Di Daniela Lombardi
Roma. “Il 15 settembre 1943, mio figlio Salvo D’Acquisto, Vice Brigadiere dei Carabinieri reali, effettivo, cadeva in Torrimpietra (Roma) dove prestava servizio, trucidato dalla barbara mitraglia tedesca, per salvare 22 ostaggi civili, che dovevano subire la sua stessa tragica sorte. Finora, malgrado lettere scritte dalla desolata madre e da uno zio, dirette alla Stazione di Torrimpietra, occupata Roma, né quel comandante, né i suoi superiori, si sono curati di rispondere per mettere la famiglia del defunto al corrente della grave disgrazia toccatagli, ed io padre, sarei ancora all’oscuro dell’orribile sciagura, se parenti non mi avessero informato un mese or sono. Quanto ciò sia edificante, lo giudichi V.E”.
E’ un uomo pieno di dolore e di amarezza, quello che, da un quartiere della Napoli martoriata dalla Seconda Guerra mondiale, scrive queste righe nel settembre 1944 al Comando generale dell’Arma dei Carabinieri.
Come un fulmine a ciel sereno, gli è giunta da poco la notizia che il suo amato ragazzo un anno prima è stato trucidato dall’esercito di occupazione nazista.
L’uomo si chiama Salvatore D’Acquisto ed è il padre del giovane Salvo che, quando si conoscerà il suo gesto di eroismo, darà il nome alle caserme dei Carabinieri di mezza Italia, consegnando il suo esempio alla storia della Nazione.
E’ papà Salvatore che, insieme all’afflitta moglie Ines, ripercorrerà i passi del figlio.
Il povero Salvatore indica, nella sua missiva al Comando dei Carabinieri, la data del 15 settembre come giorno del martirio del figlio.
Nel caos generale del periodo questa è l’informazione che gli è arrivata, mentre verrà poi accertato che l’assassinio di Salvo ebbe luogo il 23 settembre del 1943.
Mentre cerca dunque le parole per chiedere notizie dei fatti che gli hanno portato via un pezzo del proprio cuore, non può conoscere ciò che il Parroco del posto sa da testimone diretto degli accadimenti e trascriverà poi, appena quattro giorni dopo la fucilazione, nel suo diario.
E’ un affresco impietoso dei fatti accaduti il 23 settembre 1943, quello del Parroco di Sant’Antonio Abate, Don Zedda: “Nella mattina del 23 Settembre, verso le ore nove, comparve nel Castello (la stazione dei Carabinieri di Torrimpietra era ubicata nel castello dei Carandini ndr) un gruppo di soldati tedeschi armati fino ai denti. Erano venuti per catturare i Carabinieri ritenuti responsabili o conniventi in un attentato con bombe a mano contro il posto tedesco della marina di Palidoro, in cui tre soldati tedeschi rimasero feriti. Il Brigadiere fu catturato e subito portato via a bordo di una moto”.
Quando i militari nazisti arrivarono a Torrimpietra, chiesero del comandante della stazione.
Qualcosa era accaduto a Palidoro la notte precedente e un commando degli ex alleati voleva spiegazioni.
Salvo non aveva ancora compiuto 23 anni era nato a Napoli il 17 ottobre 1920 – ed era solo Vice Brigadiere, ma il comandante della stazione, il Maresciallo Monteforte, in quel momento si trovava a Roma, dove era andato a prendere ordini dalla Tenenza per capire come fronteggiare la situazione di caos assoluto che si era venuta a creare dopo l’armistizio dell’8 settembre.
La reazione tedesca all’annuncio dell’armistizio fu infatti immediata, anche perché, come si accennava, lo stato maggiore tedesco aveva già schierato in estate le truppe ai valichi con l’Italia.
Tali formazioni si riversarono con rapidità su tutta la Penisola.
In poco tempo Nord e Centro Italia furono occupati dai tedeschi.
Questo era proprio il quadro generale dell’Italia nel periodo in cui maturò la vicenda di Salvo D’Acquisto.
Purtroppo per Salvo, gli eventi si stavano susseguendo in fretta ed avrebbero presto portato alla sua fine.
I tedeschi avevano deciso, la sera prima del 23 settembre, di occupare la Torre di Palidoro nella quale nei giorni precedenti erano di servizio i Finanzieri.
Le Fiamme Gialle, infatti, operavano da qui per sorvegliare le coste, impedire attacchi via mare, situazioni di pesca illegale e tutti i reati connessi con l’utilizzo a scopi illeciti delle vie d’acqua.
Tre soldati del Reich perlustrarono la costruzione.
Tra gli oggetti “attenzionati” dai nazisti saltava agli occhi una cassa.
Cercando di forzarla, i militari avevano innescato un’esplosione che aveva ferito due di loro e ucciso un terzo camerata.
Così, la reazione tedesca non si era fatta attendere. Già all’alba un gruppo si era messo in movimento per cercare il responsabile di quanto accaduto.
L’oltraggio andava punito in maniera esemplare, per evitare nuovi atti di sabotaggio ai danni di contingenti germanici.
In una soleggiata mattina di settembre una tranquilla frazione romana si trasformò nel teatro di un’azione repressiva, destinata a entrare nei libri di storia.
Non trovando a chi chiedere conto dell’accaduto, i tedeschi decisero di rivolgersi alla vicina stazione dei Carabinieri di Torrimpietra, dove maturò la cattura di Salvo D’Acquisto.
L’episodio e i successivi rastrellamenti sono stati raccontati con una considerevole precisione dal testimone diretto: Angelo Amodio.
Il quale, in seguito, rimasto nella buca con D’Acquisto, assistette agli ultimi momenti della vita del Vice Brigadiere.
“La mattina del 23 settembre 1943, verso le 8,30 – 9,00 – raccontò Amodio – mi stavo recando in bicicletta da casa al castello di Torrimpietra per acquistare dell’uva e lungo la strada venni superato da una motocicletta con sidecar e da un camion guidato dai tedeschi.
Sul momento non pensai a nascondermi perché era normale all’epoca convivere con loro.
Senonchè appena varcai la porta delle mura del castello venni invitato da un tedesco a nascondermi in un deposito di materiale edile.
Mentre mi portavo al punto indicato potei notare che D’Acquisto, sceso dalla caserma, situata all’ultimo piano del castello, dietro invito dei tedeschi che cercavano il comandante, veniva preso con violenza e scaraventato nella motocarrozzetta. Dopodichè fatta l’inversione di marcia questa partì velocemente in direzione di Palidoro, come poi si seppe”.
“Dopo circa una mezz’ora arriva un camion tedesco con una decina di militari delle SS. Scendono come invasati urlando e sparando in aria. Le parole che si riusciva a capire erano: Raus, Kaputt. Ci riunivano nel piazzale. Rimanemmo lì con le mani alzate e con tanta paura”. Questa volta, a raccontare, è il signor Nando Attili, altro testimone oculare.
Aggiunge Attili: “Noi che ci trovavamo nella piazza, maggiormente intimoriti, venimmo sospinti davanti alla chiesa sotto la minaccia dei fucili mitragliatori puntati verso di noi. Perquisirono le case, trovarono il berretto del conte Carandini con le insegne di Capitano d’Artiglieria e tramite l’interprete ci domandarono: dov’è l’ufficiale. C’era anche un interprete era un soldato giovane, di bassa statura. Io mi faccio coraggio e gli domando: cosa volete farci? E lui di risposta ci dice che la notte precedente gli italiani hanno fatto un sabotaggio contro camerati tedeschi e che oggi vi sarebbero state cinquanta fucilazioni per rappresaglia. Io riesco a dire: noi siamo soltanto degli operai. Ed il tedesco: ma siete italiani! Allora comincio a piangere ed altri piangono con me. Andarono in chiesa, ove era presente il parroco, alla ricerca di persone eventualmente ivi nascoste. Passano alcuni minuti e l’interprete ci dice: ‘per oggi fare festa, andare tutti a casa’. Stiamo per scioglierci quando arriva un ufficiale tedesco che urla: ‘Alt’. Rimanemmo sbalorditi non sapendo cosa succedesse, poi i tedeschi risalgono sul camion e se ne vanno, ne resta solo uno con la pistola spianata. Ci porta in un cortile antistante alcune cantine e siamo così tutti accalcati contro le botti vuote e le fascine. Rivolgo ancora una domanda: Camerata cosa fare di noi? E lui di risposta: Non capire”.
In questo momento così ben descritto da Attili, la sorte degli ostaggi è ancora avvolta nella nebbia più fitta, tanto che neanche i soldati tedeschi sanno ancora quale sarà la loro fine.
Questa dipenderà dall’eventualità che il responsabile dell’attentato venga assicurato alla giustizia militare tedesca.
L’elemento che deciderà il destino di quelle persone riunite sul piazzale lo spiega ancora Attili, che prova ancora a chiedere al soldato tedesco: “Camerata, che cosa fare di noi? E lui questa volta risponde: “se arriva moto tutti liberi, se invece arriva camion tutti kaputt”.
Il senso dell’affermazione è stato analizzato.
Quelle parole vogliono dire che il soldato sapeva bene che i suoi camerati erano in cerca degli autori dell’attentato.
Sapeva inoltre che Salvo d’Acquisto era stato arrestato e portato a Palidoro con il preciso intento di ottenere da lui delle informazioni sugli attentatori.
Se questi fossero stati catturati, non sarebbe stato il caso di procedere oltre nelle indagini e nella rappresaglia.
Per questo, sarebbe stata inviata una motocicletta a Torrimpietra per ordinare di rilasciare tutti i civili rastrellati.
Se, al contrario, non vi fosse stata alcuna cattura, se Salvo non avesse dato alcuna informazione utile, allora sarebbe arrivato un camion per trasportare a Palidoro i civili.
Qui, sarebbe stata eseguita la rappresaglia.
Quel giorno, a Torrimpietra, arrivò il camion.
Certo, Salvo che era stato portato a Palidoro dai tedeschi per essere malmenato e convinto così, con “le cattive”, a fare il nome degli autori – o dell’autore – dell’attentato, avrebbe potuto determinare la svolta.
Avrebbe potuto fare un nome, uno qualsiasi, per fare in modo che quel giorno, a Torrimpietra, arrivasse la moto con a bordo un soldato che poteva pronunciare la frase della libertà: “Tutti a casa”.
Un sogno per gli abitanti di Torrimpietra. Ma un incubo per una coscienza retta come quella di Salvo.
Da Carabiniere, lui conosceva la sua comunità. Sicuramente conosceva qualche noto antifascista.
A Salvo sarebbe stato facile far finta di sapere che proprio quel tizio che un giorno aveva sentito pronunciare sottovoce frasi come: “Il Duce ha sbagliato” oppure “L’alleanza con la Germania ci ha condotti alla rovina” fosse l’autore di quello che per i tedeschi era un attentato.
La storia insegna che quello era un periodo di delazioni, di false denunce, di innumerevoli atti di vigliaccheria.
Salvo era diverso dagli altri. Di fronte alla possibilità di accusare un innocente, rimase in silenzio.
Quei terribili momenti in cui sfuma per sempre la speranza che arrivi la moto, per comunicare che è tutto risolto, che si è trovato il colpevole e che ora tutti possono andare a casa, li ricorda ancora Attili. “Poco dopo arriva il camion e all’improvviso quel giovane tedesco che sembrava buono si mette a gridare con gli altri. E’ la stessa scena di prima: sparano e urlano per farci paura. Ci ingiungono di salire sul camion”.
Così, 22 ostaggi – queste le persone rimaste nelle mani dei tedeschi dopo che donne e bambini erano stati esclusi dalla rappresaglia e dopo che qualcuno era riuscito a salvarsi o con la fuga o mostrando la tessera fascista – vennero condotti al Comando SS di Palidoro, dove avrebbero raggiunto il Vice Brigadiere D’Acquisto.
Le 22 persone che assisteranno ad una delle pagine più buie della storia e al contempo delle più luminose grazie all’intervento di Salvo D’Acquisto, sono: Michele Vuerik, Benvenuto Caiatto, Fortunato Rossin, Gedeone Rossin, Umberto Trevisiol, Ernesto Zuccon, Vittorio Bernardi, Rinaldo De Marchi, Natale Giannacco, Nando Attili, Attilio Attili, Attilio Pitton, Vincenzo Meta, Giuseppe Felter, Enrico Brioschi, Erminio Carlini, Gino Battaglini, Tarquinio Boccaccini, Oreste Mannocci, Sergio Manzoni, Angelo Amadio, Ennio Baldassarri.
Mentre gli ostaggi venivano condotti a Palidoro, Salvo era da ore lì, con la sua camicia insanguinata a causa delle percosse di chi voleva costringerlo a parlare, ma con in mano la sua verità limpida e senza macchia.
E’ proprio di fronte al comando delle SS, in tarda mattinata, che i destini degli abitanti del paese e quello del loro Vice Brigadiere si ricongiungono, per poi tornare a dividersi per sempre sul far della sera.
“Si era verso mezzogiorno – ricorda Attili – quando arrivammo al comando delle SS di Palidoro. Sulla piazza del castello di Palidoro vediamo il Vice Brigadiere Salvo D’Acquisto stretto fra due soldati. Ha la camicia rotta e macchiata di sangue. Lo fanno salire sul camion e subito si riparte verso la torre di Palidoro. Ci segue un plotone di tedeschi a piedi con pale e picconi. Durante il tragitto verso la torre che dista quasi tre chilometri, nessuno parla. Solo io continuo a ripetere qualche invocazione come: ‘Sant’Antonio facci la grazia’. Il pensiero va a mio figlio e sono disperato. Giunti alla torre ci fanno scendere, ci mettono in fila accanto ad una siepe. Il Vice Brigadiere è vicino a me. Lo imploro: ‘Dica qualcosa lei; noi siamo operai, perché ci devono ammazzare?.
Lui non risponde, ma chiama l’interprete e successivamente si allontana con il Comandante del plotone.
Così appartati, parlano per qualche minuto. Non sono lontani da noi più di una quindicina di passi, ma nessuno riesce a sentire quello che dicono. Quando il Vice Brigadiere mi torna accanto, gli chiedo con tanta ansietà: ‘Ed allora?’. Lui che mi conosceva bene mi risponde con calma: ‘Senti Nando, il mio dovere l’ho fatto. Per quanto io ho detto, io penso che voi sarete salvi. Io devo morire. Una volta si nasce e una volta si muore’. Io incalzo: ‘Sì, ma noi?’. E lui: ‘Quello che potevo fare per voi l’ho fatto, ora bisogna vedere cosa succede, perché con questa gente non si sa mai cosa pensa’. Poi guardando la torre di Palidoro soggiunge: ‘Vedi cosa hanno fatto questa notte? Un dispetto che ci ha messi tutti nei guai! Voi sarete salvi, io devo morire’, disse quel ragazzo generoso. Sapeva già di aver regalato la sua vita in cambio di un futuro per tanti padri di famiglia. Ma Salvo, per essere sicuro di ciò che sarebbe accaduto, aveva chiesto di conferire anche con il Comandante tedesco, che era assente al momento del colloquio con l’interprete”.
Questa volta è Vincenzo Meta a ricostruire la svolta.
“Verso le 17,00 ricevuto con il ‘presentat’arm’ arrivò il comandante tedesco da Ladispoli. Era un Maggiore delle SS reduce dalla Russia come io, avendo avuto occasione di fare per sei mesi a Gormons (Gorizia) il militare insieme con le SS, potei constatare dal nastrino delle campagne che portava sul petto.
L’interprete parlottò con il Comandante, riferendogli presumibilmente che il Vice Brigadiere aveva chiesto di conferire con lui. La cosa divenne chiara perché venne fatto cenno con la mano verso Salvo D’Acquisto e subito dopo il Maggiore lo chiamò con un cenno del dito. Salvo, uscito dalla fossa, si avvicinò al Comandante dicendogli tramite l’interprete, come io stesso ho potuto sentire perché il Maggiore si era fermato a 4 o 5 metri da noi: ‘Se trovate il responsabile dell’atto di sabotaggio lasciate liberi gli ostaggi?’. Alla risposta affermativa del Maggiore, Salvo soggiunse: ‘Sono soltanto io’”.
Alla risposta di D’Acquisto il comandante tedesco, evidentemente incredulo, viene visto agitare a lungo il frustino davanti al viso del vicebrigadiere. Subito dopo, secondo i presenti, lo rimandò nella fossa.
“Poi dette l’ordine all’interprete di farci uscire dallo scavo”, riprende la cronaca di quei momenti riportata da Meta: “Anche Salvo fece l’atto di uscire, ma l’interprete gli ingiunse di rimanere nella buca insieme con Amadio che era stato sentito parlottare con il Vice Brigadiere. Usciti dalla fossa fummo portati in fila indiana alla casa colonica che stava a una cinquantina di metri dalla torre, dove il comandante tramite l’interprete ci disse: ‘Per questa volta siete tutti liberi, perché qualcuno si è assunta la responsabilità dell’atto di sabotaggio; però vi prego di non cercare di fare atti di sabotaggio alle forze tedesche. Noi siamo nel vostro paese per mantenere l’ordine. Se vedete o venite a sapere che qualcuno compie atti di sabotaggio riferitelo al più vicino comando tedesco”. Tutti rispondemmo in coro di sì. Mentre tutti gli ostaggi avevano ripreso la strada di Torrimpietra, io da solo mi avviai per i campi verso Maccarese. A circa 300 metri mi fermai presso un casale che aveva annesso un fontanile per lavarmi. Fu allora che sentii tre raffiche di mitra che erano quelle che uccisero il Vice Brigadiere”.
Finisce così, la concitata e terribile giornata del 23 settembre 1943.
Un gruppo di uomini, dopo aver vissuto l’angoscia ed il dolore, riesce a tornare a guardare al futuro.
Con la fiducia che la guerra si allontani, che l’Italia trovi un suo equilibrio, che le sorti della Nazione siano luminose come in tanti, prima del conflitto, avevano sperato.
Come Salvo aveva desiderato persino nei momenti più cupi, dimostrando di credere davvero in questa eventualità e di voler mantenere alto il suo onore, fino al momento della rinascita e delle risalita, senza tradire e senza nascondersi.
Salvo non vedrà mai la sua Patria che si risolleva da momenti di disperazione e panico.
Mentre altri, grazie a lui, usciranno dalla buca del rancore e della vendetta, resterà in quella fossa dalla quale solo la pietà di alcuni concittadini riuscirà a tirarlo fuori per onorarlo con una sepoltura e dalla quale solo la memoria sarà capace di farlo uscire per consegnarlo alla Storia.
Nota
La presente ricostruzione del sacrificio di Salvo D’Acquisto è tratta dal libro dell’autrice “Il mio dovere l’ho fatto”, pubblicato dalla Lev (Libreria Editrice Vaticana) e basato interamente su documenti originali ed inediti e su testimonianze dirette di coloro che furono i protagonisti della vicenda storica, raccolti in vista del processo di Beatificazione del Vice Brigadiere dei Carabinieri.
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