Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Alla vigilia di un cruciale viaggio diplomatico negli Stati Uniti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ricevuto un messaggio inequivocabile da parte del Presidente Isaac Herzog: firmare un accordo per una tregua e lo scambio degli ostaggi non è soltanto una scelta politica, ma un imperativo morale supremo.

L’incontro dI ieri tra i due rappresentanti delle massime istituzioni dello Stato d’Israele non è stato solo simbolico: ha segnato una tappa chiave nella battaglia per la coesione interna e la ridefinizione degli equilibri geopolitici regionali.
Herzog, in quanto figura di unità nazionale, ha assunto un ruolo attivo nel tentativo di compensare le pressioni crescenti provenienti dai settori più radicali della coalizione di governo. La destra estrema continua infatti a spingere per un’operazione militare totale contro Hamas, rifiutando qualsiasi forma di compromesso.
In questo contesto, il Presidente richiama il Governo a decisioni difficili, complesse e dolorose, chiedendo di guardare oltre la logica dell’immediatezza militare per rispondere a un’urgenza più ampia: preservare la coesione del tessuto nazionale, evitare una frattura insanabile tra falchi e moderati, e salvare vite.

Il viaggio imminente di Netanyahu alla Casa Bianca avviene mentre, a Doha, proseguono negoziati indiretti con Hamas, con la mediazione di Egitto e Qatar.
Le trattative si concentrano su due nodi centrali: la liberazione di alcuni ostaggi israeliani e un ritiro, almeno parziale, delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza.
Washington appare intenzionata a esercitare tutto il suo peso per favorire un accordo che possa rinsaldare la propria leadership regionale e rilanciare la strategia degli Accordi di Abramo.
Un ruolo americano rafforzato in questo contesto potrebbe rappresentare anche un tentativo di contenimento dell’influenza iraniana e una risposta indiretta alla crescente proiezione diplomatica e commerciale della Cina in Medio Oriente.
Herzog ha sottolineato che una tregua potrebbe essere il preludio a sviluppi regionali più ampi.
L’intesa con Hamas non sarebbe solo un passo umanitario, ma anche una leva diplomatica per rafforzare i legami con i Paesi arabi moderati.

Se questa logica dovesse prevalere, gli Accordi di Abramo non sarebbero solo un patto tra élite, ma l’inizio di un’architettura politica condivisa e più stabile, fondata su reciproco riconoscimento e interessi convergenti.
In questo scenario dobbiamo riflettere su solo alcune implicazioni centrali.
Se gli Accordi di Abramo devono evolversi da strumenti bilaterali a fondamenta di una stabilità regionale, allora ogni passo verso la de-escalation rafforza le possibilità di un Medio Oriente nuovo.
Se Israele vuole rimanere fedele alla sua identità democratica anche in tempi di conflitto, allora deve saper scegliere tra l’istinto della forza e la responsabilità della statualità.
Se la diplomazia multilaterale – attraverso Egitto, Qatar, Nazioni Unite e Unione Europea – riesce a mantenere il dialogo aperto anche nei momenti di massima tensione, allora essa rappresenta non un’alternativa alla forza, ma la sua sublimazione politica.
E se il Mediterraneo sta tornando a essere una piattaforma di competizione globale tra Stati Uniti, Cina e Russia, allora la gestione della crisi israelo-palestinese sarà sempre più un banco di prova per le alleanze strategiche del futuro.
L’accordo che si sta delineando rappresenta più di una tregua operativa: è una prova di maturità politica, un test per la resilienza istituzionale israeliana e un potenziale punto di svolta per l’intero assetto regionale.
L’esito di questa fase sarà determinante per misurare il peso di Israele nella costruzione di una nuova architettura di pace e sicurezza, fondata su Giudea-Samaria, il Mediterraneo orientale e un rinnovato equilibrio tra pragmatismo politico e valori morali.
Il futuro del Medio Oriente, ancora una volta, si gioca nei corridoi della diplomazia.
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