Di Gerardo Severino*
ROSARIO (ARGENTINA) – nostro servizio particolare. Mi ha particolarmente colpito, nelle scorse settimane, apprendere quanto sta succedendo nella “italianissima” città di Rosario di Santa Fe, in Argentina, ove la situazione generale dell’ordine e della sicurezza pubblica ha raggiunto aspetti di elevata drammaticità, facendo registrare un aumento vertiginoso e, nello stesso tempo, allarmante di attentati dinamitardi, di atti di intimidazione e di violenze di vario genere.
Si tratta di manifestazioni che fanno temere il peggio, soprattutto tenendo presente che gran parte della popolazione residente in città e nell’estesa Provincia vive quotidianamente la sensazione di trovarsi di fronte a un vero e proprio “attacco criminale” alla Democrazia e alla pacifica convivenza, seguito da una sorta di abbandono da parte delle Istituzioni [1].
La situazione è tale da aver costretto alle dimissioni, lo scorso 9 febbraio, il ministro della Sicurezza della stessa Provincia, Rubén Rimoldi, rimpiazzato dal Governatore Omar Perotti con il Generale in congedo Claudio Brilloni, ufficiale che ha svolto una lusinghiera carriera militare nella gloriosa Gendarmeria Nazionale Argentina, il Corpo di Polizia del quale ci siamo più volte occupati su Report Difesa.
Gli “italianissimi” cognomi dei politici e funzionari appena citati mi consente di “puntare il dito” sul vero nocciolo della questione: la presa di posizione di taluni esponenti politici, naturalmente non di origine italiana, nei confronti della cospicua Comunità italiana che ancora oggi vive a Rosario e nella sua Provincia, così come del resto in gran parte dell’Argentina.
Accusare gli italiani d’Argentina di portare in sé il “gene della mafiosità”, come ha recentemente sostenuto qualche politico (è facile riscontrare tutto questo anche in Internet), è una vera e propria offesa al nostro popolo e a quanto da esso fatto per la nascita e la crescita, sia morale, economica e istituzionale della stessa Repubblica Argentina, dai tempi di Manuel Belgrano, che proprio a Rosario innalzò per la prima volta la bianco-celeste Bandiera argentina ad oggi.
Purtroppo – non se ne abbia a male lo scrittore Rocco Carbone – se da un lato gli argentini amano e difendono la loro bandiera, non possiamo dire che alcuni di loro rispettano quella italiana, tanto da offendere il nostro vessillo, ripreso in un’orribile copertina che illustra i volumi dell’opera “Mafia argentina. Radiografia politica del Poder”, del quale è autore per l’appunto il Carbone.
La mafia, così come la ‘ndrangheta sono certamente fenomeni criminali d’esportazione – e questo nessuno lo nega, per carità – ma da qui a generalizzare su tutto il popolo italiano o di origini italiane che vive e lavora onestamente in Argentina mi sembra veramente troppo.
La criminalità nel mondo ha assunto, nel corso degli anni, denominazioni e appellativi vari, anche se il modello gergale più usato per definire tutte le sue derivazioni è per l’appunto quello di “mafia” [2], volendo ricordare, ad esempio, quella cinese, russa, colombiana, nigeriana e così via.
Ma ciò non vuol dire che dietro tutte loro ci sia l’Italia o comunque gli Italiani, né tantomeno ci sogneremmo, noi Italiani, di etichettare questo o quel popolo, a seconda delle reali o presunte responsabilità nell’esportare nel mondo le proprie organizzazioni criminali, ovvero il cosiddetto “metodo mafioso”.
Anche in Colombia il crimine è quello che è, ma non per questo riteniamo tutti i colombiani trafficanti di droga.
Proverò, a ricordare, invece, quanto fatto dal nostro Paese, in unione con le Autorità argentine, per combattere le infiltrazioni mafiose in Sud America, così come per evitare che dallo stesso Sud America giungessero in Italia elevati quantitativi di droga, spesso provenienti dai vari “Cartelli colombiani”, ma veicolati, sia via aerea che marittima, proprio dalla stessa Argentina.
LA PACIFICA COMUNITA’ DI ROSARIO
La città di Rosario [3], capoluogo dell’omonimo Dipartimento, è la più grande e popolosa località della Provincia di San ta Fe, nel Nord dell’Argentina, ubicata a circa 300 chilometri da Buenos Aires.
La Colonia italiana che vi si stabilì, già prima dell’unità nazionale (1861), quindi all’epoca del Regno di Sardegna era inizialmente composta da emigrati di origini liguri, attratti soprattutto dalle enormi possibilità commerciali che offriva già allora il suo porto, anche se ufficialmente aperto alla navigazione mercantile solo nel 1859, sul margine occidentale del fiume Paraná, che ne aveva fatto il centro principale di un’area geografica di grande importanza economica per l’intera Nazione.
Non solo, ma il suo entroterra era caratterizzato dalla presenza di zone agrarie tra le più produttive dell’Argentina, tanto da attrarre, soprattutto a partire dal 1870, non solo migliaia di agricoltori provenienti dal Meridione d’Italia, ma anche abili commercianti, professionisti in arti e professioni, semplici operai e così via.
Al di là delle considerazioni che qualche politico argentino può avere nei confronti di essa, la Comunità italiana di Rosario ha rappresentato, per secoli, il punto di riferimento per l’intera collettività, tanto da offrire effemeridi composte da uomini e donne che hanno reso veramente lustro alla grande Nazione sudamericana.
Ciò, nel solco di una tradizione storica che ci porta indietro di oltre due secoli, esattamente a quel 27 febbraio 1812, allorquando il Generale di origini italiane (suo padre, Domenico era di Oneglia) Manuel Belgrano, uno dei “Padri dell’Indipendenza” argentina, che vi comandava le batterie d’Artiglieria “Independencia “e “Libertad”, innalzò per la prima volta la bandiera della futura Confederazione, da lui stesso disegnata.
Per quest’evento storico la città è conosciuta come la “Cuna de la Bandera” (la “Culla della Bandiera”) [4].
La sua felice posizione sul fiume, che ovviamente favoriva l’attracco di navi di elevato tonnellaggio, consigliò alle Autorità Governative di realizzare un’estesa rete ferroviaria che da Rosario si sarebbe diramata verso le limitrofe regioni agricole, luogo di produzione di cereali e di ogni altro “Ben di Dio” da esportare in tutto il mondo.
Anche in questa fase, il ruolo degli ingegneri e delle maestranze operaie italiane fu determinante, come è facile verificare nei vari studi dedicati all’emigrazione italiana nel mondo.
Ben presto, la vertiginosa crescita della città, anche dal punto di vista urbanistico, attirò non solo investitori che v’impiantarono fabbriche e attività industriali, ma soprattutto ulteriori ondate di immigrati provenienti principalmente dal nostro Paese [5], ma anche dalla Spagna e dall’Irlanda, tanto da raggiungere un vero e proprio picco alla vigilia della “Grande Guerra”, quando la popolazione di Rosario arrivò a circa 250 mila abitanti.
ROSARIO E IL CRIMINE DI IMPORTAZIONE
Nell’operosa città di Rosario, la Comunità italiana è stata per anni certamente la più consistente, tanto da influire – questo è vero – sia sull’economia, con una massiccia presenza di oriundi italiani nella gestione del sistema creditizio, in quello industriale e professionale, sia nella gestione della politica locale e della “cosa pubblica”, ricoprendo molto spesso importanti cariche istituzionali.
Ciò, tuttavia, non giustifica nessuno a sostenere che fu proprio in questo ambito che anche a Rosario, così come nel resto dell’Argentina, attecchirono le prime organizzazioni mafiose, inizialmente di origini siciliane e poi calabresi, per quanto già sul fine dell’Ottocento molti erano gli emigranti provenienti da quelle lontane regioni del Sud Italia.
L’errore di fondo commesso anche da alcuni storici è stato quello di accomunare la situazione argentina a quella vissuta dagli emigrati italiani negli Stati Uniti, ove, come molti ricorderanno, la “mafia” siciliana si confuse con la celebre “Mano Nera” [6], in un contesto storico, quale fu la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, nel quale le condizioni di vita degli italiani emigrati a New York non erano certo idilliache.
Entrambi i fenomeni criminali non rappresentarono, tuttavia, il “male assoluto”, volendo ricordare ai lettori quanto fossero altrettanto violente e diffuse sul territorio statunitense le famigerate bande criminali sorte, ad esempio, nell’ambito della Comunità irlandese, ovvero in quella russa, che certamente oggi non vengono additate come “criminali per motivi genetici” [7].
Ebbene, in Argentina e, quindi, nelle grandi città come Buenos Aires e Rosario, ove maggiore era la presenza degli italiani non si ebbe – almeno allora – la possibilità di infiltrare l’economia e, quindi, il tessuto sociale locale con il “metodo mafioso” come lo intende la letteratura giudiziaria, e ciò per due motivi principali: la sempre vigile attività poliziesca che aveva caratterizzato i vari Governi nazionali e locali; il notevole benessere economico che la stragrande maggioranza degli italiani in Argentina aveva ormai raggiunto.
Ebbene, di una vera e propria “infiltrazione” mafiosa nel Continente sud americano – a differenza di quanto era accaduto negli Stati Uniti – si iniziò seriamente a parlare solo agli inizi degli anni ’70 del Novecento, allorquando in Italia mutò la stessa “strategia politica” di “Cosa Nostra”, la quale, avendo spaziato ovvero “imperversato” nei vari settori dell’economia nazionale, aveva la necessità da un lato di riciclare il cosiddetto “denaro sporco”, mentre dall’altro lato quella di garantire la salvezza a quei “Padrini” che non avrebbero più potuto contare sugli appoggi un tempo forniti loro dalle famiglie malavitose statunitensi, onde farla franca dinanzi alla legge del proprio Paese.
Che l’America Latina sia stata, quindi, l’ancora di salvezza per centinaia di ricercati dalle Forze di Polizia italiane ed europee non è certo una novità, peraltro già scaturita qualche decennio prima, quando anche il fenomeno del contrabbando aveva subito una sorte di metamorfosi, tanto da abbandonare la cosiddetta “via delle bionde” per occuparsi, purtroppo, di stupefacenti e di armi, settore nel quale troveremo non pochi “picciotti” allearsi a bande criminali di trafficanti, operanti in Brasile, Colombia, Argentina, Messico, Venezuela e, soprattutto, negli stessi Stati Uniti d’America (chi non ricorda la famosa “Pizza Connection”?).
Su questa pista – chi scrive lo ricorda molto bene, avendo fatto parte del Pool Antimafia di Palermo dal 1985 al 1988 – si era mosso lo stesso Giudice Giovanni Falcone, seguendo le piste di non pochi “uomini d’onore” che avevano trovato rifugio in Sud America, volendo citare per tutti personaggi come Gaetano Badalamenti, Tommaso Buscetta e Gaetano Fidanzati, certamente i più noti.
Ebbene, mi trovavo allora al G.I.C.O. di Roma quando venni a sapere della cattura in Argentina di un “pezzo grosso” di “Cosa Nostra”, di uno di quei personaggi sui quali anche noi Finanzieri ci eravamo occupati ai tempi dei cosiddetti “maxi processi”, quando più volte il Dottor Falcone ci aveva parlato, fra gli altri argomenti, delle infiltrazioni mafiose in Argentina, e non solo.
Erano, quelli, gli anni nei quali il magistrato palermitano aveva iniziato un’ottima collaborazione con la Dottoressa Ilda Boccassini, allora Giudice Istruttore presso il Tribunale di Milano, la quale da anni si stava occupando di alcune delicatissime indagini concernenti il narcotraffico internazionale, fenomeno criminale che in quel delicato frangente storico aveva visto allearsi i siciliani con i colombiani.
Il 23 febbraio 1990, grazie all’ottima collaborazione sorta fra i Carabinieri di Milano, coordinati dall’allora Alto Commissario per la Lotta alla Mafia, Domenico Sica, e la Gendarmeria Nazionale Argentina, veniva catturato a Buenos Aires il boss Gaetano Fidanzati, colui che giustamente il giornalista Saverio Lodato avrebbe definito come il “re dell’eroina”.
Era giunto in Argentina nel corso del 1989 [8].
E furono proprio i due eroici magistrati italiani che, di lì a poco, avrebbero varcato l’Oceano per interrogare a Buenos Aires il boss palermitano, meglio noto come “Don Tanino”, anche se questi, nel giugno del 1991, si limitò a rispondere di essere solo un “perseguitato politico” [9].
Al di là di queste ricostruzioni storiche è indubbio, quindi, che col tempo sia sorta anche in Argentina una locale “consorteria mafiosa”, al pari di quanto accaduto nella più vicina a noi Repubblica Federale tedesca, così come in Belgio e in altre località del mondo intero.
Ci si chiede, a questo punto, se sia o meno lecito o comunque ipotizzabile parlare di un “metodo mafioso” di progenie italiche operante nei gangli vitali della stessa Nazione argentina, tale addirittura da condizionare anche le scelte politiche.
La questione è quanto mai attuale, peraltro prendendo a pretesto proprio quanto sta accadendo a Rosario.
ROSARIO OGGI: LA RESPONSABILITA’ DI QUANTO ACCADE E’ DELLA MAFIA O DELLA CRIMINALITA’ COMUNE?
La storia del mondo ci ha sempre ricordato come il crimine organizzato, al pari della stessa violenza spicciola, rispuntano qua e là ogni qualvolta mutano le condizioni economiche, ovviamente in peggio.
Ed è ciò che effettivamente è accaduto anche a Rosario a partire dagli inizi degli anni ’90.
Ebbene, uno degli effetti più deleteri che l’iperinflazione del 1989 e le successive privatizzazioni del patrimonio industriale, promosse dal Governo del Presidente Carlos Saúl Menem, fu proprio il declino dell’economia di Rosario, tanto che nel 1995 il tasso di disoccupazione raggiunse in tutta la Provincia la vetta del 21.1%.
La disastrosa economia non avrebbe avuto altre possibilità di riprendersi, anzi, fu proprio durante la crisi economica del 2001, che la città avrebbe rivissuto il dramma delle violenze e dei saccheggi, provenienti dalle frange più povere della popolazione, ma anche manifestazioni che non sfuggirono di certo alla criminalità comune, a differenza di quanto avrebbe fatto la presunta “Mafia argentina”, alla quale non conveniva affatto la repressione operata di lì a poco dalla Polizia.
È, quindi, un errore – a mio avviso, s’intende – il voler accomunare Rosario alla città di Palermo, come ha fatto il prima citato giornalista Jean Georges Almendras, il quale però ha dimenticato di ricordare come la stagione di lutti che visse il capoluogo siciliano passò alla storia come “Guerra di mafia”, essendo gli omicidi e le intimidazioni eseguiti principalmente nell’ambito degli attriti sorti fra le “famiglie” palermitane e quelle dei corleonesi, ovvero per reagire alla stessa stretta giudiziaria imposta loro da coraggiosi magistrati, Forze di Polizia e uomini dello Stato, come lo erano gli indimenticabili Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Giudice Rocco Chinnici, l’onorevole Piersanti Mattarella, e altre povere anime innocenti che non possiamo citare tutti per motivi di spazio.
L’Almendras scrive: “Ma per noi, ancora una volta, Rosario, quella città della bellissima rambla e delle piacevoli passeggiate circondate da affollati centri commerciali, continua ad assomigliare, giorno per giorno, salvando le distanze, alla città di Palermo in Sicilia, degli anni 70, 80 e 90, dove Cosa Nostra faceva delle sue strade un tappeto di cadaveri, e la paura aleggiava leggiadra nelle viscere di una città segnata dal fuoco della mafia. Oggi è il turno di Rosario dove la mafia non è Cosa Nostra, ma le sue metodologie e alcuni suoi parametri nell’azione criminale, sempre con le dovute differenze, si assomigliano molto. Ed assimilare questa realtà è terribile, non è più una novità, ma piuttosto qualcosa di cronico, di vecchia data“[10].
Non sono certo un esperto della materia, ma mi permetto di fare una riflessione finale.
Una cosa è certamente l’agire seguendo il “metodo mafioso”, penetrando, quindi, i settori o “gangli vitali” più disparati della società, e per questo – ricordo a tutti – operano i vari accordi stilati per combatterlo tra le nostre Forze di Polizia con quelle argentine, tutt’altra questione è, invece, la recrudescenza della situazione generale dell’Ordine e della Sicurezza pubblica, verificatasi a Rosario attraverso la consumazione di varie tipologie di reati, dei quali è molto più probabile si stiano rendendo responsabili le varie bande di criminali comuni, soprattutto quelle dedite al narcotraffico, forse coinvolte tutte in una sorta di “guerra interina” per il controllo delinquenziale del territorio.
Sviare, quindi – e non certo volutamente, ne sono convinto – l’attenzione dell’opinione pubblica verso il concetto più astratto di “mafia”, portando il lottare ad associare tale fenomeno all’Italia e agli italiani, non è utile, soprattutto da un punto di vista investigativo, per non parlare di quello etico, che purtroppo dovrebbe riguardare da vicino la coscienza professionale di chi scrive.
Non ci resta, a questo punto, che attendere fiduciosi i risultati del lavoro che sia la Gendarmeria che la Polizia Federale e Locale di Rosario porteranno avanti, sotto la sapiente guida del Generale Claudio Brilloni, al quale formulo personalmente i miei più affettuosi auguri, e non solo perché porta con orgoglio un nome che lo lega per sempre alla nostra amata Italia.
NOTE
[1] Molto interessante a riguardo è la corrispondenza di Jean Georges Almendras, “Argentina: Rosario si sta frantumando a causa della violenza criminale”, in Antimafia Duemila. Informazioni su Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e sistemi criminali connessi, 18 febbraio 2023.
[2] Ricordo che storicamente per “Mafia” o “Maffia” s’intendevano, almeno nel corso dell’Ottocento, le varie associazioni criminali rette dalla legge della segretezza e dell’omertà, le quali già allora tendevano a sostituirsi ai pubblici poteri, soprattutto attraverso una forma primitiva di giustizia, esercitata a servizio di interessi privati, che ovviamente sono poi mutati nel tempo e che andavano dalla difesa delle classi abbienti alla lotta per l’autonomismo politico della stessa Sicilia.
[3] L’area dove sorge l’odierna città di Rosario era conosciuta nel XVII secolo con il toponimo di Pago de los Arroyos. Agli inizi del XVIII secolo furono costruite alcune abitazioni, un mulino ed una cappella dedicata alla Madonna del Rosario, da cui pervenne in seguito l’attuale denominazione della città.
[4] Cfr. Gerardo Severino, La Bandiera Argentina, 190 anni di storia patria, rivista L’Altra Molfetta, maggio-giugno 2002.
[5] Si consiglia, a riguardo, Dizionario Biografico degli Italiani al Plata, Buenos Aires, Edizione Barozzi-Baldassini & Cia, 1899.
[6] In verità con tale nome era sorta in Spagna, fra il 1873 e il 1883 una setta anarchica, la quale secondo alcuni storici fu poi costretta a raggiungere gli Stati Uniti, temendo la forte reazione poliziesca innescata soprattutto dai numerosi attentati che gli anarchici in generale avevano e stavano compiendo in quasi tutta Europa.
[7] Sulle connessioni tra la mafia americana e quella siciliana se ne era occupato soprattutto il grande poliziotto italo-americano Joé Petrosino, che aveva ravvisato non pochi legami con la stessa “Mano Nera” e sul quale sono stati scritti fiumi d’inchiostro, peraltro assassinato a Palermo, ove era giunto in incognita proprio per seguire tale pista, il 12 marzo del 1909.
[8] Cfr. corrispondenza dal titolo “Arrestato Gaetano Fidanzati. Da 20 anni “re” dell’eroina”, in L’Unità, 24 febbraio 1990, p. 10.
[9] Si consiglia l’ottimo testo di Ilda Boccassini dal titolo “La Stanza n. 30. Cronaca di una vita”, Milano, Edizioni Feltrinelli, 2021.
[10] Jean Georges Almendras, “Argentina: Rosario si sta frantumando a causa della violenza criminale”, in “Antimafia Duemila. Informazioni su Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e sistemi criminali connessi”, 18 febbraio 2023.
*Colonnello (Aus) della Guardia di Finanza – Storico Militare
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