Di Giuseppe Gagliano*
KIEV. Durante l’Assemblea Generale dell’ONU a New York, Volodymyr Zelensky ha chiesto a Donald Trump la fornitura dei missili da crociera Tomahawk.

Il Presidente ucraino li considera una possibile leva per costringere Vladimir Putin a negoziare.
L’idea è semplice: la capacità di colpire in profondità il territorio russo, fino a 2.500 km di distanza, dovrebbe spingere Mosca a sedersi al tavolo della pace.
Ma la realtà strategica è diversa: i Tomahawk non sono l’arma “decisiva” che potrebbe cambiare l’inerzia della guerra.
Limiti operativi e logistici
L’Ucraina non dispone delle piattaforme necessarie per l’impiego dei Tomahawk: né cacciatorpediniere né sottomarini d’attacco in grado di lanciarli dal mare, e il sistema terrestre Typhon è inaccessibile: gli USA ne possiedono solo due batterie operative, destinate al Pacifico e all’Europa occidentale, e non ne hanno mai vendute ad alcun alleato.
Anche se Kiev ottenesse un Typhon, la batteria sarebbe ingombrante, facilmente individuabile e vulnerabile agli attacchi aerei russi, un bersaglio più che una risorsa strategica.
Scarsità e priorità americane
A pesare è anche la scarsità delle scorte statunitensi: meno di 4 mila missili disponibili, con una produzione annua inferiore a 200 unità, e un fabbisogno crescente per il teatro indo-pacifico.

Dopo averne già consumati centinaia contro gli Houthi nel Mar Rosso, Washington non è incline a cedere armi di grande valore strategico in quantità tali da incidere sul conflitto ucraino.
Inoltre, gli Stati Uniti hanno venduto i Tomahawk solo a un ristretto gruppo di alleati – Regno Unito, Giappone, Australia, Danimarca – e non intendono condividerli con Paesi in guerra ad alto rischio di cattura tecnologica.
Il timore dell’escalation
Il fattore più determinante resta il rischio di escalation: fornire a Kiev la capacità di colpire in profondità il territorio russo significherebbe accrescere il timore di Mosca per la sicurezza delle proprie installazioni strategiche e nucleari.

Ciò comporterebbe il coinvolgimento diretto dell’intelligence statunitense nel targeting e potrebbe avvicinare il conflitto alla soglia nucleare, uno scenario che Trump e il suo team non vogliono né rischiare né legittimare.
Il nodo politico-militare
L’episodio mostra il divario fra percezione politica e fattibilità militare: a Kiev i Tomahawk sono visti come un simbolo di garanzia strategica; a Washington appaiono come un asset limitato e troppo prezioso per essere ceduto in un contesto dove non cambierebbe l’esito della guerra.
Senza mezzi di lancio, senza logistica e con i magazzini USA già sotto pressione, la richiesta di Zelensky rimane per ora più retorica che operativa.
Conclusione: guerra d’attrito, non guerra di missili
A oltre tre anni dall’inizio dell’invasione russa, la guerra in Ucraina resta una guerra d’attrito terrestre e di droni, dove conta la capacità industriale di sostenere logistica, artiglieria e difesa aerea più che l’arrivo di singole armi sofisticate.
L’ipotesi Tomahawk serve forse al dibattito politico, ma non sposta i rapporti di forza sul campo: a deciderne l’esito saranno la tenuta economica, il sostegno degli alleati e la capacità di resistere all’usura di un conflitto lungo e costoso.
*Presidente del Centro Studi Cestudec
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