castelferrato (scoperto nel 1960, produce gas ed è situato a circa 2.000 metri di profondità). oltre a questi vi sono anche altri giacimenti nella parte orientale dell’isola come in quella occidentale. vi sono poi, tra i più importanti, quelli dalla Val d’Agri, in Basilicata, e quello di Porto Orsini nell’Adriatico ravennate. la ricerca petrolifera prosegue ancora oggi, con una produzione petrolifera attorno ai 100 mila barili al giorno, mentre quella gassifera è di circa 15 miliardi di metri cubi l’anno. il picco di produzione petrolifera in Italia è stato raggiunto nel 1997, e la velocità di esaurimento corrente è del 3,1%. la produzione nazionale rappresenta circa il 7% del nostro consumo totale di petrolio, il rimanente 93% è pertanto importato dall’estero; la produzione italiana, infine, corrisponde all’1% della produzione mondiale, con le riserve rimanenti, circa 1 miliardo di barili, che rappresentano lo 0.1% delle riserve mondiali di greggio).

12 Anche fuori dal Mediterraneo vero e proprio, si registra qualche crescita significativa. Infatti, Il direttore dei governatori dell’area speciale di Aqaba, Naser al-Shreida, ha recentemente annunciato che nel corso degli ultimi 9 mesi nel porto sul Mar Rosso si è registrato un incremento del traffico commerciale rispetto al 2016. I valori dell’aumento sono del 5% sulle merci sfuse liquide e del 7% su quelle solide. Al-Shreida ha inoltre previsto un ulteriore rialzo con la riapertura dei valichi di frontiera condivisi con l’Iraq (quello di Turaybel è stato riaperto a fine agosto 2017 in seguito alla conquista di territori assoggettati al sedicente Stato islamico).

13 Africa Energy Intelligence Issue 805 dated 21/11/2017: “NOC proffers oil reconstruction contract to Washington – Wanting to get into the Trump administration’s good books, the chairman of the National Oil Corp (NOC), Mustafa Sanalla, announced on November 15 in Washington that the national Libyan firm would be opening a purchase office in Huston. This announcement is as much a promise to award the contract for the reconstruction of the country’s oil infrastructure and rehabilitation of its war-torn fields to American oil services concerns. So far, the Trump administration has been more inclined to support rebel general Khalifa Haftar than the central Libyan government to which the NOC is attached. Para-oil company Schlumberger already resumed business in the country a few months ago. On the strength of their experience in Iraq, leading American oil services firms, the likes of Halliburton, have also been had their eyes set on the reconstruction contract in Libya.

14 Lo sguardo sugli interventi militari francesi nel mondo è impressionante (Libia nel 2011, Mali nel 2013, l’Operation Barkhane in Mali, Chad, Niger, Mauritania, e Burkina Faso dal 2014, Repubblica Centrafricana nel 2014, Iraq in 2014. E Siria nel 2015). Dalla fine del colonialismo, in totale, la Francia aveva partecipato a contingenti internazionali delle Nazioni Unite in Benin, Congo, Costa d’Avorio, Gibuti, Eritrea, Etiopia, Liberia, R.D.Congo, Ruanda, e Somalia. E ancora Libano (dal 1978), nel Sinai egiziano (dal 1982), in Iraq (1990-1991), in Cambogia (1992-1995), nella ex Jugoslavia (1992-2014), in Afghanistan (2001-2012), in Colombia (2003), ad Haiti (dal 2004), e nell’Oceano Indiano (dal 2008).

15 Un Nuovo Mondo – edizioni Guerini e associati (2017).

16 Nel continente africano ha aperto 250 agenzie in 46 Paesi dove lavorano circa 25 mila persone per un giro d’affari che copre il 25 per cento del totale aziendale. Con la Bolloré Africa Logistics Network, la più grande rete di logistica integrata, nel continente è il maggiore operatore del settore. Negli ultimi anni soprattutto si è esteso soprattutto in Africa australe e orientale dove offre supporto nel campo petrolifero ed estrattivo. Tra i minerali che interessano Bolloré c’è anche la columbite-tantalite. Conosciuta meglio come coltan, è un minerale strategico perché utilizzato nell’industria hi-tech per costruzione di condensatori di smartphone e computer portatili. Il fiore all’occhiello di Vincent Bolloré sono i porti, di una ventina dei quali detiene la concessione (https://en.wikipedia.org/wiki/Bolloré_Africa_Logistics).

17 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-11-24/al-via-viaggio-gentiloni-africa-sara-tunisia-angola-ghana-e-costa-d-avorio–133049.shtml. Rispetto all’articolo, l’OEC (The Observatory of Economic Complexity) riporta per il 2016 un interscambio di circa 540 milioni.

*Generale CA ris

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