Turchia: il profilo e il ruolo di Hakan Fidan nella politica del suo Paese

Di Giuseppe Gagliano

ANKARA. Hakan Fidan è nato ad Ankara nel 1968 ed è emerso come uno degli uomini più influenti della Turchia contemporanea.

Dopo una formazione iniziale nell’Esercito come sottufficiale addetto all’Intelligence, ha proseguito gli studi in ambito politico: ha ottenuto una laurea in Scienze Politiche presso l’Università del Maryland e un dottorato all’Università Bilkent di Istanbul .

La sua carriera nei primi anni 2000 lo ha visto ricoprire ruoli chiave nel campo della cooperazione internazionale (guidando ad esempio l’Agenzia governativa TİKA) e poi come consigliere per la sicurezza del primo ministro.

Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan  (Official State Department photo by Chuck Kennedy)

 

Nel 2010, a soli 42 anni, Fidan è stato nominato capo del MIT (Millî İstihbarat Teşkilatı), l’Organizzazione di Intelligence Nazionale , diventando il più giovane direttore dei servizi segreti turchi.

Da quel momento si è guadagnato la totale fiducia del Presidente Recep Tayyip Erdoğan, che lo ha definito il suo “custode dei segreti” personali e la sua “scatola nera” in seno allo Stato.

Questa lealtà e la profonda conoscenza dei dossier nazionali lo hanno portato a essere indicato spesso come l’uomo più potente del paese dopo Erdoğan, nonché come un possibile delfino destinato a succedergli .

Nel giugno 2023, dopo oltre un decennio trascorso nell’ombra alla guida dell’Intelligence, Fidan è passato alla ribalta venendo nominato Ministro degli Esteri di Ankara .

Questa mossa – per molti osservatori – è stata letta come il tentativo di Erdoğan di investire pubblicamente sul suo erede designato .

Il Presidente turco Erdogan

 

La nomina ha destato scalpore sia all’interno della burocrazia diplomatica sia tra gli oppositori: per la prima volta un “uomo dell’ombra” usciva alla luce, portando con sé il peso di tutti i segreti di Stato accumulati negli anni .

Molti si chiedevano quale sarebbe stata la sua “voce”, mai udita prima in ambito pubblico.

Da allora, la figura alta e dai tratti severi di Hakan Fidan – con i caratteristici baffi neri e una corta barba brizzolata – è diventata onnipresente accanto a Erdoğan negli incontri internazionali, segno di un nuovo ruolo di primissimo piano sulla scena pubblica .

Potere dietro le quinte: influenza nelle dinamiche interne

In Patria, Fidan ha esercitato un’influenza cruciale sulle dinamiche di potere interne, spesso agendo lontano dai riflettori.

Come capo del MIT, egli “ha in mano i dossier segreti dell’intera Nazione”, conoscendo nei dettagli la “Turchia profonda”.

Questa posizione gli ha permesso di forgiare i Sservizi segreti a suo uso e somiglianza, garantendo lealtà assoluta ad Erdoğan e divenendo il custode di informazioni sensibili sui nemici interni ed esterni del Governo.

Non a caso, quando nel 2012 alcuni procuratori legati al movimento Gülen provarono a incriminarlo accusandolo di collusione col terrorismo (per i contatti avuti con il PKK durante colloqui segreti di pace), Erdoğan reagì furiosamente, bloccando l’azione giudiziaria e definendo Fidan “il mio segreto custodito”.

L’episodio – noto come la “crisi del MIT” del 2012 – evidenziò lo scontro strisciante tra il Governo e la rete gülenista annidata nella magistratura, e consolidò ulteriormente il ruolo intoccabile di Fidan all’interno dell’apparato di sicurezza statale.

Fidan è stato anche un attore chiave nel delicato processo di pace con la minoranza curda.

Fu lui, in veste di emissario di Erdoğan, a condurre i colloqui riservati con il leader imprigionato del PKK Abdullah Öcalan: il 16 dicembre 2012 lo incontrò in segreto nel carcere di İmralı, gettando le basi di quella che sarebbe divenuta la “soluzione politica” nota come processo di Imrali (2013-2015).

Sostenitori del PKK

 

Sebbene quel tentativo di pacificazione interna sia poi naufragato, il coinvolgimento diretto di Fidan dimostra la sua importanza nelle questioni di sicurezza nazionale strategiche.

Parallelamente, durante il suo mandato al MIT, Fidan ha fronteggiato minacce endogene come la rete di Fethullah Gülen – accusata del tentato golpe del 2016 – orchestrando epurazioni e azioni di contro-intelligence.

Proprio durante il colpo di Stato fallito del 15 luglio 2016, il nome di Fidan emerse tra i protagonisti: fu informato nel pomeriggio di movimenti sospetti e di un possibile complotto per rapirlo, e allertò immediatamente il capo di stato maggiore Hulusi Akar .

Tuttavia la portata reale del putsch emerse solo a golpe iniziato, tanto che Erdoğan successivamente osservò amaramente di aver appreso del golpe dal cognato e non dai Servizi segreti.

Nonostante le critiche sollevate su possibili falle dell’intelligence, Fidan mantenne il suo incarico – segno che il Presidente non poteva fare a meno del suo uomo di fiducia nemmeno dopo un evento così traumatico.

In definitiva, all’interno dei confini nazionali Hakan Fidan ha agito da regista occulto, neutralizzando minacce al potere costituito e influenzando silenziosamente le politiche di sicurezza (dal contrasto al terrorismo interno alle strategie verso le minoranze) con un mix di fermezza e riservatezza.

Diplomazia occulta e proiezione di potenza all’estero

Oltre che in ambito interno, Fidan ha lasciato un’impronta marcata anche sulla politica estera turca, dapprima dietro le quinte e ora alla guida formale della diplomazia.

Già da capo dell’Intelligence, infatti, gestiva in prima persona molti dei dossier più “caldi” del Medio Oriente, spesso affiancando o addirittura sostituendo l’allora ministro degli Esteri nelle trattative più delicate.

Erdoğan gli ha affidato missioni riservate per normalizzare i rapporti con Paesi con cui la Turchia era in rotta: ad esempio, Fidan ha contribuito in modo determinante alla ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Egitto e con l’Arabia Saudita dopo anni di tensioni.

Allo stesso modo, è stato lui a condurre in segreto i negoziati con la Siria e con la Libia, ponendo le basi per un riavvicinamento che Ankara ha perseguito anche grazie alla mediazione della Russia.

In Libia, la mano di Fidan si è vista nell’accordo di cooperazione militare e nel supporto ai Governi di Tripoli, culminati nell’invio di droni e consiglieri che hanno ribaltato le sorti del conflitto nel 2020.

In Siria, già prima di assumere la carica ministeriale, Fidan aveva avviato colloqui riservati con il regime di Damasco (incontri con il capo dell’intelligence siriana Ali Mamluk facilitati da Mosca) per sondare una possibile riconciliazione dopo oltre un decennio di guerra civile.

Queste mosse riflettono il pragmatismo spregiudicato di Fidan: egli è disposto a dialogare sia con vecchi nemici regionali che con attori non-statali, se questo serve a espandere l’influenza turca o a garantire la sicurezza nazionale.

Significativamente, fonti diplomatiche hanno rivelato che spesso era Fidan – più ancora del

Mevlut Cavusoglu, ministro degli Esteri turco

– a condurre i contatti sotterranei con Governi e fazioni nella regione, fungendo da vero “ministro degli Esteri ombra” già da capo del MIT .

Accanto alla diplomazia tradizionale, Fidan non ha esitato a impiegare strumenti covert e operazioni speciali per proiettare la potenza turca oltre confine.

Un episodio emblematico è l’incidente dei “camion del MIT” nel gennaio 2014, quando i Servizi segreti turchi furono sorpresi a trasportare armi destinate ai ribelli siriani sotto copertura umanitaria. In quell’occasione, procuratori e gendarmi ritenuti vicini a Gülen fermarono alcuni tir nelle province di Hatay e Adana, sostenendo che contenessero equipaggiamenti bellici diretti ai gruppi anti-Assad .

Il Governo invocò il segreto di Stato e denunciò un complotto ai suoi danni, rimuovendo e arrestando i responsabili del blitz .

L’episodio, pur controverso, confermò il ruolo attivo di Fidan nel supporto alle operazioni turche in Siria: i suoi servizi, forgiati in oltre un decennio sotto la sua guida, hanno armato e consigliato le milizie sunnite siriane in funzione anti-regime.

Tale strategia ha contribuito a fare del MIT uno dei servizi segreti più abili della regione, capace di condurre operazioni clandestine ben coordinate con le Forze armate turche.

I risultati si sono visti anche in altri scenari: dall’Iraq, dove l’Intelligence turca ha colpito quadri del PKK nelle aree montuose, fino al Caucaso meridionale, dove la cooperazione militare-intelligence di Ankara ha dato un contributo decisivo al successo dell’Azerbaigian nel conflitto del Nagorno-Karabakh (2020) consolidando l’influenza turca sul Caucaso.

Soldati armeni impegnati nel Nagorno Karabakh

Oggi, come ministro degli Esteri, Fidan combina l’esperienza di spymaster con la nuova veste diplomatica, continuando però a operare con stile riservato e determinato.

La rete informativa da lui costruita è estesa e tocca ogni angolo del potere: non a caso, al suo arrivo alla guida della diplomazia nel 2023, molti funzionari si sono sentiti “gelare la schiena” all’idea che il nuovo ministro potesse “scandagliare i gangli nascosti” dei Dicasteri grazie al patrimonio di informazioni riservate accumulato .

In parallelo, Fidan ha curato la continuità al vertice dell’intelligence: al suo posto al MIT è subentrato Ibrahim Kalın, altro fedelissimo di Erdoğan, con cui Fidan forma un tandem affiatato e potente.

Questa duplice presenza – Fidan agli Esteri e Kalın ai Servizi Segreti – assicura a Erdoğan (e allo stesso Fidan) pieno controllo sia sulla diplomazia ufficiale sia sulle operazioni riservate.

In sintesi, la strategia di Hakan Fidan sul piano esterno si distingue per un approccio integrato: diplomazia parallela e azione occulta procedono di pari passo, rafforzando il peso di Ankara nello scacchiere internazionale.

Rapporti con le potenze regionali e globali

Nell’attuare la sua visione strategica, Fidan – e la Turchia di Erdoğan – si muovono in un complesso gioco di equilibrio tra potenze regionali e globali.

Il contesto geopolitico degli ultimi anni ha visto Ankara perseguire una politica estera multivettoriale, cercando di massimizzare i propri interessi nazionali oscillando tra Est e Ovest.

Le relazioni turco-russe sotto la gestione Erdoğan-Fidan sono caratterizzate da una forte pragmaticità e da cooperazione-competizione a seconda dei teatri.

Da un lato, Ankara e Mosca hanno sviluppato legami stretti sul piano economico ed energetico (come il gasdotto TurkStream e il progetto della centrale nucleare di Akkuyu) e la Turchia ha persino acquistato sistemi d’arma russi S-400, sfidando l’ira degli alleati NATO.

Dall’altro, in scenari regionali come la Siria, Fidan non ha esitato a contrastare attivamente gli interessi russi: i servizi turchi hanno sostenuto i ribelli anti-Assad in operazioni che hanno messo in difficoltà Mosca sul campo .

Nel 2015 la Turchia abbatté un caccia russo al confine siriano, innescando una grave crisi diplomatica poi ricomposta anche grazie a canali discreti di comunicazione – è plausibile che Fidan abbia facilitato il riavvicinamento successivo dietro le quinte. Oggi

Ankara continua a collaborare con Putin (ad esempio nel formato di Astana per la Siria e nel mediare la guerra in Ucraina), ma mantiene una sostanziale autonomia: la sfida per Fidan è bilanciare il partenariato tattico con Mosca senza compromettere gli impegni della Turchia nella NATO.

Con l’Iran, Fidan naviga una relazione complessa, sospesa tra rivalità geopolitica e intese puntuali.

Storicamente Ankara e Teheran sono concorrenti per influenza in Medio Oriente – la Turchia vede l’Iran più come un competitor regionale che come una minaccia esistenziale .

In Siria e in Iraq i due Paesi si sono trovati spesso su fronti opposti (Turchia schierata contro Assad e contro le milizie sciite filo-iraniane).

Ciò non ha impedito a Fidan di mantenere canali di dialogo sotterranei con la Repubblica Islamica: emblematico fu il caso rivelato nel 2013, secondo cui l’intelligence turca avrebbe passato a Teheran informazioni su agenti israeliani operanti in Iran, smantellando di fatto una rete spionistica di Mossad.

Questa presunta collaborazione con l’Iran contro un nemico comune (Israele) suscitò l’allarme di Israele e Stati Uniti, che videro in Fidan un elemento troppo “filo-iraniano” .

Dal canto suo, Ankara ha continuato a dialogare con Teheran anche per questioni di sicurezza comune, ad esempio coordinando alcune operazioni contro il PKK (e la sua emanazione iraniana PJAK) lungo le frontiere.

Fidan, da fine stratega, ha perfino esplorato la possibilità di una piattaforma regionale includente Iran e Paesi arabi: di recente ha proposto un coordinamento di sicurezza tra Turchia, Iraq, Siria e Giordania, segno che Ankara cerca di costruire un sistema regionale che inglobi anche Teheran in alcune soluzioni di stabilizzazione

Il rapporto resta però competitivo: la Turchia di Fidan intende limitare l’influenza iraniana dove confligge con i propri interessi (ad esempio impedendo che Teheran allarghi il suo corridoio sciita fino al Mediterraneo), pur evitando un confronto diretto.

La Turchia è formalmente alleata di Washington nella NATO, ma negli ultimi anni i rapporti sono stati spesso tesi.

Agli occhi di molti decisori statunitensi, Fidan incarna la linea della “autonomia strategica” turca che non sempre combacia con gli interessi americani. Già da capo dell’MIT egli destò preoccupazione a Washington, ad esempio quando emersero i sospetti di condivisione di segreti con l’Iran.

Durante la guerra civile siriana, Ankara ha contestato duramente il sostegno americano alle milizie curde YPG (legate al PKK) – un tema su cui Fidan ha avuto posizioni ferme, vedendo in quel supporto una minaccia diretta alla sicurezza turca.

Miliziane curde di YPG

Allo stesso tempo, è stato proprio Fidan a negoziare dietro le quinte compromessi con gli USA in frangenti delicati: si pensi alla liberazione di ostaggi o all’uso della base di İncirlik per le operazioni contro l’ISIS.

Nel 2022-2023 la Turchia, pur tra mille cautele, ha approvato l’allargamento della NATO a Finlandia e Svezia solo dopo aver ottenuto garanzie (soprattutto da Stoccolma) sul contrasto alle attività del PKK; e in queste trattative la regia di Fidan è stata determinante nel plasmare le condizioni di accettazione turche.

Guardando avanti, sotto la sua guida diplomatica Ankara sembra intenzionata a mantenere un approccio ambivalente verso gli USA: collaborazione su dossier di interesse comune (Difesa, Ucraina, Medio Oriente) ma ferma difesa degli interessi nazionali quando divergono.

Ciò significa che attriti come quelli visti per gli S-400 o per le sanzioni all’Iran potrebbero ripresentarsi, richiedendo tutta l’abilità di Fidan nel negoziare e nel far valere il peso geostrategico della Turchia (ad esempio, ricordando agli alleati che Ankara può sempre guardare ad Est in assenza di intese con l’Ovest).

I rapporti con l’UE si collocano in un quadro storico di alti e bassi, tra un’integrazione mai realizzata e una collaborazione pragmatica su alcuni fronti.

La candidatura all’UE della Turchia è di fatto congelata da anni, complice il deterioramento degli standard democratici sotto Erdoğan e i veti politici di alcuni membri. Fidan eredita dunque un dossier difficile, in cui Ankara è vista con diffidenza da molte capitali europee.

Tuttavia, la Turchia resta un partner imprescindibile per l’UE su questioni come il controllo delle migrazioni, la lotta al terrorismo e la stabilità regionale.

In passato, Erdoğan – con l’aiuto dietro le quinte di Fidan – ha saputo strappare accordi importanti come quello del 2016 sulla gestione dei rifugiati siriani, usando come leva la posizione geografia turca ai confini dell’Europa.

Da ministro degli Esteri, Fidan ha inizialmente inviato segnali di volersi riavvicinare a Bruxelles, parlando di “aggiornare” l’Unione Doganale e di riaprire canali di dialogo.

La sua abilità tattica potrebbe riattivare un approccio transazionale: offrire collaborazione (ad esempio sul dossier migratorio, o come mediatore in conflitti limitrofi all’Europa) in cambio di concessioni economiche e politiche.

Restano però notevoli ostacoli, tra cui le dispute nel Mediterraneo orientale con Cipro e Grecia – dove Fidan dovrà moderare le ambizioni della dottrina nazionalista “Patria Blu” per evitare scontri navali – e la questione dei diritti umani che l’UE non può ignorare. In sintesi, con le cancellerie europee Fidan adotterà verosimilmente una linea realista: mantenere aperto il dialogo e gli affari, pur sapendo che un pieno abbraccio politico è improbabile.

La Turchia continuerà a proporsi come potenza autonoma che collabora con l’Europa solo entro i limiti in cui ciò non vincoli la propria sovranità d’azione.

Negli ultimi anni Ankara ha mostrato un interesse crescente verso Pechino, in parallelo al proprio spostamento verso est in termini geopolitici. Fidan, da stratega silenzioso, è consapevole del peso che la Cina ha assunto a livello globale e delle opportunità che offre come partner alternativo all’Occidente.

Già sotto la guida di Erdoğan, la Turchia ha aderito come membro fondatore alla Asian Infrastructure Investment Bank promossa dalla Cina e ha partecipato attivamente alla Belt and Road Initiative (BRI) attraverso il cosiddetto Corridoio Centrale che collega l’Asia centrale alla Turchia.

I rapporti con Pechino restano comunque improntati a cautela reciproca: la Cina vede la Turchia come un mercato promettente e un attore chiave nella regione eurasiatica, ma diffida delle sue alleanze NATO; dal canto suo Ankara cerca investimenti e cooperazione tecnologica cinesi, evitando però di dipendere eccessivamente da Pechino.

Un tema sensibile è quello della minoranza turcofona degli uiguri nello Xinjiang: in passato la Turchia ha criticato le politiche cinesi verso gli uiguri, ma più di recente – anche grazie all’influenza di figure come Fidan, incline a mettere al primo posto la Realpolitik – il Governo turco ha abbassato i toni per non compromettere i rapporti economici.

Nel contesto globale in cui USA e Cina competono per l’influenza, Fidan probabilmente continuerà la “politica dell’altalena”: mantenere rapporti cordiali con Pechino (esplorando magari cooperazioni nella Shanghai Cooperation Organization, dove la Turchia è partner di dialogo) pur senza rompere con Washington.

Questa postura ambivalente mira a massimizzare i benefici: ottenere sia dalla Cina sia dall’Occidente supporto economico e politico, evitando di schierarsi esclusivamente da una parte.

Prospettive future sotto la leadership di Fidan e impatto sulla stabilità regionale

L’ascesa di Hakan Fidan alimenta interrogativi sul futuro della Turchia e sul suo ruolo regionale.

In Patria, molti si chiedono se sarà lui il successore di Erdoğan alla guida dello Stato, ipotesi resa plausibile dall’investitura implicita ricevuta con la nomina agli Esteri e dal posto centrale che occupa nei meccanismi di potere.

Se Fidan dovesse effettivamente diventare il nuovo leader (il “Reis” di domani come titolano alcuni osservatori ) possiamo attenderci una sostanziale continuità con l’impronta strategica dell’era Erdoğan, sebbene con alcune sfumature personali. Fidan non è un politico di piazza né un carismatico oratore populista: il suo stile è più tecnocratico e riservato, forgiato nell’ombra delle operazioni d’intelligence.

Ciò significa che una Turchia guidata da lui potrebbe essere meno incline a improvvise virate retoriche, ma ugualmente – se non più – determinata a perseguire gli interessi nazionali in modo assertivo.

La sua Turchia probabilmente continuerebbe sulla strada del nazionalismo pragmatico, enfatizzando l’autosufficienza in difesa (sviluppo di droni, missili, ecc.), l’attivismo militare oltre confine quando ritenuto necessario, e la diplomazia flessibile su più tavoli.

A livello regionale, l’eventuale leadership di Fidan consoliderebbe il ruolo di Ankara come potenza cardine tra Europa, Medio Oriente e Asia.

Sotto la sua regia, la Turchia potrebbe intensificare le iniziative per ridisegnare a proprio favore gli equilibri nel Vicino Oriente.

Uno scenario ipotetico, delineato da alcuni analisti, vede ad esempio Ankara pronta a sfruttare ogni spiraglio per risolvere a suo vantaggio la questione siriana: se il regime di Assad mostrasse segni di cedimento, Fidan non esiterebbe a supportare un cambio di regime fulmineo sostenendo le forze ribelli sul campo, anche a costo di sfidare apertamente Russia e Iran . In uno scenario del genere – descritto come blitz vittorioso e sorprendentemente rapido – la Turchia si ergerebbe a vincitore reale in Siria, certificando la propria ascendente influenza neo-ottomana nella regione .

Ovviamente, si tratta di prospettive che dipendono dalle opportunità storiche: Fidan si è dimostrato abile nel cogliere i momenti propizi, come un giocatore di scacchi che attende la mossa giusta per fare scacco matto. Laddove invece fosse più fruttuoso il compromesso, egli potrebbe scegliere la via diplomatica – ad esempio favorendo un accordo graduale con Damasco se questo garantisse la neutralizzazione delle milizie curde al confine e il contenimento dell’Iran.

L’impatto di una Turchia sempre più assertiva sotto la guida (de facto o de jure) di Fidan sulla stabilità regionale sarebbe significativo.

In positivo, Ankara potrebbe fungere da attore stabilizzatore in alcuni conflitti: grazie ai suoi canali con attori tra loro nemici (dall’Occidente alla Russia, da Israele ai palestinesi, dall’Ucraina ai talebani), la Turchia fidiana ha il potenziale di mediare crisi internazionali – come già visto con il ruolo turco nel negoziare l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina nel 2022, o nei tentativi di scambio di prigionieri.

Inoltre, una Turchia forte potrebbe scoraggiare iniziative unilaterali di altre potenze regionali, imponendo consultazioni più ampie (si pensi al dossier energetico del Mediterraneo, dove Ankara rivendica la sua parte e costringe Grecia, Cipro, Israele ed Egitto a tenere conto dei propri interessi).

D’altra parte, l’ambizione turca potrebbe anche tradursi in nuove linee di frattura se non ben calibrata: ad esempio, un coinvolgimento turco più deciso nel conflitto israelo-palestinese a sostegno di Gaza o una proiezione militare in zone tradizionalmente sotto influenza iraniana o russa potrebbero innescare contraccolpi e competizioni pericolose.

Lo stesso rapporto con l’Occidente rimarrebbe ambiguo, con il rischio di attriti più forti qualora Ankara espandesse ulteriormente la cooperazione con potenze come Cina o approfondisse la partnership militare con Mosca.

In conclusione, Hakan Fidan rappresenta il trait d’union tra la fase attuale della Turchia e il suo possibile futuro.

La sua carriera, dalle retrovie dell’Intelligence ai vertici della diplomazia, riflette l’evoluzione di un paese passato dall’essere attore secondario nell’ordine bipolare a giocatore autonomo di primo piano in un mondo multipolare. Con le sue strategie nell’ombra, la capacità di maneggiare informazioni sensibili e di tessere trame diplomatiche segrete, Fidan ha contribuito a plasmare una Turchia più assertiva sulla scena internazionale.

Il contesto storico e geopolitico –-dalle Primavere Arabe alla guerra in Siria, dalla competizione USA-Russia alla nuova centralità del Medio Oriente per Cina e potenze emergenti – gli ha offerto opportunità e sfide che egli ha affrontato con pragmatismo spietato.

Se il suo peso continuerà a crescere fino a tradursi in una leadership effettiva, la regione dovrà confrontarsi con una Turchia ancor più protagonista: un fattore che potrebbe rivelarsi elemento di stabilizzazione attraverso il potere negoziale di Ankara, oppure motivo di instabilità qualora le ambizioni turche dovessero scontrarsi frontalmente con gli interessi di altre grandi potenze.

Ciò che appare certo è che Hakan Fidan, l’uomo uscito dall’ombra, resterà al centro delle dinamiche turche e mediorientali negli anni a venire, incarnando la linea di confine – a volte sottile, a volte tagliente – tra sicurezza interna e proiezione esterna di un paese in costante ridefinizione del proprio ruolo globale.

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