Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. L’ultimo rapporto congiunto Harvard–ASAIB ha offerto un’analisi approfondita di un fenomeno inquietante: la crescente radicalizzazione antisemita nei campus universitari americani, osservata in modo sistematico a partire dal 7 ottobre 2023.

A emergere è un quadro complesso, dove molte delle manifestazioni di odio antiebraico provengono da ambienti identificabili con un’identità culturale extra-occidentale, spesso legati – direttamente o indirettamente – al conflitto israelo-palestinese.
Non si tratta soltanto di slogan o prese di posizione ideologiche: in alcuni casi, l’antisemitismo ha assunto tratti aggressivi, intimidatori e perfino violenti.
L’antisemitismo che si è diffuso in Europa a partire dalla seconda intifada del 2000 non ha più il volto del pregiudizio cristiano-tradizionale, né l’aspetto del razzismo biologico novecentesco.
Le sue connotazioni sono mutate: oggi, parte di questa ostilità si nutre di una narrativa antisionista che, in alcune frange, sfocia apertamente in antisemitismo.
Tale narrativa trova radicamento ideologico in dottrine islamiste veicolate da organizzazioni come Hamas, Hezbollah o la Jihad Islamica.

Il messaggio di queste entità – a volte diffuso attraverso moschee radicalizzate, altre volte attraverso canali informali diasporici – tracima dal rifiuto della politica israeliana a un rigetto dell’identità ebraica tout court.
Non mancano esempi drammatici.
Gli attentati di Tolosa (2012), Bruxelles (2014), Parigi (2015) e Copenhagen (2015) hanno avuto come obiettivo diretto scuole, musei, sinagoghe o cittadini ebrei.
Gli autori erano cittadini europei di origine extraeuropea, radicalizzati in contesti urbani marginalizzati. A emergere è una continuità tra estremismo jihadista e violenza antisemita, che sfida le categorie tradizionali dell’odio religioso o razziale.
I flussi migratori originati da guerre e crisi internazionali hanno portato con sé anche narrazioni identitarie conflittuali.
È fondamentale chiarire che i migranti in quanto tali non sono portatori di antisemitismo.
Tuttavia, l’infiltrazione di ideologie jihadiste in alcune comunità ghettizzate, escluse dai circuiti scolastici, lavorativi e civici, ha creato sacche di radicalizzazione. In queste realtà, l’odio verso Israele diventa, per effetto della propaganda, odio verso l’ebreo, trasformando un conflitto politico in una crociata identitaria.
L’effetto è amplificato da campagne digitali transnazionali alimentate da attori statali e parastatali: l’Iran, la Turchia e il Qatar finanziano, direttamente o indirettamente, contenuti propagandistici che legittimano la delegittimazione di Israele e la demonizzazione del popolo ebraico.
Il mezzo non è solo il sermone religioso, ma anche il meme, il video virale, l’influencer radicale.
Siamo di fronte a una guerra cognitiva.
Quando l’antisemitismo si manifesta in atti violenti – attentati, minacce, aggressioni fisiche o digitali – ispirati da ideologie jihadiste, esso va qualificato non più solo come reato d’odio, ma come terrorismo ideologico. La sua funzione non è soltanto colpire le comunità ebraiche, ma destabilizzare il tessuto sociale delle democrazie pluraliste.
In questa prospettiva, l’antisemitismo è uno strumento della guerra ibrida.
Le autocrazie e gli attori non statali ostili all’Occidente – dalle milizie sciite al Califfato digitale – utilizzano l’odio antiebraico per dividere le società europee, fomentare conflitti intercomunitari e delegittimare i valori democratici.
Colpire gli ebrei significa colpire un simbolo di coesione, memoria e diritti.
L’antisemitismo extracomunitario – quando assume forma violenta e si ispira a dottrine ideologiche totalizzanti – rientra nella definizione di terrorismo. E come tale deve essere trattato.
Ma la risposta non può limitarsi alla repressione. Richiede un’azione su più livelli: sicurezza attiva dei luoghi di culto e delle istituzioni ebraiche; prevenzione della radicalizzazione attraverso il monitoraggio delle reti estremiste e l’educazione civica; inclusione culturale, per evitare la creazione di spazi urbani marginalizzati che diventano terreno fertile per l’odio.
In definitiva, la lotta contro l’antisemitismo contemporaneo non è una questione interna alla comunità ebraica, ma una battaglia che riguarda il futuro della democrazia europea.
Perché dove si tollera l’odio contro gli ebrei, si tollera anche l’odio verso ogni minoranza, verso la libertà, verso la verità.
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