Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. L’intervento americano e la presenza NATO tra il 2001 e il 2021 hanno lasciato in Afghanistan un’eredità ambivalente: un tessuto istituzionale formalmente ricostruito ma sostanzialmente fragile, reti criminali e militanti consolidate e un equilibrio regionale che, dissoltasi la presenza occidentale, si è rapidamente ricalibrato.

La dichiarazione di Ahmad Massoud, pronunciata a Saint-Raphaël: “L’Afghanistan è tornato a essere un centro d’addestramento mondiale per i terroristi” non va intesa come espressione retorica o denuncia politica, ma come una sintesi efficace di un processo strutturale: la riconfigurazione del jihad globale in chiave post-statuale.

Il Paese, liberato dal vincolo di un’occupazione militare esterna, si è ricomposto attorno a una logica di sopravvivenza e adattamento che intreccia economia informale, logistica bellica e controllo territoriale reticolare.
L’attuale Emirato islamico ha consolidato un modello di governance ibrido, che combina autorità centrale e gestione periferica decentrata.
Il potere a Kabul si regge su un fragile equilibrio di patronage, dove la coesione non deriva da catene gerarchiche, ma da alleanze tribali e da redistribuzioni mirate di risorse.
È un assetto flessibile, in grado di assorbire shock esterni e di gestire le ambiguità funzionali che ne derivano: da un lato, l’adesione formale a parametri di legittimità internazionale dall’altro, la tolleranza, e in alcuni casi l’utilizzo di gruppi non statali come strumenti di profondità strategica.
In questa doppia logica risiede la capacità adattiva del regime: non più un potere ideologico monolitico, ma una piattaforma di connessione tra movimenti jihadisti, reti criminali e interessi economici locali.
Le strutture che sostengono la resilienza materiale delle reti jihadiste afghane poggiano su tre pilastri principali.
Il primo è la finanza informale, attraverso il sistema hawala, che collega Kabul a Karachi, Dubai, Istanbul e Doha, garantendo flussi di capitale rapidi e opachi.
Il secondo è il narcocapitalismo, vera infrastruttura economica del Paese: nonostante i divieti proclamati, la produzione di oppiacei e la loro commercializzazione restino fondamentali per sostenere logistica, reclutamento e corruzione.
Il terzo è l’economia estrattiva parallela, basata sullo sfruttamento illegale di risorse minerarie strategiche, litio, terre rare, lapislazzuli, che si inseriscono in catene di intermediazione dirette verso i mercati asiatici e mediorientali.
Insieme, questi tre circuiti formano un sistema finanziario parallelo, autonomo e resiliente, che garantisce al jihadismo afghano una sostenibilità economica indipendente dal sostegno statale esterno.
Ma il nuovo Afghanistan non è solo una retrovia fisica.
La guerra contemporanea, qui, ha assunto una duplice dimensione: materiale e cognitiva.
Accanto ai campi di addestramento e ai corridoi logistici si sviluppano infrastrutture di produzione narrativa, ambienti digitali di radicalizzazione, piattaforme multilingue per la propaganda e la formazione di operatori cognitivi.
L’Afghanistan si configura così come un laboratorio di guerra ibrida, dove la dimensione psicologica e quella informativa completano la dimensione militare.
In questo contesto, un approccio puramente militare al contrasto del terrorismo risulta inefficace: il Teatro afghano dimostra che la resilienza jihadista si alimenta di economia, cultura, rete e linguaggio, e che la risposta richiede un’integrazione strutturale tra strumenti di contro-narrazione, interventi economici mirati e cooperazione finanziaria multilaterale.
Dal punto di vista geostrategico, tre direttrici definiscono la nuova proiezione del jihad afghano.
Verso Nord, la permeabilità dei confini con il Tagikistan e l’Uzbekistan espone l’Asia centrale a infiltrazioni e ritorni di combattenti, con possibili ripercussioni sul Caucaso e sulla regione del Volga, aree già sensibili per la Russia.
Verso Sud, la saldatura con il Tehrik-i-Taliban Pakistan e le reti tribali transfrontaliere costituisce una minaccia diretta alla stabilità di Islamabad e alla sicurezza del corridoio economico Cina-Pakistan (CPEC).
Verso Ovest, l’Afghanistan si inserisce nei flussi logistici e ideologici che alimentano i Teatri siriano e iracheno, esercitando un effetto destabilizzante anche sull’Iran.
Per la Cina, la principale preoccupazione resta la possibile convergenza tra jihadismo transnazionale e separatismo uiguro; per la Russia, la penetrazione di gruppi radicali in Asia centrale rappresenta una vulnerabilità diretta alla propria periferia strategica.
Dopo il 2021, la strategia occidentale ha abbandonato la logica della presenza territoriale prolungata in favore di un modello di vigilanza remota e cooperazione informativa.
La scelta risponde alla necessità di redistribuire risorse verso l’Indo-Pacifico e l’Europa orientale, ma ha un costo elevato: perdita di capacità di intelligence sul terreno, dipendenza da partner regionali con agende divergenti e crescente difficoltà nell’identificare precocemente nuovi hub militanti.
In assenza di una presenza fisica, la deterrenza si basa oggi su un mosaico di strumenti: sorveglianza tecnologica, azioni di precisione, pressione finanziaria e diplomatico-coercitiva, che tuttavia non colmano la perdita di “granularità strategica” necessaria per un contrasto efficace.
In prospettiva, gli scenari plausibili per il periodo 2025-2030 delineano tre traiettorie.
Il primo è quello del contenimento multilaterale, fondato su un coordinamento diplomatico tra ONU, SCO e attori regionali, capace di garantire solo una stabilità tattica in assenza di una governance interna inclusiva.
Il secondo, più probabile, è quello della frammentazione jihadista e della proiezione transregionale: ISIS-K e reti affini intensificheranno le operazioni in Asia centrale e nel Medio Oriente, con impatti diretti su rotte commerciali e infrastrutture energetiche.
Il terzo, a probabilità più bassa, prevede la formazione di un polo alternativo di resistenza nel Panjshir, sostenuto discretamente da capitali occidentali: un’opzione politicamente costosa ma utile a riequilibrare il sistema interno.
Sul piano operativo, la strategia più efficace rimane quella dell’interdizione finanziaria e cognitiva.
Occorre colpire i nodi hawala e i canali di esportazione del narcocapitale attraverso task force multilaterali coordinate con UNODC, INTERPOL e unità FinCEN-like, rafforzando la cooperazione giudiziaria e bancaria regionale.
Parallelamente, il sostegno selettivo a forze locali non jihadiste, attraverso assistenza logistica, intelligence e formazione non offensiva, può creare micro-zone di stabilità senza riaprire il ciclo dell’occupazione militare.
A ciò deve affiancarsi un programma di resilienza cognitiva, centrato sulla contro-narrazione digitale e sulla deradicalizzazione, nonché un piano di monitoraggio minerario e ambientale per la tracciabilità delle esportazioni di risorse naturali, al fine di sottrarre ossigeno finanziario alle reti terroristiche.
L’allarme di Ahmad Massoud contiene dunque una verità strategica: la geografia, quando coincide con il vuoto di governance, diventa fertilizzante di instabilità.
L’Afghanistan, oggi, non è solo un campo di battaglia ma un nodo funzionale del sistema globale di conflitto: un hub di guerra ibrida, di finanza illecita e di produzione narrativa militante.
La sua centralità contemporanea non è territoriale ma sistemica: riguarda le connessioni, le interdipendenze e le vulnerabilità che uniscono terrorismo, economia e comunicazione.
Contrastarlo richiede un salto concettuale, dall’antiterrorismo alla strategia di potenza, capace di integrare strumenti finanziari, cognitivi, operativi e diplomatici in un’unica architettura di sicurezza.
ENGLISH VERSION
Afghanistan: The Reconfiguration of Global Jihad
By Cristina Di Silvio**
WASHINGTON D.C. The American intervention and NATO presence between 2001 and 2021 left Afghanistan with an ambivalent legacy: a formally reconstructed but essentially fragile institutional framework, entrenched criminal and militant networks, and a regional balance that quickly recalibrated once the Western presence dissolved.
Ahmad Massoud’s statement in Saint-Raphaël “Afghanistan has returned to being a global training hub for terrorists” should not be read as mere rhetoric or political denunciation, but as a precise synthesis of a structural process: the reconfiguration of global jihad in a post-state key. Freed from the constraints of external military occupation, the country has reorganized around a logic of survival and adaptation that intertwines the informal economy, military logistics, and networked territorial control.

The current Islamic Emirate has consolidated a hybrid governance model, combining central authority with decentralized peripheral management.
Power in Kabul rests on a fragile equilibrium of patronage, where cohesion does not stem from hierarchical chains, but from tribal alliances and targeted redistribution of resources.
It is a flexible structure, capable of absorbing external shocks and managing the resulting functional ambiguities: on one hand, formal adherence to international legitimacy standards; on the other, tolerance and in some cases, utilizationof non-state actors as instruments of strategic depth.
Within this dual logic lies the regime’s adaptive capacity: no longer a monolithic ideological power, but a platform connecting jihadist movements, criminal networks, and local economic interests.
The structures underpinning the material resilience of Afghan jihadist networks rest on three main pillars.
The first is informal finance, through the hawala system, linking Kabul to Karachi, Dubai, Istanbul, and Doha, ensuring rapid and opaque capital flows.
The second is narco-capitalism, the country’s de facto economic infrastructure: despite official bans, opiate production and trade remain fundamental for sustaining logistics, recruitment, and corruption.
The third is a parallel extractive economy, based on the illegal exploitation of strategic mineral resources, lithium, rare earths, and lapis lazuli, inserted into intermediary chains directed toward Asian and Middle Eastern markets.
Together, these three circuits form a parallel, autonomous, and resilient financial system that ensures Afghan jihadism’s economic sustainability independent of external state support.
But the new Afghanistan is not just a physical rear. Contemporary warfare here has assumed a dual dimension: material and cognitive.
Alongside training camps and logistical corridors, narrative-production infrastructures are developing: digital radicalization environments, multilingual propaganda platforms, and cognitive operator training hubs.
Afghanistan thus emerges as a laboratory of hybrid warfare, where the psychological and informational dimensions complement the military one.
In this context, a purely military approach to counterterrorism proves ineffective: the Afghan theater demonstrates that jihadist resilience is fueled by economy, culture, networks, and language, and that the response requires structural integration of counter-narrative tools, targeted economic interventions, and multilateral financial cooperation.
From a geostrategic perspective, three axes define the new projection of Afghan jihad.
To the North, porous borders with Tajikistan and Uzbekistan expose Central Asia to infiltration and returning fighters, with potential repercussions for the Caucasus and the Volga region – areas already sensitive for Russia.
To the South, alignment with the Tehrik-i-Taliban Pakistan and cross-border tribal networks constitutes a direct threat to Islamabad’s stability and the security of the China-Pakistan Economic Corridor (CPEC).
To the West, Afghanistan integrates into the logistical and ideological flows feeding the Syrian and Iraqi theaters, exerting a destabilizing effect on Iran as well.
For China, the main concern remains the potential convergence of transnational jihadism with Uyghur separatism; for Russia, the penetration of radical groups into Central Asia represents a direct vulnerability to its strategic periphery.
After 2021, Western strategy abandoned prolonged territorial presence in favor of remote monitoring and intelligence cooperation.
This choice responds to the need to redistribute resources toward the Indo-Pacific and Eastern Europe, but carries a high cost: loss of on-the-ground intelligence capacity, dependence on regional partners with divergent agendas, and growing difficulty in early identification of emerging militant hubs.
In the absence of a physical presence, deterrence today relies on a mosaic of tools: technological surveillance, precision strikes, financial pressure, and diplomatic-coercive measures – which, however, do not compensate for the loss of the “strategic granularity” needed for effective counteraction.
Looking ahead, plausible scenarios for 2025-2030 outline three trajectories.
The first is multilateral containment, based on diplomatic coordination among the UN, SCO, and regional actors, capable only of ensuring tactical stability in the absence of inclusive internal governance.
The second, more likely, is jihadist fragmentation and transregional projection: ISIS-K and affiliated networks will intensify operations in Central Asia and the Middle East, directly affecting trade routes and energy infrastructure.
The third, less probable, envisions the formation of an alternative resistance hub in Panjshir, discreetly supported by Western capital – a politically costly option, but one that could help rebalance the internal system.
Operationally, the most effective strategy remains financial and cognitive interdiction.
It is necessary to target hawala nodes and narcocapital export channels through multilateral task forces coordinated with UNODC, INTERPOL, and FinCEN-like units, strengthening regional judicial and banking cooperation.
Simultaneously, selective support to non-jihadist local forces, through logistical assistance, intelligence, and non-offensive training, can create micro-zones of stability without reopening the cycle of military occupation.
This must be accompanied by a cognitive resilience program, centered on digital counter-narratives and deradicalization, as well as a mineral and environmental monitoring plan to trace natural resource exports, thereby cutting financial oxygen to terrorist networks.
Ahmad Massoud’s warning thus contains a strategic truth: geography, when paired with a governance vacuum, becomes a fertilizer for instability.
Today, Afghanistan is not just a battlefield but a functional node in the global conflict system: a hub of hybrid warfare, illicit finance, and militant narrative production.
Its contemporary centrality is not territorial but systemic: it concerns the connections, interdependencies, and vulnerabilities linking terrorism, economy, and communication.
Countering it requires a conceptual leap, from counterterrorism to power strategy capable of integrating financial, cognitive, operational, and diplomatic instruments into a single security architecture.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni, geopolitica e diritti umani
**Expert in International Relations, Institutions, Geopolitics, and Human Rights
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