Asia: Corea del Nord, Stati Uniti e il nodo nucleare, diplomazia impossibile? L’apertura condizionata di Kim Jong Un

Di Giuseppe Gagliano*

PYONGYANG (COREA DEL NORD).  Il leader nordcoreano Kim Jong Un ha dichiarato che Pyongyang non esclude colloqui con Washington, a patto che gli Stati Uniti rinuncino all’obiettivo della denuclearizzazione. Un messaggio che si inserisce in una fase delicata: il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il mutamento di equilibri regionali in Asia e la pressione del nuovo governo sudcoreano per riaprire il dialogo.

Kim fotografato con un gruppo di militari

 

Kim, parlando all’Assemblea Suprema del Popolo, ha evocato i “bei ricordi” dei suoi incontri con Trump durante il primo mandato presidenziale americano.

Ma ha ribadito che il suo arsenale nucleare non è negoziabile: per Pyongyang, le armi atomiche non sono un oggetto di scambio, bensì l’assicurazione stessa della sopravvivenza del regime.

La questione strategica: deterrenza come garanzia di sopravvivenza

Dal punto di vista militare, la posizione nordcoreana è lineare: le esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Corea del Sud, spesso percepite come simulazioni di guerra nucleare, rafforzano la convinzione di Kim che solo un deterrente atomico possa garantire la sopravvivenza del Paese.

Pyongyang non ignora i precedenti storici: Libia e Iraq, una volta disarmati, sono crollati sotto gli interventi occidentali.

Non sorprende, dunque, che Kim respinga ogni proposta di disarmo graduale.

Lee Jae Myung, presidente dela Corea del Sud

 

Anche di fronte ai calcoli del Presidente sudcoreano Lee Jae Myung – secondo cui la Corea del Nord produrrebbe fino a 20 bombe nucleari all’anno – Pyongyang insiste sul fatto che non accetterà mai compromessi che riducano il proprio arsenale.

Il gioco diplomatico: tra aperture e chiusure

Sul piano diplomatico, il richiamo personale a Trump sembra un tentativo di riaprire un canale diretto bypassando Seul, definita da Kim “principale nemico”.

Pyongyang mira a trattare solo con Washington, relegando la Corea del Sud a un ruolo marginale.

È una strategia collaudata: isolare l’alleato minore per costringere il partner maggiore a un dialogo bilaterale, in cui le concessioni possono essere negoziate senza mediazioni scomode.

Per il nuovo governo sudcoreano, invece, l’obiettivo resta un percorso graduale: congelare la produzione, aprire trattative a medio termine per la riduzione e arrivare, solo in prospettiva, a una denuclearizzazione completa.

Una visione che però si scontra con la chiusura nordcoreana.

La dimensione geopolitica e regionale

Questa vicenda si inserisce in un contesto regionale più ampio.

La Cina resta il principale alleato e garante economico di Pyongyang, mentre la Russia – indebolita dall’isolamento occidentale – intensifica la cooperazione militare con la Corea del Nord, soprattutto in ambito missilistico.

Ciò significa che, anche di fronte alle sanzioni ONU, Pyongyang può contare su due potenze in grado di proteggerla da un collasso totale.

La prospettiva di colloqui con Trump ha anche una valenza geopolitica: segnalare a Washington che la Corea del Nord può tornare a essere un dossier prioritario, capace di condizionare le relazioni con Pechino e la stabilità del Pacifico.

Economia di sanzioni e resilienza

Dal punto di vista economico, Kim ha presentato le sanzioni non come un ostacolo, ma come “esperienza di apprendimento”.

È la retorica di un regime che trasforma l’isolamento in narrativa di resilienza: la scarsità come virtù, il sacrificio come strumento di legittimazione.

Un test missilistico della Corea del Nord

Nonostante le restrizioni, Pyongyang ha continuato a sviluppare missili balistici e a rafforzare il proprio arsenale nucleare, dimostrando che le sanzioni, da sole, non bastano a piegare il regime.

Questo solleva un tema più ampio: l’inefficacia della guerra economica quando è condotta senza strategie di integrazione.

In quasi vent’anni di embargo, la Corea del Nord non si è disarmata ma ha affinato la propria capacità di aggirare controlli, spesso grazie a reti criminali, triangolazioni con Paesi compiacenti e sostegno di attori statali.

Conclusione: lo stallo permanente

L’apertura di Kim a colloqui con gli Stati Uniti non è un segnale di resa, ma un messaggio politico: Pyongyang è pronta a dialogare solo se riconosciuta come potenza nucleare.

In questo senso, la sua strategia è coerente: rafforzare il proprio arsenale per negoziare da una posizione di forza, escludere la Corea del Sud, costringere Washington a un confronto bilaterale.

Il rischio, però, è che questo gioco diplomatico perpetui lo stallo.

Gli Stati Uniti difficilmente rinunceranno a chiedere la denuclearizzazione, mentre la Corea del Nord difficilmente abbandonerà un deterrente che considera vitale.

In mezzo, la regione resta sospesa tra aperture retoriche e chiusure sostanziali, con il rischio che ogni manovra militare, ogni esercitazione, possa trasformarsi in un nuovo focolaio di tensione.

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