Afghanistan, l’instabilita’ come scelta strategica

Di Vincenzo Santo*

Da dove si potrebbe iniziare a parlare dell’Afghanistan? La storia? Direi di no, la si può leggere ovunque e, del resto, rimarcare gli ormai consumati luoghi comuni che si tratta di un Paese landlocked, situato al cuore dell’Asia centrale, crocevia tra Oriente ed Occidente, lo sanno tutti. Essere la tomba degli imperi, refrattario all’ingerenza e all’occupazione straniera non aggiunge nulla.

Certo, l’estrema frammentazione etnica, che di fatto impedisce un reale controllo centralizzato, è importante, in quanto rende stranieri coloro che dovrebbero essere connazionali. Possibili avversari. Non è cosa da poco, infatti. Differenze in nazionalità che significano nulla quando le cose vanno bene, regna l’indifferenza se mai, ma differenze che costituiscono una pericolosa miscela esplosiva quando, invece, le cose non vanno bene affatto.

In Afghanistan c’è una guerra? Se la risposta è no, allora per quale motivo siamo ancora lì? Se la risposta è invece positiva, dovremmo anche chiederci, ma contro chi? E, infine, quanto può o deve durare una guerra?

Se è possibile una sintesi semplificante: abbiamo combattuto i Talebani, per anni; dopo che gli americani ne avevano rovesciato il regime, colpevole di garantire un safe haven ad al-Qaeda, responsabile degli attentati dell’11 settembre. Fatto questo, tutta la comunità internazionale è corsa sull’osso già rosicchiato dagli stessi americani, per avviare un processo di stabilizzazione del Paese, che vedesse la realizzazione di istituzioni democratiche, la sua ricostruzione e la ripresa dell’economia. Insomma un processo di normalizzazione. Ma chi è responsabile di questo processo? Temo che non ci sia una risposta chiara.

Oggi, l’Afghanistan è una Repubblica presidenziale, con una popolazione di circa 30 milioni di anime, su una superficie il doppio circa di quella italiana, dei confini che si sviluppano per più di 5 mila chilometri, 34 Province, due lingue ufficiali. Paese dove quel processo di normalizzazione/stabilizzazione è in atto da quasi 16 anni, con risultati che, al di là delle cantilene esaltate che provengono da Bruxelles o da Washington, ha ottenuto non molti record positivi in termini di libertà civili e di provvidenze e servizi per la gente, questa molto giovane e con una percentuale di popolazione rurale (74% circa) pericolosamente alta, con un tasso di alfabetizzazione prossimo al 30%.

Un Paese oppresso da una bilancia commerciale fortemente negativa (poco più di 7 miliardi di dollari), con un PIL di soli 19 miliardi circa di dollari(1), con una crescita di non più del 2% nel 2016, laddove un Paese in “ricostruzione” dovrebbe presentare valori in doppia cifra. Per dirla in breve, francamente un mezzo disastro, se consideriamo, ripeto, sedici anni di presenza internazionale! E meno male che ci sono gli aiuti esteri, più di 5 miliardi di dollari. E, soprattutto, meno male che c’è l’oppio(2) che garantisce sopravvivenza a un bel po’ di gente! È solo una provocazione, ovviamente. Tuttavia, resta il fatto che si tratta di una sorta rentier state; dipende di fatto da un’unica risorsa, i soldi degli altri.

La corsa obamiana a uscire in tutta premura dall’Afghanistan ha prodotto magri risultati; anche perché fondata sull’assunto che le Forze di sicurezza del Paese avessero ormai raggiunto capacità tali da consentire loro di affrontare la lotta contro i gruppi di insurgents, solo con un minimo aiuto da parte della comunità internazionale. Resolute Support è nata per questo, soltanto per assist, advise and train gli afgani, in linea di principio a livelli alti di comando (6 comandi di Corpo d’armata e 8 zone di polizia).

Una missione non da combattimento, a meno che non si tratti di autodifesa. Cosa diversa, invece, per l’americana Freedom’s Sentinel, volta a una funzione contro-terrorismo, un profilo combat. Ma nella pratica, è un tutt’uno americano. La NATO, infatti, c’entra ben poco, sono gli alleati a stelle e strisce che dirigono l’orchestra, tutto il resto sono componenti utili come legittimazione politica ma sostanzialmente comparse molto brave nel karaoke, a partire dai suoi comandi coinvolti nell’operazione, sino a Bruselles.

Chi deve combattere sono gli stessi afgani, che lo fanno contro un mix di nemici che ora includono i Talebani stessi, il network Haqqani, l’ISIS e altri elementi agganciati al Pakistan; tutti con pochi incentivi per ricercare una vera pace se non sfruttare le occasioni negoziali che si presentano, sponsorizzate ora da una potenza ora da un’altra, come una forma di guerra con altri mezzi, un intermezzo politico per svernare, insomma.

I Talebani, a quanto è scritto nell’ultimo rapporto del SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction)(3), ora controllano o “contestano” a Kabul ben il 40% dei distretti, con una cintura di basi nel sud che si estende attraverso le province di Helmand, Kandahar, Uruzgan, Zabul e Ghazni; basi usate per attaccare le più vicine capitali provinciali. Non male. Solo nei primi due mesi di quest’anno, più di 800 soldati afgani sono morti. Ma sappiamo che c’è stato un dopo.

Nei momenti di crisi, è fondamentale inventarsi narratives convincenti. E qui viene il bello. Secondo fonti alleate, la new Sustainable Security Strategy seguita dal Governo di Kabul giustificava la perdita di parti del territorio in quanto si trattava di distretti non importanti. Ora, con i continui progressi degli insorgenti, viene detto che le forze di sicurezza afgane pongono meno enfasi sulle aree ritenute meno vitali. È una questione di priorità, quindi. Meglio preoccuparsi delle aree più importanti (è un segreto ovviamente) per scongiurare una decisiva sconfitta. Non pare un approccio un po’ contorto? Forse che la strategia debba esserlo? Non lo credo affatto. Del resto, se i Talebani pongono l’attenzione su queste “aree meno vitali”, non vorrebbe forse dire che esse invece per loro lo sono? E lo sono in quanto raccolgono fondi in qualche maniera, vi organizzano campi di addestramento e, quindi, fanno proselitismo laddove non esiste alternativa di vita, tra il coltivare melograni o papaveri, allevare capre, creare qualche mosaico o raccogliere lapislazzuli. Fondamentale è per essi il controllo dei centri rurali.

Lo scorso venerdì, i Talebani hanno annunciato l’inizio dell’offensiva di primavera(4). Lo fanno ogni anno, niente di nuovo. Tuttavia, questa volta hanno individuato una seconda line of effort, quella politica. L’operazione Mansouri, dal nome del loro leader ucciso l’anno scorso da un drone americano, prevedrà la realizzazione di istituzioni che garantiscano meccanismi di social justice and development.

In buona sostanza, ciò che noi occidentali non abbiamo capito è che “l’insorgenza” è fatta di battaglie per il controllo sulla popolazione e sul territorio, non di battaglie tra forze ostili. Gli insurgents hanno il tempo dalla loro parte, tutto il tempo che vogliono. E dei nostri end state se ne infischiano.

Pertanto, potrà essere semplicemente inutile pensare ad altre surges di 1.500 o persino di ulteriori 5 mila soldati che dicano agli afgani come combattere o altre Forze speciali americane che incrementino le capacità operative nella lotta contro-terrorismo condotte dalle analoghe locali, forse quelle che funzionano meglio. Palliativi tattici. Prima o poi dovranno tornare a casa. Figuriamoci poi cosa possano cambiare 300 marines rispediti nella provincia di Helmand.

In Vietnam, gli americani vinsero praticamente ogni scontro a livello tattico. Ma fu irrilevante: il vincitore è colui che finisce per controllare il territorio, lo Stato, con strumenti militari o solo politici, non importa, ma il controllo della popolazione è il fattore critico. I Talebani, ne sono convinto, non ce la faranno a prendersi tutto l’Afghanistan, ma faranno pesare quel poco su cui eserciteranno il completo controllo.

Abbiamo cancellato ISAF troppo presto?

Forse sì, ma già non aveva allora molta importanza. Dopo il 2003, a seguito della brillantissima idea di andare a cercare una supposta pistola fumante dalle parti di Baghdad, l’attenzione di tutti si spostò altrove, compiaciuti di quanto presto si fossero fatti sloggiare i Talebani da Kabul e distrutto il regime stesso di Saddam.

Non ha più ora molta importanza, perché la guerra contro di loro noi l’abbiamo persa. Da qualche parte, Machiavelli ebbe a dire che i nemici, se non vengono lasciati indisturbati, si devono non ferire ma, una volta disturbati, uccidere. Non lo abbiamo fatto allora, non ci riuscirà di farlo più.

Chi probabilmente potrà avere successo nell’interrompere la violenza sono gli stessi afgani, probabilmente. Gli unici che, conoscendo molto bene se stessi, pur tra mille cose del loro modo di fare che non comprendiamo e che spesso per ignoranza o per presunzione condanniamo, potranno raggiungere compromessi ed equilibri utili per far ripartire un paese bloccato.

Se glielo faranno fare.

Intanto, pare che Gulbuddin Hekmatyar, l’ex primo ministro e veterano della guerra contro i sovietici negli anni ottanta, sia tornato a Kabul, a seguito di un accordo di pace dello scorso settembre tra il Governo e il suo Hizb-i-Islami (HIA), forse una possibile apertura per un futuro che tutti a parole auspicano ma chissà quanto convinti. Certo, aver patteggiato con colui che venne denominato il “macellaio di Kabul”, per il ruolo ricoperto nella guerra civile, ha fatto e fa storcere il naso a molti, ma credo faccia naturale e, forse, anche inevitabile parte di un processo che solo gli stessi afgani possono guidare. Un processo che porti a una cessazione delle ostilità, finché nuove opportunità e convenienze non emergeranno ancora.

Ripeto, se glielo faranno fare.

La guerra in Afghanistan noi occidentali l’abbiamo persa quando Obama volle fissare una deadline per il ritiro, dimostrando ai Talebani che eravamo in soggezione di tempo, grave errore strategico.

La guerra l’abbiamo anche persa perché della normalizzazione ce ne siamo di fatto disinteressati completamente. Se normalizzazione implica anche lo sviluppo, qualcosa differente dalla semplice stabilizzazione. Non è pensabile, infatti, che ce ne siamo dimenticati o che non sapessimo come fare. Le esperienze fatte al termine del secondo conflitto mondiale parlano chiaro.

Nel novembre del 2010 la NATO legittimò il concetto del Comprehensive Approach(5). Gran bella cosa se non fosse che tutto sommato non era necessario inventarsi qualcosa già dettato dal buon senso, ma sarebbe stato cosa più utile stabilire, per imporle, le procedure che ne fissassero i meccanismi e le relazioni tra le varie Agenzie. Risulterà chiaro che quando si cerca di far crescere insieme settori quali Economy, Politics, Safety and Security, Science and Technology, Environment, Society and Development, da cui scaturiscono almeno una trentina di sotto-settori, il numero di Agenzie internazionali coinvolte dovranno essere tante, almeno una ventina, con un indotto di NGO spesso fuori controllo. Ma tutto un sistema desideroso e nella strategica necessità di far valere il proprio apporto, giustificare la propria presenza. Pertanto, incline a voler essere autonomo. Una giungla, insomma.

E chi dirige questa giungla? Nella pratica nessuno che abbia un ruolo internazionale, nella realtà sono gli Stati Uniti che cercano di farlo da Washington, ma secondo il loro modo di vedere. Gli alleati seguono in bianco, gli altri spesso fanno finta. Ma ci sono poi i singoli Stati, le cui ambasciate nella capitale implementano politiche che si discostano da ciò che il comandante americano o l’Alto rappresentante delle Nazioni Unite, ove i loro rispettivi mandati siano coerenti, pensano. A titolo di esempio Russia, Cina, India, Pakistan, Iran e in parte la stessa Turchia.

Cosa, infatti, è stato prodotto per lo sviluppo economico, in tutti questi anni, da una macchina così complessa?

Assolutamente poco, francamente. Niente di più che semplici timidi tentativi.

La letteratura in circolazione parla ancora di come stabilizzare l’Afghanistan, pazzesco! Come se lo sviluppo dovesse costituire una fase successiva alla suddetta stabilizzazione e non un qualcosa che debba necessariamente procedere in parallelo, spesso con scelte coraggiose anche se dolorose. La trasformazione dell’economia da rurale a industriale per esempio. Tanto più che al momento il Paese attraversa la più significativa crisi economica da quando il 90% delle truppe alleate presenti (erano in atto ISAF ed Enduring Freedom) è stato ritirato, con tutto l’indotto che significava in termini di valuta estera, appalti per il supporto alle stesse truppe e così via.

È chiaro che l’industrializzazione prevede risorse notevoli in termini di acqua, e questa c’è, di manodopera, e bisogna crearsela, di energia e di infrastrutture, e qui casca l’asino. Tuttavia, di progetti energetici ne esistono. E tanti, forse fin troppi. Paese senza accessi al mare, l’Afghanistan dipende da quelli confinanti per l’importazione e l’esportazione, così come per l’approvvigionamento energetico volto a soddisfare una domanda interna che il poco gas domestico estratto e la produzione idroelettrica non garantiscono completamente (solo un terzo della popolazione dispone di corrente elettrica per l’intera giornata). Tuttavia, proprio grazie alla sua posizione, al crocevia di un’area dove altri paesi risultano ricchi di idrocarburi, molti progetti energetici vorrebbero attraversare il suo territorio (TAPI, CASA-1000, TUTAP, TATC …), e con essi gli interessi strategici di molti potentati, vicini e lontani.

Certo, non è stata la comunità internazionale del comprehensive approach a facilitare l’integrazione regionale del Paese. Nell’ultimo decennio Kabul ha spinto da solo e molto in questa direzione, per acquisire lo status di membro o di osservatore in organizzazioni regionali a sfondo economico, politico e per la sicurezza (South Asian Association for Regional Cooperation – SAARC; Central Asia Regional Cooperation Program – CAREC; Conference on Interaction and Confidence Building Measures in Asia – CICA; Asia Cooperation Dialogue – ACD; Shanghai Cooperation Organization – SCO; Asian Infrastructure Investment Bank – AIIB; Regional Economic Cooperation Conference for Afghanistan – RECCA). Allo scopo di garantire uno slancio in tal senso, il Governo ha stabilito un Direttorato per la Cooperazione Regionale all’interno del ministero degli esteri nel 2011. Onore al merito. Ma non basta esserci o osservare.

Come in molte parti dell’Africa, scrive Michael Klare(6), è ben noto da molto tempo che anche l’Afghanistan è in possesso di considerevoli riserve di minerali importanti; sempre più importanti oggi che iniziamo a raschiare il fondo del barile. Le prime esplorazioni ebbero luogo negli anni ’80, sotto il controllo sovietico. Quelle mappature pare siano state successivamente usate dall’US Geological Survey (USGS) ed arricchite con ulteriori indagini al suolo e da riprese aeree. In parole povere, gli americani posseggono l’esatto profilo geologico del Paese e delle sue riserve in minerali. Aynak potrebbe essere la più grande ancora non sfruttata miniera al mondo di rame, con circa 12 milioni di tonnellate di metallo, con altri 17 nelle aree vicine. Hajigak, invece, sembra il più grande deposito ancora vergine di ferro, con circa 2 miliardi di tonnellate di minerale. Ma esistono giacimenti anche di bauxite, oro, piombo, tungsteno e zinco. Soprattutto, pare ci siano anche giacimenti di terre rare e di niobio. Un valore pari a circa mille miliardi di dollari, un piatto in cui finora la Cina, con la sua MCC, ha tentato di mettere le mani, con non poco disappunto da parte americana.

Ciò di cui l’Afghanistan necessita sono gli investimenti, un impegno internazionale, ma soprattutto regionale, volto a risvegliare le capacità di un paese dalle importanti risorse ma che viene tenuto forzatamente in una sorta di coma farmacologico, in attesa di una cornice di sicurezza che noi occidentali non saremo più in grado di assicurargli. Si deve risvegliare, da solo. A guida russa, o cinese, oppure americana. Che importa. Siano gli afgani a decidere.

Ripeto ancora, se glielo faranno fare.

Un risveglio che inevitabilmente si rifletterà positivamente anche sui vicini. E la Cina è un vicino importante e ambizioso. Può dispiacere a qualcuno? Credo di sì.

La possibilità di estendere il China-Pakistan Energy Corridor (CPEC) all’Afghanistan e di essere parte della Belt and Road Initiative (oppure One Belt, One Road – OBOR) costituiscono due proiezioni fondamentali per la realizzazione di importanti progetti infrastrutturali, stradali e ferroviari, e di integrazione per quelli energetici, che potrebbero inoltre trovare facile complementarietà tra il progetto indo-iraniano relativo al porto di Chabahar e quello della CPEC stessa, che invece trova sfogo nel porto pakistano di Gwadar. Né tali progettualità dovrebbero entrare in contrasto con l’analogo U.S.’ New Silk Road Initiative, pensato già nel 2011, mi pare dalla Clinton.

Le idee ci sono, forse anche una forte volontà. Magari esistono interessanti margini di manovra per compromessi che non piacciono a noi occidentali che, per esempio, continuiamo a lamentarci della corruzione e calibriamo la nostra benevolenza in aiuti ai reali progressi fatti dall’amministrazione di Kabul nei vari campi, progressi che magari solo noi riteniamo tali.

Ma evidentemente manca la convenienza da parte di qualcuno. Basta poco. È semplice.

Facciamo un ragionamento “terra terra”. Se esiste un qualcosa che è oggetto del contendere tra due soggetti, tre sono le possibilità. Primo: se A non può averlo, farà di tutto perché anche B non riesca ad averlo, perché non ne tragga vantaggio. Secondo: se B ne è in possesso, A farà di tutto per farglielo perdere e, eventualmente, assumerne lui il possesso. Se, infine, a possederlo è A, e A è minacciato in quel possesso da B, A farà di tutto per mantenerlo, anche nel caso in cui non lo ritenesse più utile per sé, ma fosse certo che il rilascio potrebbe avvantaggiare il contendente. E lo farebbe … costi quel che costi!

Pertanto, in conclusione, solo una domanda: ma con tutto quel ben di dio che l’Afghanistan possiede nelle sue viscere, con l’importante posizione strategica che consente di essere al centro dell’Asia, dove fruire di basi aeree, tra cui quella di Bagram, che consentono di controllare lo spazio aereo e dunque i movimenti logistici e no sia verso l’Iran sia verso l’Asia centrale e la Cina, è proprio utile andarsene, persino dopo tutto quello che si è speso, perduto e pianto in questo paese? Certamente no, semplice! C’è, quindi, una linea strategica da seguire?

Sicuramente, avere tanta pazienza (strategica) e mantenere l’instabilità …. costi quel che costi!

Generale C.A. (Riserva)

1() Circa 1900 $ di PIL procapite (PPA)

2() È il primo produttore al mondo, con una fetta pari al 90% del mercato mondiale, con un ricavo nel narcotraffico pari a 1,4 mld di dollari, circa il 14% del PIL nazionale.

4() L’annuncio ha coinciso con l’anniversario della “Saur Revolution” contro il regime pro-sovietico, a cui seguirono 10 anni di guerriglia sostenuta dagli USA contro le forze sovietiche.

5() Secondo quanto riportato dalla terminologia NATO il “… new Strategic Concept, adopted at the Lisbon Summit in November 2010, underlines that lessons learned from NATO operations show that effective crisis management calls for a comprehensive approach involving political, civilian and military instruments. Military means, although essential, are not enough on their own to meet the many complex challenges to Euro-Atlantic and international security. Allied leaders agreed at Lisbon to enhance NATO’s contribution to a comprehensive approach to crisis management as part of the international community’s effort and to improve NATO’s ability to contribute to stabilzation and reconstruction.”

6() The race for what’s left. The global scramble for the world’s last resources (Picador – ed. 2013)

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