Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Il sangue scorre nelle strade di Gaza.
I bambini muoiono sotto le macerie. Il mondo finge di essere sorpreso.

Ma questa guerra non è solo una tragedia umanitaria: è un’operazione calcolata, chirurgica, brutale.
Una guerra per il controllo di risorse che valgono miliardi. Una guerra per il gas.
Nel 1999, la British Gas scopre il giacimento Gaza Marine, appena 36 chilometri dalla costa.
Le stime parlano di oltre 30 miliardi di metri cubi di gas naturale. È un patrimonio immenso per una popolazione povera, isolata e sotto assedio.
Sarebbe stato sufficiente a garantire indipendenza energetica, infrastrutture, ospedali, scuole, lavoro.
Ma non è mai stato estratto un solo metro cubo. Israele lo ha impedito.
Prima con la burocrazia, poi con la diplomazia, infine con la forza.
Dal 2007, la Striscia è chiusa ermeticamente da un blocco navale totale. Ufficialmente per ragioni di sicurezza. In realtà, è un’occupazione marittima che ha un solo obiettivo: impedire ai palestinesi di toccare ciò che appartiene loro.
E attenzione: questo non è un parere politico. È diritto internazionale.
La Risoluzione 1803 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (1962) afferma chiaramente che “Il diritto dei popoli e delle Nazioni a disporre liberamente delle proprie ricchezze e risorse naturali deve essere rispettato in ogni momento”.

Lo ribadisce la Convenzione di Ginevra del 1949, che vieta alla potenza occupante di saccheggiare o utilizzare le risorse del territorio occupato a proprio vantaggio.
Lo denuncia ogni anno l’UNCTAD, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo (https://unctad.org) che documenta sistematicamente lo sfruttamento economico dei territori palestinesi occupati.

Ma queste norme, davanti ai miliardi del gas, valgono meno di una firma su carta bagnata.
Mentre i pozzi palestinesi restano sigillati, Israele sfrutta i propri giacimenti a poche miglia nautiche da Gaza.
Tamar e Leviathan, scoperti tra il 2009 e il 2010, trasformano Israele da importatore cronico a potenza energetica regionale.
Oggi Tel Aviv esporta gas in Egitto, Giordania e perfino in Europa, grazie ad accordi benedetti da Washington e Bruxelles.
La stessa Europa che si strappa le vesti per la pace e poi firma contratti miliardari con chi bombarda ospedali. Non è un sospetto. È una mappa di interessi.
Nel 2023, durante una nuova escalation militare, il Governo israeliano chiude temporaneamente il giacimento di Tamar. Motivo ufficiale: protezione degli impianti.
Risultato: i mercati dell’energia impazziscono, i prezzi del gas salgono, i profitti delle Compagnie esplodono.
E intanto, a Gaza, 600 mila persone soffrono la fame, la corrente elettrica arriva per due ore al giorno, i generatori si spengono.
Si muore nel silenzio. E nell’oscurità. Chi controlla il gas, controlla il tempo e la vita.
Nel frattempo, il progetto per sfruttare Gaza Marine torna sul tavolo. Ma con una differenza fondamentale: i palestinesi sono stati esclusi.

L’accordo viene negoziato da Israele con l’Egitto e società private, mentre Gaza è sotto assedio.
Un furto in pieno giorno, con la benedizione della comunità internazionale. Altro che cooperazione: è colonialismo energetico del XXI secolo.
Con una pipeline al posto delle catene, con le trivelle al posto dei carri armati.
Le Nazioni Unite condannano. Ogni anno, puntuali come la pioggia, arrivano nuove risoluzioni dall’Assemblea Generale: si chiede a Israele di cessare ogni sfruttamento delle risorse nei territori occupati, di rispettare il diritto dei palestinesi a disporre del proprio patrimonio naturale, di restituire ciò che è stato sottratto.
Nel 2022, la risoluzione A/RES/76/225 ha ribadito con chiarezza che le attività di estrazione nei territori palestinesi sono illegittime e devono essere fermate.
L’anno dopo, nel 2023, un nuovo documento, la A/77/314, ha denunciato il mancato accesso al gas di Gaza come “una grave violazione del diritto allo sviluppo”.
Ma non cambia nulla. Le parole si accumulano nei dossier, nei file PDF dei diplomatici, nelle dichiarazioni stampa che nessuno legge.
I veti politici, soprattutto quelli americani, bloccano ogni passo concreto.
Il diritto internazionale, per quanto solenne, si dissolve nei salotti ovattati della diplomazia, come nebbia al sole.
E intanto, sul terreno, continuano le espropriazioni, le trivelle, le bombe. Israele stringe accordi con ENI, Total, Chevron, Cipro e Grecia per diventare hub energetico del Mediterraneo. Gaza non è più solo un problema politico: è diventata un ostacolo logistico al grande business del gas.
E come ogni ostacolo, va eliminata. Con le bombe, con le carestie, con il silenzio.
Ci raccontano che questa è una guerra tra religioni. Che è troppo complessa. Che è irrisolvibile. È falso.
Questa è una guerra per le risorse. Una guerra economica che si combatte con missili, con embarghi, con blackout.
Una guerra dove i vincitori costruiscono oleodotti e i vinti scavano fosse comuni. Il vero scandalo non è il gas rubato.
È il silenzio con cui lo si ruba. Non è complottismo, è geopolitica. È tutto scritto nei contratti, nelle mappe energetiche, nei comunicati stampa delle multinazionali.
È una guerra senza fine, perché chi la alimenta non ha interesse che finisca.
Finché ci sarà un giacimento da trivellare, un popolo da affamare e una crisi da trasformare in profitto, questa guerra continuerà. E noi continueremo a far finta di non vedere.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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