Festa 25 aprile, i Carabinieri nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione

Di Antonino Neosi*

Roma. Dall’8 settembre 1943 all’aprile 1945 l’Arma dei Carabinieri visse uno dei periodi più difficili e al tempo stesso esaltanti della sua lunga storia.

Il Capitano Antonio Penna nelle 4 Giornate di Napoli

Sebbene duramente provata su ogni fronte da quasi tre anni di guerra, trasse dalle sue antiche virtù militari l’energia organizzativa e la coesione morale per cimentarsi nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione, confermando così la secolare sua fedeltà alle Istituzioni dello Stato.

Non più rigidamente inquadrati nei reparti dell’ordinamento di guerra, ma raccolti in nuclei e formazioni clandestine, a volte di consistenza massiccia, a volte di esigua entità, i Carabinieri diedero un impulso rilevante alla lotta contro le forze nazi-fasciste.

Nel corso di questa lotta essi furono decisivamente sostenuti dall’apparato dei comandi territoriali dell’Arma, dalle Stazioni alle più alte Unità, trasformate in altrettanti centri di appoggio, che operarono rischiosamente anche a vantaggio dell’eroica iniziativa dei singoli.

L’Arma sin dal 25 luglio del 1943, all’indomani della seduta del Gran Consiglio del Fascismo che aveva avviato la caduta di quella dittatura, si era connotata, agli occhi dei Tedeschi, come ambigua e inaffidabile, soprattutto a Roma.

Fedeli alla loro missione di Carabinieri Reali, infatti, alcuni suoi ufficiali, il Tenente Colonnello Giovanni Frignani, il Capitano Raffaele Aversa, poi trucidati alle Fosse Ardeatine e il Capitano Paolo Vigneri, comandanti dell’Arma territoriale della Capitale, avevano arrestato Benito Mussolini all’uscita di Villa Savoia, dopo un ultimo colloquio con il re. Più tardi, alla proclamazione dell’armistizio, la sera dell’8 settembre, i Carabinieri avevano reagito in tutta Italia all’occupazione tedesca, in molti casi respingendo e infliggendo perdite anche significative agli ex-alleati.

L’8 e il 9 settembre a Roma, un battaglione di Allievi Carabinieri, poi rimpiazzato dal Gruppo Squadroni Carabinieri “Pastrengo”, aveva efficacemente preso parte ai combattimenti di Porta San Paolo, per contrastare l’ingresso di due Divisioni tedesche in città, registrando l’eroico sacrificio del Capitano Orlando De Tommaso, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria, e di altri giovani militari con lui.

Un momento della battaglia di Porta San Paolo, a Roma, il 10 settembre 1943

A Monterotondo (Roma), i Carabinieri si erano distinti nella difesa del Quartier Generale dell’Esercito, e così avevano fatto i Carabinieri di molti altri reparti mobilitati, inquadrati all’interno delle Forze Armate, ma non minore era stata la reazione anche da parte dell’Arma territoriale.

A seguito del trasferimento del re e del Governo legittimo del Paese, anche il Comando Generale dell’Arma, dal 12 settembre, si era ricostituito in Bari come Comando Carabinieri dell’Italia Meridionale che, dal successivo 15 novembre, assunse la denominazione di Comando dell’Arma dei Carabinieri dell’Italia Liberata dal quale dipendevano le Legioni di Bari, di Cagliari, di Catanzaro e di Napoli.

La ricostituzione in Roma del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri sarebbe avvenuta ufficialmente il 20 luglio 1944.

Nella Resistenza e nella Guerra di Liberazione i Carabinieri riaffermarono quotidianamente spirito di abnegazione ed illimitata dedizione al dovere, fornendo un altissimo e generoso tributo di sangue. Subito all’indomani dell’occupazione erano iniziati, in particolare nelle grandi città, i passaggi in clandestinità, via via più numerosi, specie a seguito della proclamazione della Repubblica Sociale il 23 settembre. I Carabinieri rimasti al loro posto come forza di polizia a protezione della popolazione erano chiamati a collaborazioni ingrate con le forze nazifasciste, in perquisizioni e rastrellamenti, ma il più delle volte si adoperavano per boicottarle, anche a costo di gravi rischi personali.

Proprio il 23 settembre, a Torre di Palidoro, nei pressi di Roma, il comandante internale della Stazione di Torrimpietra, il Vice Brigadiere Salvo D’Acquisto, si era assunto, pur innocente, la paternità di un presunto attentato contro i nazisti, offrendo la propria giovane vita pur di sottrarre alla rappresaglia nazista quella di 22 suoi concittadini, sommariamente rastrellati.

Infine erano stati i Carabinieri di Napoli, già protagonisti di violenti scontri con i tedeschi nei giorni 10-12 settembre, a dare ancora una prova di quali fossero i sentimenti nei confronti dell’occupante, appoggiando senza riserve l’insurrezione popolare che dal 27 al 30 settembre portarono alla liberazione della città partenopea.

Numerosi furono gli episodi nei quali i militari dell’Arma si distinsero. Il comandante della Stazione Napoli Stella, Maresciallo Maggiore Nicola D’Albis, con i suoi Carabinieri e alcuni insorti riuscì ad evitare, ben due volte, la distruzione del ponte della Sanità solo dopo una lotta cruenta che causò diciotto morti e numerosi feriti al nemico tedesco, facendolo desistere definitamente dal tentativo.

A Capodimonte, il Maresciallo Maggiore Filippo Cucuzza, comandante della Stazione, guidò i Carabinieri e i cittadini da lui armati all’attacco di un nucleo di genieri tedeschi che stavano cercando di minare l’acquedotto della città, riuscendo a averne ragione e a disinnescare le mine destinate alla distruzione degli impianti. A Cercola, poco distante da Napoli, il Maresciallo Tommaso Esposito, comandante della Stazione, insieme ai propri uomini occupò e organizzò la difesa di uno stabilimento per la produzione di proiettili che i tedeschi volevano far saltare in aria.

Di fronte alla resistenza dei Carabinieri, i Tedeschi furono costretti a rinunciare.

LA DEPORTAZIONE DEI CARABINIERI DI ROMA

I Carabinieri erano considerati dunque, tanto dai fascisti quanto dai tedeschi, una spina nel fianco insidiosa, una forza armata, organizzata e di presumibili sentimenti ostili, di cui diffidare, pericolosa, soprattutto in una città vasta e ormai prossima alla linea del fronte come Roma: città di cui era difficile mantenere il totale controllo, dove la presenza dell’Arma era massiccia e capillare e dove più le SS e la Gestapo del Tenente Colonnello Kappler avevano invece bisogno di mano libera, per dare attuazione alla pianificata deportazione della popolazione di origine ebraica e per soffocare i nascenti focolai di resistenza organizzata.

Il Tenente Colonnello Kappler

E’ in questo clima di risentimento e di sospetto che si verificarono i primi arresti di Carabinieri, indiziati di collaborare con il Fronte militare clandestino, tra i quali il Tenente Colonnello Manfredi Talamo, già ufficiale del Servizio Informazioni Militari, catturato il 5 ottobre, torturato e successivamente trucidato alle Fosse Ardeatine.

Ed è in questo contesto che il 6 ottobre 1943 l’ordine di disarmo dei Carabinieri Reali, firmato dal Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, Ministro per la difesa nazionale della Repubblica Sociale Italiana, verosimilmente sollecitato dallo stesso Kappler, fu consegnato per l’immediata esecuzione nelle mani del Gen. Casimiro Delfini, che in quel momento sostituiva il Comandante Generale dell’Arma.

Tutti i Carabinieri presenti in servizio furono così trattenuti per la notte nelle caserme e indotti a depositare le armi, che saranno poi consegnate al comando germanico, mentre reparti di SS e di paracadutisti tedeschi, armati di mitragliatrici, circondavano l’indomani mattina le sedi dei principali reparti dell’Arma, dove avrebbero dovuto essere concentrati anche tutti i militari delle Stazioni.

Molti Carabinieri, compreso il tradimento, riuscirono a consegnare armi rese inservibili, altri a comunicare con l’esterno, consentendo alla maggioranza dei colleghi che rientravano in caserma al mattino di evitare la cattura.

Vi fu poi una grande gara di solidarietà e di sostegno ai militari dell’Arma da parte della popolazione che cercò di trasmettere i messaggi ricevuti dai militari bloccati in caserma, aiutando gli scampati a nascondersi e a cambiarsi d’abito, con gravi rischi personali.

Dei Carabinieri in servizio nella Capitale, circa 2.500 purtroppo furono catturati.

Tra la tarda sera dello stesso 7 ottobre e l’indomani, i Carabinieri furono avviati alle stazioni ferroviarie Ostiense e Trastevere, dove furono fatti salire su treni merci diretti in Austria e in Germania. Qui i Carabinieri seguirono per quasi venti mesi la stessa sorte penosa delle migliaia di altri militari italiani catturati su tutti i fronti dopo l’8 settembre: non furono considerati prigionieri di guerra, tutelati dalle convenzioni internazionali, ma fu inventata per loro la speciale categoria degli “Internati Militari Italiani”, soggetti a un durissimo lavoro coatto, alla fame, a maltrattamenti fisici e morali e a stenti di ogni genere. A più riprese fu offerto loro di arruolarsi nelle forze armate tedesche o della RSI, ma il loro rifiuto fu sempre corale. Furono circa 600 i Carabinieri romani che non fecero ritorno.

Il 16 ottobre, nove giorni dopo, messi fuori gioco i militari dell’Arma, centinaia di cittadini italiani di origine ebraica furono catturati in tutta Roma e in particolare nel ghetto. 1023 di loro furono avviati a Auschwitz. Tornarono solo in 16.

IL FRONTE CLANDESTINO DI RESISTENZA DEI CARABINIERI E LA “BANDA CARUSO” 

Il 7 ottobre può ritenersi anche la data di avvio dell’esperienza dell’organizzazione clandestina dei Carabinieri, nel momento in cui i militari riuscirono a sottrarsi alla cattura tedesca. Superata la fase critica del mese di ottobre, i Carabinieri iniziarono presto a organizzarsi e raggrupparsi allo scopo di resistere e assumere anche posizioni offensive. Si possono ricordare i nomi dei Capitani Raffaele Aversa e Carmelo Blundo, che insieme ad altri ufficiali e sottufficiali, e anche civili, cercarono per primi di riaggregare i militari dell’Arma. I Carabinieri erano entrati a far parte anche di altre organizzazioni clandestine.

Alcune sale dell’attuale Museo di Via Tasso, realizzato nella sede dell’ex carcere nazista

Il Capitano Aversa, che faceva capo al suo diretto superiore, il Tenente Colonnello Frignani, era in contatti con il Colonnello Cordero Lanza di Montezemolo, a capo del Fronte militare clandestino, mentre il Capitano Blundo con il Colonnello di Fanteria Giuseppe De Sanctis e successivamente con il Tenente Colonnello Bruto Bixio Bersanetti.

Il nucleo del Capitano Aversa, poiché formato principalmente da militari dell’Arma territoriale di Roma, poté offrire subito un importante contributo in campo informativo, per la vasta rete che i suoi militari avevano saputo costruire sin dalle fasi immediatamente precedenti la cattura dei Carabinieri da parte dei nazi-fascisti.

Il Generale in congedo Filippo Caruso fu incaricato di unificare tutti i nuclei e le bande in cui l’elemento dell’Arma era preponderante.

L’organizzazione si strutturò presto su due nuclei principali: uno territoriale su circa 2.500 uomini con a capo il Tenente Colonnello Frignani e il Capitano Aversa, e uno mobile, di circa 2.800 unità, sotto la direzione del Tenente Colonnello Bixio Bersanetti e del Capitano Blundo.

Gli obiettivi erano molteplici: innanzitutto sostenere logisticamente, nella difficile condizione della clandestinità, e mantenere per quanto possibile uniti i Carabinieri a disposizione del Fronte Militare Clandestino, in attesa di poter riprendere il regolare servizio nella Capitale; ostacolare poi l’azione della forze nazi-fasciste agevolando tutti i patrioti, senza distinzione di appartenenza; condurre azioni di sabotaggio ad ampio spettro per creare un contesto di generale insicurezza psicologica nell’occupante; supportare con ogni mezzo i militari alleati fuggiti dalla prigionia nonché gli inviati dal regno d’Italia.

Nel frattempo, sia la polizia fascista, sia gli stessi tedeschi, continuavano la caccia agli sbandati e, in particolare, ai Carabinieri.

Dalle catture episodiche pian piano la capacità di reazione dei tedeschi andava affinandosi, grazie alla collaborazione di delatori italiani.

Il 10 dicembre 1943, Kappler stesso capeggiò l’operazione che portò alla cattura dei Tenenti Rodrigues e Fontana e del Brigadiere Manca.

Il primo era l’aiutante maggiore della formazione, il secondo era stato tra i primi e più entusiasti organizzatori del Fronte, riuscendo a radunare attorno a sé circa 200 uomini già nei primissimi giorni, mentre il terzo svolgeva le funzioni di contabile.

E frutto di una delazione fu anche la cattura, avvenuta il 17 marzo successivo, del Brigadiere Angelo Ioppi, martirizzato in via Tasso in 90 giorni di orrende e inutili torture che non gli estorsero parola.

Lo sbarco di Anzio degli Alleati affiancato da un piccolo contingente italiano (22 gennaio 1944) ebbe un impatto purtroppo infelice sulla realtà resistenziale romana.

Saputa la notizia, si diffuse l’idea di un’imminente liberazione della capitale. Ne seguirono subito numerose riunioni di coordinamento tra vari gruppi di resistenti con un allentamento delle necessarie misure di sicurezza.

Era l’occasione che tedeschi e fascisti aspettavano. Il 23 gennaio furono catturati il Maggiore Ugo De Carolis, Capo di Stato Maggiore del Fronte clandestino dei Carabinieri, il Capitano Aversa e il Tenente Colonnello. Frignani.

Il 25 successivo fu la volta del Colonnello Montezemolo. Furono perdite particolarmente pesanti per il Fronte, che dovette cercare di individuare altri ufficiali in grado di sostituirli. Furono adottati, di conseguenza, nuovi accorgimenti e cautele più stringenti.

A febbraio il Gen. Caruso ebbe nuovi incontri con il Generale Odone, nuovo Capo di Stato Maggiore del Fronte Militare, per definire in dettaglio le funzioni e i compiti dei Carabinieri in vista di una quanto mai auspicata liberazione della Capitale.

Furono stabiliti contatti con alcuni comandi Carabinieri nel Nord Italia (Alessandria, Torino, Genova, Firenze, Siena) e relazioni con i nuclei stralcio dei comandi Carabinieri ancora in Roma, benché tutti formalmente transitati nella Guardia Nazionale Repubblicana.

L’ARMA IN SERVIZIO NELL’ITALIA OCCUPATA 

Nel frattempo anche nel resto dell’Italia occupata il governo di Salò aveva previsto il formale scioglimento dell’Arma dei Carabinieri Reali e l’integrazione dei suoi Comandi nella nuova struttura della Guardia Nazionale Repubblicana, unitamente ai militi fascisti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e agli agenti della Polizia dell’Africa Italiana.

Inutile dire che il maldestro tentativo di coartare la natura e la volontà dei Carabinieri ebbe scarso successo tanto che i gerarchi della GNR e gli stessi giornali politici repubblichini si lamentarono apertamente dello scarso “spirito fascista” dei militari dell’Arma.

Continui provvedimenti tesi a limitarne l’azione, retate e soppressioni di stazioni si conclusero infine nella seconda metà del 1944, quando gli ultimi Carabinieri, rimasti a presidiare il territorio in difesa della popolazione, furono internati come era già accaduto ai loro colleghi romani il 7 ottobre 1943.

I Carabinieri che rimasero in servizio nell’Italia occupata rappresentarono spesso l’unico baluardo a difesa di una residua convivenza civile, a costo in molti casi di gravissimi rischi personali, sospesi in un equilibrio precario e pericoloso, come i Martiri della Stazione di Fiesole e i tanti altri rimasti sconosciuti.

LE FOSSE ARDEATINE (23-24 MARZO 1944) 

Alla fine di marzo del 1944 si consumò uno degli episodi più tragici dell’occupazione germanica: l’eccidio delle Fosse Ardeatine.

L’entrata al Mausoleo delle Fosse Ardeatine

Il prologo e l’epilogo sono così noti che non hanno bisogno di essere ricordati in queste pagine. Ciò che è significativo è che alcuni tra i migliori elementi della resistenza, e molti Carabinieri tra di loro, catturati sino a quel momento dai nazi-fascisti e custoditi nelle segrete di via Tasso e nel braccio tedesco di Regina Coeli furono barbaramente assassinati insieme ad altre vittime innocenti senza aver mai ceduto ai trattamenti inumani a cui erano stati sottoposti.

Ai 12 caduti che pianse l’Arma, i Tenenti Colonnelli Giovanni Frignani e Manfredi Talamo, il Maggiore Ugo De Carolis, il Capitano Raffaele Aversa, i Tenenti Genserico Fontana e Romeo Rodrigues Pereira, il Maresciallo  Franco Pepicelli, i Brigadieri Candido Manca e Gerardo Sergi, il Carabiniere guardia del re (Corazziere) Calcedonio Giordano e i Carabinieri Augusto Renzini e Gaetano Forte fu concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare.

L’episodio, del quale arrivò eco ai Carabinieri, modellò lo strumento nelle mani del Gen. Caruso verso una maggiore efficienza.

Furono rivisti gli obiettivi da presidiare e da occupare come le più importanti caserme dell’Arma nella città e i ponti sul Tevere allo scopo di evitarne il minamento da parte dei genieri tedeschi. Oramai si aspettava solamente l’ordine di sollevazione.

Era questione di giorni. Purtroppo, il 29 maggio la polizia repubblichina riuscì a catturare il Gen. Caruso mentre si stava recando a un incontro con gli esponenti del Fronte Militare Clandestino.

Quello stesso giorno furono fermati, sempre dalla polizia repubblichina, anche i Generali Odone e Girotti e il Colonnello Scalera.

Il servizio di protezione e scorta del generale, composto dal Vice Brigadiere Enrico Zuddas e dai Carabinieri Salvatore Meloni e Antonio Piras, reagì immediatamente, tentando di sottrarre il generale alla cattura, ma Zuddas e Meloni rimasero feriti mortalmente. Gli arrestati vennero rinchiusi nelle prigioni di via Tasso e destinati a morte certa.

LA LIBERAZIONE DI ROMA (4 GIUGNO 1944) 

In realtà le vittime designate furono assistite dalla sorte, perché lo stabile di via Tasso fu liberato dalla stessa popolazione avuto sentore che gli occupanti stavano lasciando in tutta fretta la città a seguito dell’avanzata delle truppe alleate.

i Carabinieri del contingente “R” entrano a Roma.

Così la mattina del 4 giugno 1944 tutti i detenuti furono liberati e, mentre il Generale Caruso e i Carabinieri non più rinchiusi riprendevano posto nelle file dell’Arma, i vari nuclei clandestini passavano alla fase insurrezionale, aggredendo le retroguardie tedesche, rastrellando i fascisti che cercavano di nascondersi tra la popolazione e riattivando il servizio di ordine e sicurezza pubblica nella Capitale con la piena efficienza delle 75 Stazioni della città e dell’immediata periferia.

Alla sera la situazione era praticamente sotto controllo. Il Generale Roberto Bencivenga, comandante civile e militare di Roma e del suo territorio su conferimento del governo legittimo, assunse i pieni poteri insediandosi in Campidoglio accompagnato anche dal Generale Caruso.

L’8 giugno gli americani riconobbero l’organizzazione dei Carabinieri come entità di forze antifasciste e di sicura fede patriottica e così, quello stesso giorno, fu possibile procedere alla simbolica cessione dell’unità e del suo personale dal Generale Caruso al Tenente Colonnello Carlo Perinetti, comandante del “Contingente R” che era stato appositamente predisposto dal Comando Carabinieri dell’Italia Liberata a seguito degli Alleati per riassumere il controllo dell’ordine e della sicurezza pubblica nella Capitale.

NELLE ALTRE REGIONI 

Nel vicino Abruzzo, dopo l’8 settembre, le Stazioni dell’Arma si trovarono isolate. I Carabinieri, privi di ordini, di orientamenti, in mezzo alla generale confusione, furono impossibilitati a poter esattamente valutare la situazione.

Molti, trovandosi con famiglie numerose a carico, furono costretti ad ottemperare ai bandi del pseudo governo repubblicano che minacciavano provvedimenti di estremo rigore contro i militari che si fossero allontanati. Non mancarono comunque esempi di militari che rischiarono per fare quanto loro era possibile onde impedire ed ostacolare l’invasione tedesca.

I comandi dell’Arma dovettero ricorrere a tutto il loro tatto per poter continuare a tenere aperte le caserme, particolarmente delle piccole Stazioni montane, dove imperava soltanto la legge della violenza dei presidi teutonici disseminati ovunque, anche nei minuscoli paesini nascosti nelle pendici della Maiella e del Gran Sasso.

Pur rimanendo in servizio, molti militari, con la loro opera, danneggiarono in modo concreto ed efficace l’azione dei tedeschi e del governo che apparentemente servivano. Deve essere ricordata la continuativa ed accorta collaborazione segreta data ai patrioti, ai quali la quasi totalità delle caserme dell’Arma forniva viveri, armi, coperte, nonché informazioni utilissime sui movimenti delle truppe tedesche.

Ma i Carabinieri costituirono anche gruppi di resistenza più attiva, come la formazione “Bosco Martese” ad opera di due ufficiali, il Capitano Ettore Bianco, già comandante della Compagnia di Teramo, e il Capitano Carlo Canger.

Il reparto, costituito inizialmente da molti militari dell’Arma, nella seconda decade di settembre acquistò di lì a poco una certa consistenza attirando molti militari sbandati e giovani del luogo. All’indomani della sconfitta tedesca, impartita dai partigiani presso Bosco Martese, i soldati del Reich si fecero promotori di azioni di rappresaglia e rastrellamento contro i patrioti e i civili del luogo. Il 26 settembre 1943 i nazisti intrapresero una vasta azione combinata di reparti di fanteria e artiglieria per snidare i patrioti radunati al Ceppo.

In particolare, un reparto di 60 soldati tedeschi occupò la caserma dell’Arma di Valle Castellana-Pascellata e arrestò i carabinieri di quella stazione, con l’accusa di aver collaborato con i partigiani.

Durante lo scontro il Brigadiere Leonida Barducci e i due Carabinieri Settimio Annecchini e Angelo Cianciosi vennero disarmati e fatti prigionieri.

Al termine di un sommario interrogatorio-processo, di fronte all’ostinato rifiuto di fornire i nomi e i nascondigli dei partigiani, i tedeschi fucilarono i condannati in località Sella Ciarelli.

Fu trucidato anche il Sergente Maggiore degli Alpini Donato Renzi, originario di Valle Castellana che, dopo l’8 settembre e lo scioglimento della sua divisione, si trovava nella sua abitazione in licenza forzata.

L’Alpino scontò la colpa di aver generosamente ospitato in casa un soldato neozelandese che invece tradì la sua fiducia, indicando ai nemici che lo avevano catturato l’alloggio dove aveva trovato rifugio.

Per evitare ulteriori rappresaglie alla popolazione locale la formazione “Bosco Martese” si divise tra le province di Teramo e di Ascoli Piceno riuscendo a far perdere le proprie tracce.

A Genova, il Tenente Giuseppe Avezzano Comes scelse con i suoi Carabinieri una posizione particolarmente difficile.

Entrarono nelle fila della Resistenza senza abbandonare il servizio, nell’intento di integrare la lotta all’interno della città e la protezione della popolazione dalle persecuzioni naziste.

Ma l’attività clandestina dei Carabinieri, anche se condotta con abilità, non passò del tutto inosservata ai nazisti che ormai sospettavano di loro e attendevano soltanto l’occasione per acquisire le prove del loro tradimento.

Il clima era molto teso nel capoluogo ligure. Da parte della popolazione e degli operai delle fabbriche si facevano sempre più frequenti gli episodi di ostilità nei confronti dei Tedeschi.

Il 13 gennaio 1944, un ufficiale tedesco rimase ucciso ed un altro rimase ferito in uno scontro con i patrioti. La reazione germanica e del Prefetto fascista furono violente.

Un tribunale speciale, riunitosi d’urgenza, condannò a morte 8 resistenti già prigionieri nel carcere di Marassi. L’esecuzione fu fissata per il giorno dopo all’alba.

Era l’occasione per sottoporre l’ufficiale dell’Arma a una prova drammatica: fucilare egli stesso, con i suoi carabinieri, gli 8 partigiani per dimostrare la non appartenenza al movimento clandestino.

Nella notte fu disposto l’impiego dei Carabinieri al forte S. Martino per “un urgente servizio di ordine pubblico”.

Ma giunti sul posto, i militari dell’Arma scoprirono che il loro compito era in realtà quello di fucilare i condannati. Senza esitazione il Tenente Avezzano Comes oppose un netto rifiuto venendo immediatamente arrestato.

I suoi Carabinieri, posti al comando di un miliziano fascista, spararono in aria senza colpire i prigionieri. Ogni copertura era caduta per i Carabinieri, che furono costretti a passare alla clandestinità, mentre il Tenente Avezzano Comes, che inizialmente riuscì ad allontanarsi, venne catturato e imprigionato per essere destinato all’internamento in Germania.

In Lombardia, per iniziativa del Maggiore Ettore Giovannini si era costituita una formazione clandestina della Resistenza, che nell’aprile 1944, assunto il nome di “Carabinieri Patrioti Gerolamo” (dal nome di battaglia dell’ufficiale) contava già oltre 700 militari dell’Arma, inquadrata da numerosi ufficiali e ripartita in due Raggruppamenti. Strettamente collegata al Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia ed in particolare alla formazione partigiana Carabinieri di Bergamo, comandata dal Maggiore Giovanni Rusconi, la “Banda Gerolamo” svolse un’intensa e rischiosa attività operativa, oltre che una preziosa opera informativa, diretta anche all’individuazione degli obiettivi militari tedeschi per agevolare l’azione dell’aviazione alleata.

Al momento dell’insurrezione generale, ordinata il 25 aprile 1945, i 700 carabinieri della “Banda Gerolamo” intensificarono la loro attività e parteciparono, nei giorni tra il 25 e il 27, alla liberazione di Milano.

Secondo i piani prestabiliti e decisi in armonia col C.L.N., varie squadre di Carabinieri occuparono tempestivamente le caserme della città, assicurando i necessari servizi d’ordine e di difesa degli edifici pubblici e rastrellando un’ingente quantità di materiale e di documenti.

Fra gli episodi più importanti va ricordata l’occupazione della caserma del 205° Comando Regionale Repubblicano e l’attacco alla Caserma Medici, sede del comando nazista.

Gli Alleati, sopraggiunti dopo due giorni dalla liberazione, trovarono non solo a Milano, ma in tutta la Lombardia, l’Arma interamente ripristinata dalla “Gerolamo” nelle sue sedi e in piena attività istituzionale. I

l 27 aprile anche Piacenza fu liberata da una Divisione partigiana: a comandarla era il Tenente Fausto Cossu, che sfilò alla testa della sua unità per le vie della città esultante.

8 aprile 1945: la liberazione di Piacenza da parte dei partigiani comandati dal Tenente dei Carabinieri Fausto Cossau

L’ARMA E LA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Nel corso delle operazioni belliche condotte dagli Alleati con il contributo nazionale, l’Arma predispose alcuni reparti per esigenze diverse, al fianco e al tergo delle truppe italiane e Alleate.

Fin dalla costituzione del 1° Raggruppamento Motorizzato a fine settembre ’43 (il nucleo iniziale del nuovo Esercito Italiano, in prima linea a fianco della 36^ Divisione americana), i Carabinieri furono incaricati di garantire le funzioni di polizia militare con la 39^ e la 51^ Sezione.

Dal 18 aprile 1944, dopo la buona prova dell’unità italiana sin dalla battaglia di Monte Lungo del dicembre 1943, prese vita il Corpo Italiano di Liberazione, con una forza di circa 25.000 unità, cui fecero seguito i “Gruppi di combattimento” (equivalenti a divisioni di fanteria), con un conseguente progressivo incremento organico anche dei militari dell’Arma e la costituzione di nuove sezioni.

Questi seguirono le unità alle quali erano stati assegnati sino alla fine dei combattimenti e alla Liberazione del Paese, saldando la progressione dei reparti combattenti con l’azione dei colleghi già impegnati nelle formazioni partigiane operanti nei territori man mano liberati.

Parallelamente alla riorganizzazione delle tradizionali sezioni con funzioni di polizia militare, furono anche precostituiti speciali reparti quali nuclei iniziali di formazione dei Comandi Carabinieri che si sarebbero dovuti reinsediare nel Nord Italia, ricostruendo il tessuto connettivo dell’Arma cancellato dall’RSI.

Il primo e più efficace esempio di questi particolari dispositivi è rappresentato dal già menzionato “Contingente R”, che dimostrò la capacità dello strumento predisposto dal Comando Generale.

L’arrivo e l’impiego di questi reparti, già preventivamente articolati e calibrati in Gruppi, Compagnie e Stazioni, nella Capitale e nelle città liberate del Centro-Nord Italia consentì di procedere con straordinaria celerità a rioccupare le caserme dell’Arma nei territori liberati, ripristinare il servizio d’istituto e favorire il ritorno alla cosiddetta normalità, per quanto le operazioni belliche e quelle successive di smobilitazione avrebbero reso possibile. La fine della Guerra permetteva di riorganizzare finalmente tutti i reparti dell’Arma sul territorio nazionale, recuperando dalla prigionia e dall’internamento i Carabinieri deportati.

Così, in quei giorni, il Comandante Generale, Brunetto Brunetti, si rivolgeva a tutti i Carabinieri ricordando chi aveva sofferto pene indicibili: “Con la cessazione delle ostilità in Italia ed in Europa, i nostri commilitoni deportati nei campi di concentramento in Germania e quelli ancora prigionieri in lontani continenti avranno la sospirata gioia di ritornare in Patria. […] Li attendono con pari esultanza i componenti di una più grande famiglia: quella dell’Arma che essi hanno onorata ed illustrata in terra straniera con la loro fede ed il loro indomito coraggio. In circostanze estremamente difficili, nelle alterne vicende dell’immane conflitto, essi compirono fino agli estremi il loro dovere di soldati e, resistendo a lusinghe e minacce, tennero fede al loro impegno d’onore”.

L’Istituzione si era così ricomposta.

L’eroismo dei Carabinieri e il contributo dell’Arma alla Resistenza e alla Guerra di Liberazione è testimoniato dal pesante tributo di sangue e valore: 2.735 caduti, 6.521 feriti, oltre 5 mila deportati, 723 ricompense individuali al Valor Militare e innumerevoli ricompense al Valore e al Merito Civile.

E finalmente la testimonianza più alta del riconoscimento da parte di Istituzioni e cittadini è data dalla concessione della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla sua Bandiera di Guerra che nascosta, proprio in quei drammatici giorni della deportazione dei Carabinieri da Roma, negli scantinati del Museo Storico per non farla cadere in mani nemiche, fu poi restituita, all’atto della Liberazione della Capitale, alla ricostituita Legione Allievi, in quella stessa caserma, dove da allora, con il nuovo drappo repubblicano, continua ad essere gelosamente custodita.

*Colonnello, Capo Ufficio Storico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri

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