Di Giuseppe Gagliano*
NAYPYIDAW (Mynamar). Nel cuore della giungla birmana, tra il fiume Chindwin e i confini invisibili della geopolitica, è andato in scena un attacco con droni che ha scosso l’intera regione.
Nelle scorse settimane, due campi dell’ULFA(I) (Fronte Unito di Liberazione dell’Assam – Indipendente) – e un campo della PLA (People’s Liberation Army) del Manipur sono stati colpiti da sciami di droni kamikaze.

L’azione ha causato almeno tre morti e una ventina di feriti. Ma più che il bilancio umano, a colpire è l’enigma strategico: chi ha lanciato l’attacco? E perché?
Paresh Baruah, un ritorno che agita New Delhi
A precedere l’attacco, un evento che ha fatto drizzare le antenne ai Servizi indiani: la visita di Paresh Baruah, storico leader dell’ULFA(I), al campo di Taga nel Sagaing, in Myanmar.
Una visita carica di simbolismo e di sospetti. Baruah, sfuggito a diversi tentativi di eliminazione, è una figura di culto nella galassia separatista del Nord Est indiano. Il suo ritorno, dopo sette anni, ha rievocato l’ombra dell’agguato del 2015 contro l’esercito indiano, compiuto poco dopo un’altra sua visita nella stessa area.

Per le autorità indiane, la sua presenza ha rappresentato un segnale inquietante: possibile riorganizzazione dei gruppi separatisti e nuove alleanze anti-Delhi. Non è un caso che il suo arrivo sia avvenuto poco dopo l’attentato terroristico a Pahalgam, in Kashmir, che ha ucciso 26 persone, e a ridosso delle celebrazioni dell’Indipendenza indiana, tradizionalmente bersaglio di attentati da parte dei gruppi ribelli.
Chi ha premuto il grilletto? L’India tace, ma…
La reazione ufficiale dell’India all’attacco è stata rapida: nessuna conferma, nessun commento.
Ma per l’ULFA(I) e la PLA non ci sono dubbi: i droni sono partiti dal territorio indiano.
Secondo loro, circa 150 droni ad alta tecnologia, di fabbricazione israeliana e francese, sono stati impiegati in un’operazione coordinata dalle Forze Speciali indiane.

Alcuni media locali in Assam e Manipur confermano la ricostruzione.
Per New Delhi, colpire campi ribelli in Myanmar non è una novità.
Nel 2015 e nel 1995 (con l’Operazione Golden Bird), l’Esercito aveva già condotto raid oltre confine. Tuttavia, mai prima d’ora si era ricorso a tecnologie così sofisticate, segno di un’evoluzione radicale nella strategia anti-insurrezionale.
Il Myanmar: spettatore, complice o vittima collaterale?
Il ruolo dell’Esercito birmano resta ambiguo.
Da un lato, pare improbabile che abbia partecipato attivamente all’operazione: oggi la giunta militare di Naypyidaw combatte una guerra su più fronti contro le forze di resistenza e ha rapporti relativamente cooperativi con i gruppi ribelli del Nord Est indiano.

Anzi, secondo alcune fonti locali, avrebbe addirittura proposto a ULFA(I) e NSCN-K (ala Aung Yung) un’alleanza militare contro le milizie popolari birmane, ricevendo un rifiuto diplomatico.
Dall’altro, appare difficile che la giunta fosse totalmente all’oscuro dell’operazione.
La zona del raid, nel Naga Self-Administered Zone, è tra le più sorvegliate del Paese. Un attacco aereo, per quanto chirurgico, difficilmente sarebbe potuto avvenire senza almeno una tacita approvazione.
L’interesse birmano? Non compromettere i già fragili equilibri con l’India, da cui dipende economicamente e militarmente.
Il fantasma cinese: osservatore o regista?
Non si può parlare del triangolo India-Myanmar-ribelli senza evocare la Cina. La visita di Baruah a Taga, si sospetta, è avvenuta passando per lo Yunnan, regione cinese confinante.
Alcuni analisti sostengono che Pechino abbia da tempo un progetto per unire sotto un’unica sigla tutti i gruppi separatisti del Nord Est indiano. Un’ipotesi inquietante, ma confermata da testimonianze e interrogatori del passato.
Le mire cinesi sarebbero di natura strategica, non ideologica. Mantenere una pressione indiretta su Delhi, soprattutto in chiave di ritorsione per gli attacchi al corridoio economico Cina-Pakistan in Baluchistan. Pechino, insomma, gioca su più tavoli: con l’India negozia, ma tiene calde le pedine insurrezionali.
Uno scacchiere instabile e pericoloso
Il contesto in cui si inserisce l’attacco con droni è quello di un’Asia sempre più frammentata, in cui le linee rosse tra Stati e attori non-statali si confondono.
Le ambizioni regionali dell’India, le fragilità del Myanmar post-golpe, il cinismo strategico di Pechino, e le infiltrazioni pakistane creano un terreno fertile per una guerra di logoramento silenziosa, ma letale.
I gruppi separatisti come ULFA(I) e PLA, seppur minoritari, rappresentano un rischio sistemico: per la stabilità dell’India, per gli investimenti esteri nel Nord Est e per la sicurezza regionale.
I droni del 13 luglio, più che un atto isolato, sembrano dunque il sintomo di una mutazione del conflitto, che passa sempre più per la tecnologia, l’intelligence e la guerra a distanza.
Conclusione: una nuova era di guerre ombra
Il caso Taga segna l’ingresso definitivo del teatro indo-birmano nell’era delle guerre ombra.
Le vecchie imboscate nella giungla lasciano spazio agli attacchi chirurgici telecomandati.
Le diplomazie, invece, restano in silenzio. L’India non conferma né smentisce.
Il Myanmar chiude un occhio. La Cina osserva. E i ribelli, ancora una volta, diventano pedine in una partita che si gioca molto più in alto.
In questo scenario, l’unica certezza è che la linea tra sicurezza nazionale e destabilizzazione regionale è sempre più sottile. E che le guerre del futuro, in Asia come altrove, saranno combattute in silenzio, senza dichiarazioni ufficiali, ma con precisione millimetrica.
*Presidente Centro Studi Cestudec
©RIPRODUZIONE RISERVATA