Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. Quanto avvenuto martedì scorso segna un punto di non ritorno nella storia contemporanea del Medio Oriente.

Con la ratifica dell’occupazione militare integrale della Striscia di Gaza, Israele ha ufficialmente oltrepassato la soglia che separa la legittima difesa dalla dottrina dell’annientamento.

È l’abbandono formale del paradigma della “guerra preventiva” in favore di una strategia totalitaria che ridefinisce non solo lo spazio operativo, ma la stessa grammatica del conflitto moderno. A ventidue mesi dall’attacco del 7 ottobre 2023, la macchina bellica israeliana ha ricevuto il via libera per completare un piano che, nei circoli ristretti della sicurezza nazionale, viene ormai indicato come un “reset demografico, politico e militare”.
Il piano, denominato Operation Gideon’s Chariots, è passato ufficialmente dalla fase di pianificazione all’esecuzione totale.
L’obiettivo dichiarato: smantellare ogni residua capacità bellica e organizzativa di Hamas, occupare integralmente il territorio, rimuovere ogni traccia di governance locale e imporre un’amministrazione militare diretta e prolungata.
Ma dietro la retorica della sicurezza e della stabilizzazione, si delinea una realtà ben più brutale: quella di un’epurazione sistemica. Il piano prevede lo schieramento di 4 Divisioni d’élite, l’istituzione di corridoi umanitari sotto stretto controllo militare, la dislocazione forzata della popolazione verso il Sud della Striscia e la gestione selettiva degli aiuti umanitari, subordinati a organismi “civili” di fatto controllati dallo Stato Maggiore israeliano.
Gaza viene progressivamente svuotata non solo della propria autonomia, ma della propria identità sociale, culturale e urbana.
Eppure, la decisione non è priva di dissenso interno.
Il capo di Stato Maggiore, Tenente Generale Eyal Zamir, e altri vertici dell’IDF hanno manifestato fortissime riserve.

Il rischio calcolato ha ormai superato ogni soglia di razionalità: decine di militari morti, centinaia di feriti, un collasso morale delle truppe sottoposte a una pressione senza precedenti, e l’ombra lunga di un fallimento politico dalle conseguenze devastanti.
L’intelligence militare avverte: l’operazione espone i circa 50 ostaggi ancora in mano a Hamas a un rischio imminente di morte – per mano dei carcerieri o sotto il fuoco incrociato in scenari urbani in cui ogni distinzione tra combattente, civile e prigioniero è ormai svanita.
Quella del premier Netanyahu non è una mera risposta militare.

È una scommessa geopolitica ad altissimo rischio: una mossa dettata tanto dall’urgenza di preservare una coalizione politica traballante, quanto dalla volontà di riscrivere unilateralmente la mappa del conflitto israelo-palestinese. Una mossa che, se fallisse, potrebbe costare tutto: vite, legittimità, futuro.
Ma se riuscisse, sancirebbe l’inizio di una nuova era: quella della guerra ibrida senza regole, dove la forza riscrive il diritto e l’occupazione diventa normalità. La comunità internazionale osserva. Denuncia. Ma è paralizzata. Le Nazioni Unite hanno definito il piano “profondamente allarmante”, richiamando il rischio imminente di una catastrofe umanitaria su scala epocale, in possibile violazione del diritto internazionale umanitario, della Convenzione di Ginevra e dei principi fondamentali di proporzionalità e distinzione tra obiettivi militari e civili.
Le proteste si moltiplicano. Le dichiarazioni si susseguono.
Ma le parole non fermano i carri armati. Né i droni.
Né la logica di una guerra che ha cessato di riconoscere limiti morali o giuridici. Sul campo, Gaza è già spezzata. Il corridoio di Morag, creato lo scorso aprile 2025, ha diviso la Striscia in segmenti inaccessibili, tagliando linee di comunicazione e flussi umanitari.
L’avanzata israeliana procede casa per casa, centimetro per centimetro, secondo una dottrina che coniuga distruzione metodica e deterrenza visiva. Interi quartieri vengono trasformati in “zone sterili”: moschee, scuole, ospedali ridotti a detriti nel nome della sicurezza preventiva.
Ogni spazio conquistato è un vuoto: nessuna memoria, nessuna voce, nessun futuro. Nel frattempo, le immagini che filtrano – bambini malnutriti, corpi insepolti, madri disperate – alimentano un’ondata di indignazione globale.
Ma ogni consegna di aiuti è un dilemma strategico: alimentare Hamas o affamare Gaza?
Il rischio reputazionale per Israele è enorme. Perché questa non è più soltanto una guerra militare: è una guerra delle immagini, delle percezioni, della narrazione.
E in un mondo in cui ogni fotogramma diventa un tribunale morale, l’opinione pubblica internazionale è un campo di battaglia a tutti gli effetti.
L’occupazione totale, ora, è un fatto compiuto.
Non più un’ipotesi teorica, ma una dottrina applicata. Israele ha deciso di combattere non solo Hamas, ma l’inerzia della diplomazia, il giudizio della storia e la tenuta interna della propria società.
È una guerra per riscrivere il futuro.
Ma ogni incursione, ogni cadavere, ogni ostaggio salvato o perduto, andrà a comporre – riga dopo riga – un nuovo manuale della guerra del XXI secolo, scritto nel sangue e nell’assenza di legge.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
©RIPRODUZIONE RISERVATA

