Corruzione, Danimarca e Nuova Zelanda sono i Paesi più virtuosi. Somalia, Siria e Sudan del Sud quelli più a rischio

Di Annalisa Triggiano*

Roma. C’è un legame tra benessere del sistema democratico di governo e percezione della corruzione? A contribuire a dare una risposta a questo interrogativo provvede il Corruption Perception Index, stilato, qualche giorno fa, nella sua ultima edizione1.

Una ricerca sulla corruzione nel mondo

L’indice, pubblicato annualmente dal 1995 a cura del Network Indipendente Transparency International, mette in classifica 180 Paesi e territori in base ai loro livelli percepiti di corruzione nel settore pubblico, usando una scala da 0 a 100, dove lo zero indica alti livelli di corruzione e il 100 indica un Paese molto virtuoso. Ad oggi, l’indice è divenuto a livello globale il principale e più autorevole ‘barometro’ della corruzione nel settore pubblico.

Secondo le analisi di quest’anno, più dei due terzi dei Paesi hanno conseguito un risultato inferiore a 50, con una media di punteggio di appena 53. Mentre ci sono delle eccezioni, i risultati dimostrano che a dispetto di alcuni progressi, molti dei Paesi sono indietro rispetto all’adozione di serie politiche contro la corruzione.

I Paesi in cima alla lista sono, per il 2018, Danimarca e Nuova Zelanda, con punteggi, rispettivamente, di 88 e 87. La Danimarca conferma il proprio primato. In fondo alla lista Somalia, Siria e Sudan del Sud con 10, 13 e 13, rispettivamente:

La classifica della corruzione nei Paesi

Mentre nessun Paese al mondo ha conseguito un punteggio pieno, quelli classificati nei primissimi posti hanno in comune diverse prerogative di democrazia che contribuiscono al raggiungimento di simili punteggi.

Tali predicati comprendono istituzioni forti, un ottimo funzionamento del sistema della Giustizia ed alti livelli di sviluppo economico. Come strumento di osservazione della corruzione nel settore pubblico, il CPI premia, insomma, quei Paesi dove la distrazione di fondi pubblici, i conflitti di interesse e altre forme lato sensu riconducibili (anche se non perfettamente assimilabili secondo il nostro sistema penale) a pratiche corruttive sono percepite come minime all’interno del Governo. Ma ciò non significa e non implica automaticamente che i Paesi considerati siano poi in effetti a ‘corruzione zero’.

Anzi, negli ultimi sette anni – sottolinea il Rapporto – solamente 20 Paesi hanno migliorato in modo significativo il loro CPI e tra questi Estonia, Senegal, Guyana e Costa d’Avorio. All’inverso, ben 17 Paesi hanno perso consistentemente punteggio nella scala, tra questi Australia, Cile, Malta, Ungheria e Turchia.

Nel Rapporto di quest’anno vi è la novità costituita da un approfondimento più specifico sul legame tra stato di salute delle democrazie e percezione della corruzione. Ebbene, il Rapporto giunge alla conclusione che un sistema democratico più debole ha una maggiore possibilità di infiltrazioni di attività corruttive al governo.

E qui entrano in gioco altri fattori predittivi di un buono (o cattivo) stato di salute delle democrazie mondiali, elaborati, in particolare, da Freedom House2.

Dal 2006 – secondo i calcoli di Freedom House – ben 113 Stati hanno assistito a un peggioramento del sistema democratico nel suo complesso. Cosa si intenda, poi, per “democrazia” secondo Transparency lo si desume dai parametri richiamati anche da Freedom House come universalmente accettati. In linea di principio, si ha democrazia in presenza di elezioni libere, istituzioni libere ed indipendenti, diritti politici come il diritto al dissenso pacifico e organizzato, diritti civili come il diritto a un equo processo.

Ben 113 Paesi hanno assistito a un peggioramento del sistema democratico nel suo complesso.

Nell’analisi di Transparency non vi sono governi democratici che abbiano conseguito un CPI inferiore a 50. Analogamente, pochissimi regimi con caratteri più o meno dichiaratamente autoritari raggiungono un punteggio superiore a 50.

E’ allora sulla base di queste premesse che i dati di Transparency si possono incrociare, e sono stati incrociati, a partire dal 2006, con un’altra ‘classifica’, quella della Democrazia nel mondo (DEMOCRACY INDEX), pubblicata annualmente da Freedom House.

Secondo questo metodo di calcolo incrociato, l’Ungheria e la Turchia, ad esempio, hanno perso nella classifica del CPI rispettivamente 8 e 9 punti negli ultimi sei anni.

La Turchia, poi, è classificata da Freedom House come Stato “non libero”, peggiorando il precedente rating (“non del tutto libero”). Analogamente, l’Ungheria registra attualmente nella categoria “protezione dei diritti umani” il suo punteggio più basso dalla caduta del Comunismo (1989).

Questi dati di classifica riflettono sicuramente una tendenza al declino dello Stato di diritto e del ruolo della democrazia nei Paesi menzionati, di pari passo ad una compressione delle libertà civili e della libertà di stampa.

Alti livelli di corruzione percepita, inoltre – secondo una ricerca condotta dal Tony Blair Institute for Global Change3 – sembrano in grado di favorire e alimentare l’ascesa di partiti di ideologia radicalmente populista. L’Istituto Blair ha addirittura calcolato che il 40% dei leader populisti siano in qualche modo coinvolti in accuse di corruzione.

Mi sembra infine interessante esaminare i rilievi formulati da Transparency a proposito di alcuni Paesi definiti “osservati speciali”. Ad esempio, con un punteggio di 71, gli Stati Uniti nel 2018 hanno perso 4 punti rispetto all’anno precedente, uscendo dalla top twenty dei Paesi virtuosi rispetto al CPI per la prima volta dal 2011.

Probabilmente, il punteggio trova una giustificazione nel fatto che gli USA stiano attraversando con la Presidenza Trump una fase piuttosto delicata dal punto di vista degli equilibri tra i poteri (Checks and Balances).

Anche il Brasile ha ceduto due punti rispetto all’anno precedente, giungendo a 35 punti di CPI, risultato peggiore degli ultimi sette anni. Il neo-presidente Bolsonaro ha fatto intendere da subito che governerà con pugno di ferro, mettendo in discussione, nel programma di governo, molte delle acquisite conquiste democratiche del Paese.

Altro Paese “osservato speciale”, la Repubblica Ceca, con un punteggio di 49 ha migliorato di due punti la posizione del 2017 e di otto punti quella del 2014. Ma i recenti eventi politici – suggeriscono gli Analisti di Transparency – lasciano pensare che il miglioramento poggi su basi piuttosto fragili. Del resto il primo ministro è stato dichiarato colpevole di conflitti di interesse in relazione alle sue proprietà nel campo dell’informazione ed è coinvolto in un altro scandalo per presunti legami con una società beneficiaria di ingenti finanziamenti europei.

Anche i “piani alti” della classifica, ad ogni modo, non sono esenti da problemi inerenti alla corruzione. E se – prestando fede al CPI – il settore pubblico danese è considerato il più trasparente al mondo, non per questo sono mancati scandali (come quello che ha visto coinvolta la Danske Bank).

Quali, in definitiva, le possibili indicazioni per i Policy Makers globali? Transparency ritiene ancora largamente insoddisfacenti, nel complesso, i risultati conseguiti dai 180 Paesi analizzati.

Tra le possibili e raccomandabili soluzioni, gli analisti ribadiscono la necessità di attenzione all’equilibrio dei poteri dello Stato, una decisa attuazione delle politiche anti-corruzione nazionale (o una loro riforma restrittiva, se necessario). E, non ultime, libertà di espressione e libertà di stampa, particolarmente vulnerabili quando si tratta di denunciare pratiche corruttive ai vertici degli Stati.

Gli analisti ribadiscono la necessità di attenzione all’equilibrio dei poteri dello Stato

1 https://www.transparency.org/

2 https://freedomhouse.org/report/freedom-world/freedom-world-2019

3 J. Kyle, Y. Mounk, The Populist Harm to Democracy: An Empirical Assesment, 2019, https://institute.global/insight/renewing-centre/populist-harm-democracy

 

*Docente a contratto Università degli Studi Roma Tre, ex Ricercatrice CEMISS

 

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