Di Giuseppe Gagliano
YEREVAN .Sotto il cielo inquieto del Caucaso, dove le montagne custodiscono segreti antichi e le frontiere bruciano di tensioni mai sopite, un’incertezza pesante come il piombo sta scuotendo le ambizioni di una compagnia francese.
L’accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian, un miraggio che sfuma e si riforma come un’ombra sulle dune, tiene in ostaggio non solo la stabilità della regione, ma anche i progetti ferroviari che dovrebbero intrecciare il futuro del Sud Caucaso.

È una storia di binari che non si posano, di treni che non partono, di una Francia che guarda da lontano mentre il suo investimento rischia di deragliare.
La pace, o quel che ne resta, è un filo sottile teso tra Yerevan e Baku.
Dopo decenni di conflitti, guerre lampo e promesse tradite – ultima quella del Nagorno-Karabakh, strappato all’Armenia da un Azerbaigian trionfante nel 2023 – i due Paesi sembrano danzare sull’orlo di un’intesa.
Eppure, ogni passo avanti è seguito da un inciampo: questioni di confine irrisolte, il corridoio di Zangezur che l’Azerbaigian reclama e l’Armenia teme, e una sfiducia che è più dura del granito delle loro montagne.
Questa instabilità, un mostro che si nutre di sospetti e vecchie ferite, sta mandando in tilt i piani di un’azienda francese che aveva puntato sul rilancio delle ferrovie caucasiche come chiave per unire economie e popoli.
Non è solo una questione di acciaio e traversine.
I progetti ferroviari nel Caucaso – pensati per collegare l’Armenia alla Georgia, l’Azerbaigian alla Turchia, e magari oltre, verso l’Europa – sono un sogno di modernità in una terra che vive ancora all’ombra del passato sovietico.
La compagnia francese, con la sua esperienza e il suo fiuto per gli affari, aveva visto un’opportunità: trasformare il Caucaso in un nodo strategico, un ponte tra Est e Ovest, tra il Mar Nero e il Caspio.
Ma il sogno si scontra con la realtà.
L’incertezza sull’accordo di pace non è solo un titolo da giornale: è un macigno che frena finanziamenti, spaventa investitori e lascia gli ingegneri a fissare mappe che potrebbero restare carta straccia.
A complicare tutto, c’è la geopolitica che soffia come un vento gelido.
La Russia, un tempo padrona del gioco caucasico, vede la sua influenza scricchiolare, impegnata com’è in Ucraina e incapace di imporre la sua volontà su Armenia e Azerbaigian.
L’Unione Europea, con la sua missione di monitoraggio al confine, prova a inserirsi, ma non ha la forza di sciogliere i nodi.

La Turchia, alleata di ferro di Baku, spinge per un corridoio che tagli l’Armenia, mentre l’Iran guarda con sospetto da Sud.
In questo groviglio, la Compagnia francese si trova a fare i conti non solo con l’instabilità locale, ma con un risiko internazionale che rende ogni passo un azzardo.

E poi ci sono i numeri, freddi e implacabili. Fonti dell’industria parlano di ritardi nei lavori, di costi che lievitano, di contratti appesi a un “se” grande quanto il Caucaso stesso.
Un rapporto recente suggerisce che il progetto di una linea ferroviaria chiave, destinata a collegare l’Armenia al porto georgiano di Batumi, sia fermo al palo: i finanziamenti europei, promessi con entusiasmo, si sono raffreddati di fronte al rischio di un nuovo conflitto.
L’Azerbaigian, con il suo petrolio e la sua sicurezza ritrovata, potrebbe andare avanti da solo, ma l’Armenia, isolata e indebolita, è un anello fragile che minaccia l’intera catena
Cosa resta?
Un’azienda francese che aspetta, con il fiato sospeso, che Yerevan e Baku trovino un modo per sedersi allo stesso tavolo senza brandire coltelli. Una regione che potrebbe essere un crocevia di commerci e culture, ma che per ora è solo un campo di battaglia sospeso. E un’Europa che, ancora una volta, scopre quanto sia difficile piantare radici in un terreno che trema.
La pace nel Caucaso non è solo una questione di trattati: è una scommessa su cui si giocano destini lontani, dai palazzi di Parigi alle valli di Syunik.
E per ora, il treno resta in stazione, immobile, mentre il tempo scorre e le ombre si allungano.
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