Di Cristina Di Silvio*
BRASILIA. La condanna a 27 anni e 3 mesi di reclusione inflitta a Jair Bolsonaro per tentato colpo di Stato non rappresenta soltanto un episodio giudiziario senza precedenti nella storia brasiliana: è un vero e proprio spartiacque nella relazione tra potere, istituzioni e legalità costituzionale in America Latina.

Per la prima volta, un ex Presidente della Repubblica è ritenuto penalmente responsabile di aver cospirato contro l’ordine democratico, nel tentativo di mantenersi al potere dopo la sconfitta elettorale del 2022.
Ma il valore di questa sentenza si estende ben oltre i confini del Brasile: essa parla direttamente al cuore di un problema geopolitico globale, quello dell’assalto autoritario alle democrazie attraverso strumenti interni al sistema, mediante la delegittimazione del processo elettorale e il ricorso alla manipolazione istituzionale.
La Corte Suprema Federale (Supremo Tribunal Federal, STF), nel procedimento penale n. 4923, ha pronunciato la condanna il 6 settembre scorso con 4 voti favorevoli su 5.

La decisione si fonda su un solido apparato normativo costituzionale e penale: in primis gli articoli 1º e 5º della Constituição da República Federativa do Brasil de 1988, che sanciscono i principi fondamentali della repubblica democratica e i diritti inviolabili, e l’articolo 142 che regola il ruolo delle Forze Armate nella difesa della Costituzione.
Dal punto di vista penale, la sentenza si basa su disposizioni specifiche del Código Penal Brasileiro: l’articolo 359-L, relativo al tentativo di abolizione violenta dello Stato democratico di diritto; l’articolo 288, che punisce l’associazione a delinquere; l’articolo 286, concernente l’istigazione pubblica a commettere reati; e l’articolo 163 relativo al deterioramento del patrimonio pubblico.
La giurisprudenza del STF ha in passato affermato, come nella storica sentenza ADPF 347/DF, che la protezione dell’ordine democratico è prioritaria e non ammette deroghe, ponendo così un fondamento giuridico imprescindibile per l’azione repressiva contro i tentativi di sovvertimento.
Il dissenso del giudice Luiz Fux, che ha invocato la necessità di prova del dolo specifico nella sovversione costituzionale, non ha scalfito la decisione della maggioranza né la sua efficacia vincolante, come previsto dall’articolo 927 del Código de Processo Civil in materia di stare decisis.
Bolsonaro è stato riconosciuto colpevole di aver orchestrato, insieme a una rete di ministri, generali e consiglieri, un piano che mirava a compromettere l’integrità del sistema democratico, partecipando a un’associazione criminale con intenti golpisti, violando i principi fondamentali sanciti dall’articolo 85 della Carta costituzionale che disciplina il crime de responsabilidade.
Gli eventi chiave risalgono all’8 gennaio 2023, quando centinaia di sostenitori armati e militanti hanno assaltato i palazzi del Congresso, della Presidenza e del Supremo Tribunal Federal a Brasília, in quello che la Corte ha qualificato come un “auto-golpe” non dissimile da quello tentato da Alberto Fujimori in Perù nel 1992, con cui la giurisprudenza latino-americana ha da tempo affinato il concetto di colpo di Stato interno.
L’analogia con l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Donald Trump, tuttora sotto indagine federale negli Stati Uniti, è stata più volte sottolineata durante le udienze, evidenziando la convergenza di modelli autoritari che utilizzano strategie di delegittimazione del voto e manipolazione istituzionale per consolidare il potere personale.

Mentre a Washington la giustizia procede lentamente con indagini complesse (esempio United States contro Donald J. Trump, 1:23-cr-257), in Brasile la STF ha optato per un intervento rapido e risoluto, sancendo un precedente di portata storica non solo per il Brasile ma per tutto il continente.
La sentenza si inserisce in una geografia più ampia di crisi democratiche che ha coinvolto regioni come il Perù, la Turchia e il Myanmar, e risponde con strumenti giuridici che non scivolano nel giustizialismo ma si fondano su una rigorosa interpretazione costituzionale e sul primato della legalità.
Condannare Bolsonaro insieme a figure chiave dell’apparato militare e civile – come Walter Braga Netto, Paulo Sérgio Nogueira, Anderson Torres, e Alexandre Ramagem – significa riaffermare la centralità della fedeltà costituzionale rispetto a interessi di casta o alleanze politiche, in un paese con una storia segnata da 21 anni di dittatura militare (1964-1985).
Questa frattura costituisce un punto di svolta, riconducibile anche alle riflessioni contenute nella sentenza HC 143.641 della STF, che ha sottolineato il ruolo dell’indipendenza militare subordinata alla Costituzione.
Tuttavia, la decisione non è priva di rischi: le Forze Armate restano un pilastro fondamentale della stabilità brasiliana e una rottura nel loro rapporto con la politica potrebbe aprire uno scenario di tensioni latenti, soprattutto se il bolsonarismo dovesse sopravvivere come movimento extraparlamentare in grado di catalizzare il malcontento sociale.
Il ruolo della magistratura, già centrale nella gestione della crisi istituzionale, richiama la necessità di un equilibrio che eviti di trasformare la Corte in un attore politico.
La giurisprudenza sul principio di legalità e sulla separazione dei poteri (sentenza ADI 1946) ricorda che l’azione giudiziaria deve essere esercitata nel rispetto dei limiti costituzionali per evitare derive illiberali.
Questa delicata quadratura del cerchio è stata illustrata dall’Operazione “Lava Jato” e dalle sentenze correlate, tra cui la revoca delle condanne di Lula con la storica decisione HC 193.726 per violazione del diritto al giudice naturale.
Oggi la posta in gioco è ancor più alta: la tenuta stessa del regime democratico. Le reazioni internazionali confermano la complessità della situazione.
Il Presidente Trump ha bollato la sentenza come persecuzione politica; il senatore Marco Rubio ha proposto sanzioni contro i giudici, incluso il blocco dei visti e dazi economici.
La risposta di Lula è stata ferma nel ribadire che in Brasile nessuno è sopra la legge, neppure un ex Presidente.
Questo caso introduce una nuova dottrina: le democrazie del XXI secolo non cadono più sotto i carri armati, ma sotto le narrazioni tossiche e le delegittimazioni sistematiche.
La risposta può essere solo una: fermezza giuridica, autonomia delle istituzioni e rifiuto netto della logica del potere personale.
Il Brasile ha scelto questa via, e sarà la storia a dire se questa scelta rappresenta l’inizio di una nuova epoca di maturità democratica o una parentesi fragile in un continente ancora segnato dalla lotta quotidiana per la democrazia.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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