Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. In queste ore, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha diffuso un allarme fondato su “rapporti credibili” circa un possibile attacco di Hamas contro civili palestinesi a Gaza.
Un’eventualità gravissima che, se confermata, costituirebbe una violazione della tregua appena raggiunta con Israele.

L’avvertimento arriva a ridosso di segnalazioni su esecuzioni e repressioni interne condotte dal movimento islamista per riaffermare il controllo sull’enclave dopo il cessate il fuoco.
Un’azione deliberata contro la propria popolazione risponderebbe a tre obiettivi convergenti di Hamas: ristabilire la deterrenza interna dopo due anni di conflitto, riaffermare il monopolio della forza e utilizzare il terrore come strumento di governo in un territorio privo di istituzioni funzionanti.
È il paradigma della guerra ibrida intramuraria: la combinazione di propaganda, violenza selettiva e repressione politica esercitata da un attore non statale che controlla la vita dei civili e ne manipola la sofferenza per fini di potere.
Tali pratiche – uso di aree civili per il lancio di razzi, misfire che colpiscono Gaza stessa, intimidazioni e censura – violano apertamente il diritto internazionale umanitario.
Peggio ancora, erodono la credibilità di ogni futuro processo di pace, trasformando la popolazione civile in ostaggio permanente di una leadership armata.
Questo episodio non è isolato ma si inserisce nella più ampia guerra d’attrito contro le democrazie: un conflitto sistemico in cui autocrazie e milizie pro-iraniane mirano a destabilizzare l’ordine liberale, frantumando spazi di governance e polarizzando le opinioni pubbliche.
Mentre il mondo arabo si riallinea verso Israele attraverso i corridoi economici e gli Accordi di Abramo, l’asse filo-iraniano reagisce con una strategia di sabotaggio e delegittimazione, in cui Gaza resta epicentro simbolico e operativo.

Ogni violenza interna moltiplica il rischio per la popolazione sfollata e mette a dura prova i meccanismi di protezione e di verifica della tregua.
Un attacco intra-Gaza rimetterebbe in discussione il concetto stesso di cessate il fuoco, pensato per fermare ostilità tra le parti, non per coprire repressioni dentro una parte. Ogni crisi a Gaza riverbera sul Mediterraneo, alimentando instabilità, flussi irregolari e radicalizzazioni che minano la coesione interna delle democrazie europee.
Ciò che colpisce maggiormente non è solo la brutalità dei fatti, ma il silenzio che li circonda.
Quando a colpire sono i razzi su Israele, l’indignazione globale si mobilita; quando invece le vittime sono i palestinesi stessi, assassinati da Hamas, cala un imbarazzato mutismo.
È qui che emerge una verità scomoda: per una parte del mondo militante e per troppi osservatori indulgenti, questi civili non sono più palestinesi, ma semplici strumenti narrativi utili solo se muoiono per mano israeliana.
Quando a ucciderli è Hamas, non interessano più a nessuno.
Gli antisemiti e i professionisti dell’odio verso Israele ignorano deliberatamente la realtà: che la principale minaccia per i palestinesi non è lo Stato ebraico, ma l’organizzazione che li tiene prigionieri del proprio fanatismo.
Aggiornare l’analisi e pretendere responsabilità da tutte le parti è un dovere morale e politico.
Proteggere i civili significa anche denunciare chi li usa come scudi o li punisce come traditori. Chi tace davanti a un Hamas che colpisce i propri fratelli non difende la Palestina: difende soltanto l’odio.
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