Assemblea ONU: Il Segretario Generale António Guterres: “Viviamo in un’era di distruzione sconsiderata e sofferenza umana implacabile”

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C. L’apertura della settimana ad Alto livello dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, in corso da ieri a New York, non è mai apparsa, almeno negli ultimi 30 anni, così gravemente segnata da un senso di disordine strategico diffuso e quasi sistemico.

Il segretario generale ONU, Antonio Guterres.

L’intervento del Segretario Generale António Guterres è stato netto, privo delle consuete edulcorazioni diplomatiche: “Viviamo in un’era di distruzione sconsiderata e sofferenza umana implacabile”.

Una diagnosi politica che fotografa con precisione chirurgica una realtà in cui i pilastri del multilateralismo, della deterrenza classica, del diritto internazionale e della governance tecnologica risultano non solo indeboliti, ma ormai profondamente compromessi.

L’ONU, nella sua architettura istituzionale e nei suoi meccanismi di rappresentanza, è percepita da una porzione crescente della comunità globale come un organismo anacronistico, incapace di regolare le nuove geografie del potere e privo di strumenti operativi adeguati per affrontare conflitti ibridi, crisi climatiche e sfide tecnologiche in rapida evoluzione.

Proprio in questo divario – tra la velocità del mutamento tecnologico e la lentezza della governance multilaterale – si apre la frattura più inquietante: l’innovazione tecnologica, soprattutto in ambito militare e digitale, ha ormai superato di slancio la capacità di risposta normativa e politica delle istituzioni internazionali.

Non si tratta più di aggiornare trattati datati, ma del radicale ripensamento del paradigma stesso della sicurezza collettiva.

L’intelligenza artificiale applicata al dominio bellico ha attraversato trasversalmente agende laterali, incontri bilaterali e side event.

La discussione sulle barriere etiche, sui limiti operativi e sulle linee rosse è ampia, ma dietro la retorica della “governance dell’AI” si cela un nodo strutturale ben più serio: la crescente divergenza tra Stati avanzati – dotati di capacità autonome di sviluppo, test e integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi C4ISR – e Stati privi di infrastrutture, capitale umano qualificato e accesso a tecnologie dual-use.

Il rischio non è solo l’esclusione da un ecosistema decisionale e operativo sempre più dominato dall’algoritmo, ma una vera e propria soggezione strategica.

Nei conflitti del prossimo futuro – e, in parte, già in quelli attuali – saranno il dominio informativo, la supremazia nei dati e la capacità di impiegare sistemi d’arma semi-autonomi in contesti urbani, cibernetici o spaziali a determinare l’esito delle operazioni, ben più delle tradizionali capacità convenzionali.

Il diritto internazionale umanitario – fondato sui principi di distinzione, proporzionalità e precauzione – si dimostra di fatto inapplicabile quando la catena decisionale umana viene interrotta o eliminata. Non si tratta di scenari ipotetici: già oggi, in Ucraina, nel Caucaso meridionale e in Medio Oriente, sistemi intelligenti sono impiegati operativamente.

La soglia di rischio è stata superata.

Nessuna architettura legale vincolante è oggi in grado di normare l’uso militare delle AI.

Si parla di moratorie volontarie, codici deontologici non cogenti, ma la corsa alla superiorità algoritmica è in pieno svolgimento.

Altro snodo cruciale riguarda la proliferazione tecnologica e il ritorno di una logica nucleare riformulata.

Le dinamiche contemporanee non ruotano più esclusivamente attorno alla deterrenza strategica fondata su triadi nucleari classiche o armi di distruzione di massa.

L’asimmetria moderna si articola anche nello spazio, nel cyberspazio, nella guerra cognitiva, nella capacità di attacco ai sistemi satellitari e nella manipolazione dell’informazione.

In questo contesto, la sicurezza non è più funzione della massa critica di forze terrestri, navali o aeree, ma della connettività, della resilienza digitale e della capacità di operare in ambienti contestati e multi-dominio.

I trattati di disarmo, formalmente in vigore, sono nella pratica disattesi, aggirati e privi di efficacia reale.

La fiducia strategica reciproca è gravemente erosa; le grandi potenze mantengono posture ufficialmente difensive che, nella prassi, si rivelano sempre più assertive, se non addirittura aggressive.

La logica della deterrenza si frammenta e si fa vulnerabile a shock accidentali, attacchi anticipatori ed escalation incontrollabili.

Un bombardamento a Gaza

Sul piano umanitario, la crisi in Medio Oriente – e in particolare la situazione a Gaza – rappresenta un epicentro di tensione geopolitica e giuridica che mette sotto stress l’intera architettura del diritto internazionale.

Le pronunce della Corte Internazionale di Giustizia sono state chiare; tuttavia, mancano meccanismi concreti di implementazione.

Guterres ha chiesto con urgenza cessate il fuoco, protezione dei civili e accesso umanitario incondizionato.

Ma sul piano operativo né l’ONU né alcuna coalizione regionale hanno dimostrato capacità reale di enforcement. Il conflitto resta fuori dal controllo multilaterale.

Ancora più grave è la percezione, sempre più diffusa nel Sud globale, che il diritto internazionale venga applicato con criteri selettivi, subordinati a interessi strategici, geopolitici ed economici.

Tale convinzione mina la legittimità dell’intero ordine giuridico internazionale, alimenta sfiducia e favorisce la costruzione di alleanze alternative – come i BRICS+ – accelerando la tendenza alla regionalizzazione della sicurezza. Asia, Africa e America Latina si muovono verso modelli di governance propri, svincolati da Washington, Bruxelles e Ginevra.

In questo quadro, il soft power occidentale appare progressivamente eroso, soprattutto quando retorica e prassi divergono in modo palese.

Il dossier climatico si configura ormai come un tema eminentemente securitario.

Il cambiamento climatico – definito da molti analisti “moltiplicatore di minacce” – ha effetti diretti sulla stabilità sistemica: crisi idriche, carestie, migrazioni forzate, tensioni per l’accesso a risorse scarse, competizione geopolitica su corridoi energetici e catene del valore.

A differenza delle crisi acute, quelle climatiche sono lente ma strutturali e, proprio per questo, ancor più destabilizzanti.

Diverse forze armate integrano già scenari climatici nei propri war game e piani strategici.

Tuttavia, i meccanismi multilaterali per la mitigazione – fondi per la resilienza, trasferimento tecnologico, cooperazione climatica – restano lenti, sottofinanziati e paralizzati da divergenze geopolitiche.

La distanza tra l’urgenza scientifica e l’inerzia politica è ormai inaccettabile.

Non è più solo questione di salvare il pianeta, ma di prevenire conflitti per l’acqua, il cibo e la vivibilità territoriale. Infine, la questione della fiducia istituzionale. In nessun altro momento dalla fine della Seconda Guerra Mondiale la credibilità dell’ONU è stata così apertamente messa in discussione.

Le riforme del Consiglio di Sicurezza restano bloccate da veti incrociati; l’Assemblea Generale appare sempre più un’arena retorica priva di forza vincolante; le Agenzie operative sono percepite come inefficaci o politicizzate.

Parallelamente, emergono arene alternative: forum regionali, alleanze tecnologiche, partenariati Sud-Sud e strutture parallele.

Il mondo che si profila è a geometria variabile, in cui la legittimità normativa non è più esclusivo appannaggio dell’Occidente e dove l’universalismo giuridico è sistematicamente contestato in nome di un riequilibrio del potere globale.

La Settimana ONU, dunque, non è soltanto un’agenda di incontri multilaterali: è il termometro di un sistema internazionale sempre più disarticolato, attraversato da crisi di legittimità, efficacia e visione.

Il verdetto è netto: le istituzioni sono in ritardo, la politica paralizzata, il disordine in crescita.

Se non si interviene con riforme profonde, strumenti operativi efficaci e una nuova grammatica della responsabilità strategica, il rischio non sarà soltanto il fallimento dell’obiettivo di pace, ma la normalizzazione della guerra come condizione permanente delle relazioni internazionali.

In assenza di un’autorità globale capace di normare l’impiego delle nuove tecnologie belliche, proteggere efficacemente le popolazioni civili e ridefinire le regole della sovranità, sarà il caos – non il diritto – a dettare le prossime mosse dell’ordine mondiale.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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