Il presente contributo intende offrire un’analisi tecnico-filologica del processo di redazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, con particolare attenzione alle strutture sintattiche, alle scelte lessicali strategiche, alle dinamiche negoziali implicite e all’evoluzione del linguaggio istituzionale nel quadro del disordine multipolare che caratterizza l’attuale sistema internazionale.
Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Nel cuore del complesso e stratificato sistema delle relazioni internazionali, le risoluzioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) si configurano come strumenti giuridici, politici e simbolici di portata globale.
Ben oltre la loro apparente linearità formale, esse prendono forma attraverso un processo redazionale estremamente meticoloso, che intreccia diritto internazionale, diplomazia multilaterale, linguistica strategica e retorica della potenza.

La risoluzione diventa così il prodotto di una delicata alchimia tra parola e potere, norma e interesse, linguaggio e deterrenza. Una risoluzione dell’ONU non è un semplice testo deliberativo, ma un atto linguistico di altissimo profilo strategico, la cui formulazione riflette un equilibrio sottile tra retorica e realpolitik.
Ogni lemma, ogni inciso, ogni costruzione sintattica è il risultato di una pesatura diplomatica minuziosa, in cui la parola scritta assume la duplice funzione di vettore politico e, in taluni casi – come nelle risoluzioni adottate ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – di strumento dotato di forza giuridica cogente.
Il lessico impiegato è altamente codificato e stratificato: verbi come condemns, deplores, urges, calls upon, requests, demands non sono affatto intercambiabili.
Ciascuno veicola un preciso grado di pressione diplomatica, il cui significato operativo è consolidato da una prassi consuetudinaria ormai sedimentata.
Demands, ad esempio, implica una pretesa obbligatoria, spesso accompagnata da implicazioni coercitive; calls upon, al contrario, assume un valore attenuato, lasciando margini interpretativi più ampi agli Stati destinatari.
Si configura così una vera e propria grammatica implicita della forza e della flessibilità: la risoluzione si fa campo di battaglia semantico.
Dal punto di vista formale, la struttura della risoluzione segue una liturgia testuale rigidamente codificata.
Ogni documento si articola in due sezioni principali: il preambolo e la parte operativa.
Il preambolo, costituito da proposizioni introdotte da participi presenti (Recalling, Acknowledging, Gravely concerned, ecc.), rappresenta un dispositivo argomentativo volto a conferire legittimità storica e giuridica all’atto. In esso si richiamano trattati internazionali (come la Convenzione di Ginevra o il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici), principi della Carta delle Nazioni Unite, risoluzioni precedenti e circostanze di fatto.
Sebbene non vincolante sul piano giuridico, questa sezione svolge una funzione cruciale: costruisce il contesto retorico che giustifica e rafforza la portata normativa della parte dispositiva.
La parte operativa, articolata in clausole numerate introdotte da verbi al presente indicativo (Decides, Requests, Demands), racchiude il potenziale prescrittivo della risoluzione.
L’ambiguità linguistica, in questo contesto, non è necessariamente un segno di debolezza, bensì uno strumento deliberato per mantenere coese posizioni altrimenti inconciliabili e ottenere un consenso multilaterale tanto fragile quanto funzionale.
Tuttavia, al di là della struttura, ciò che definisce l’essenza della risoluzione è la complessità della negoziazione semantica che ne precede la stesura definitiva.
Ogni parola è il risultato di un confronto multilaterale serrato, spesso acceso, in cui le missioni permanenti degli Stati membri discutono ogni lemma come se fosse una linea di confine. L’inserimento o la rimozione di un aggettivo può costituire un compromesso diplomatico, o rappresentare una linea rossa invalicabile.
Distinzioni lessicali apparentemente minime – come tra illegal e unlawful, occupation e presence, terrorist group e armed group – possono comportare conseguenze giuridiche e geopolitiche di enorme portata.
Nei negoziati informali, noti come draft negotiations, closed consultations o informals, le bozze attraversano numerose revisioni.
Ogni versione riflette l’equilibrio dinamico tra le pressioni dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e le istanze dei gruppi regionali o dei Paesi in via di sviluppo.
Il testo finale non è quasi mai l’espressione di un consenso pienamente condiviso, ma piuttosto il precipitato linguistico del possibile: un documento che sopravvive solo nella misura in cui riesce a contenere e diluire il conflitto. In tale contesto, assume rilievo strategico il ruolo della lingua veicolare.
Sebbene le sei lingue ufficiali dell’ONU (inglese, francese, spagnolo, russo, arabo e cinese) siano formalmente equiparate, nella prassi è l’inglese a dominare la redazione dei testi.

Tale predominio linguistico riflette un’egemonia epistemologica e giuridica che non è neutrale: le categorie concettuali e le strutture sintattiche proprie della common law anglosassone influenzano profondamente la formulazione delle risoluzioni, marginalizzando – quando non snaturando – concetti propri di altri sistemi giuridici.
È emblematico, ad esempio, il modo in cui la nozione francese di droit d’ingérence viene traslata, nel lessico delle Nazioni Unite, nella più sfumata e politicamente meno impegnativa formula della Responsibility to Protect (R2P), introdotta nel World Summit del 2005.
Allo stesso modo, concetti culturali e politici come ummah o solidarietà rivoluzionaria vengono spesso resi attraverso equivalenti occidentali, che ne attenuano la portata simbolica e ne riducono la forza normativa.
Le lingue, dunque, non sono meri strumenti di comunicazione, ma veri e propri dispositivi strutturali di potere.
Nel Consiglio di Sicurezza, infine – l’arena decisionale in cui si definisce il contenuto più incisivo delle risoluzioni, in particolare quelle che invocano misure coercitive ai sensi del Capitolo VII – la redazione diventa una partita ad altissimo rischio strategico.
I cinque membri permanenti (Cina, Russia, Francia, Regno Unito, Stati Uniti), dotati del potere di veto, utilizzano ogni parola come una pedina negoziale.
Il veto, esercitato o anche solo minacciato, agisce da forza modellante: impone moderazione lessicale, incoraggia formule vaghe, impone omissioni di nomi e responsabilità.
Una frase non scritta, un aggettivo rimosso, un soggetto impersonalizzato – all parties concerned – può valere quanto un intero paragrafo.
La risoluzione, in questo senso, si configura come una vera e propria mappa geopolitica: ogni ambiguità è una concessione; ogni omissione, un indizio di ciò che resta irrisolto nel sistema internazionale. Scrivere una risoluzione dell’ONU, dunque, non è un esercizio tecnico di redazione normativa, ma un atto di architettura geopolitica.
In essa confluiscono le pressioni della diplomazia, le astuzie della strategia, le eredità del diritto e le dissimulazioni del potere.
Il testo risultante non può essere interpretato esclusivamente con gli strumenti del diritto positivo: esso richiede un’ermeneutica multilivello, capace di cogliere le intersezioni tra linguaggio, storia, politica e forza. In un’epoca di crisi dell’ordine liberale e di riemersione delle logiche di potenza, le risoluzioni dell’ONU non si limitano a registrare le tensioni globali: diventano esse stesse dispositivi di governance simbolica e strumenti di confronto semantico.
Un’analisi filologica approfondita di questi testi rivela una verità ineludibile: il linguaggio non è mai neutro.
In ogni urges, in ogni reaffirms, si cela un intero universo di intenzioni, pressioni, alleanze e ambiguità.
Comprendere come si scrive una risoluzione significa, in definitiva, decifrare la grammatica del potere contemporaneo.
Perché chi controlla le parole, spesso, controlla anche la realtà che esse pretendono di descrivere.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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