Di Giuseppe Gagliano*
PECHINO. Dopo anni di frizioni e guerre commerciali, il vertice di Busan tra Donald Trump e Xi Jinping segna, secondo la narrativa di Pechino, la prima volta in cui gli Stati Uniti sono stati costretti a fare un passo indietro di fronte a un’altra potenza.

La propaganda cinese non perde tempo nel presentare l’incontro come una vittoria patriottica, un segnale che l’era dell’egemonia americana è al tramonto.
Nei notiziari, Xi appare come il leader che ha “domato” Trump, capace di ristabilire la dignità del Dragone dopo decenni di umiliazioni occidentali.

Il calcolo politico di Xi Jinping
Dietro la retorica trionfalista si nasconde tuttavia una realtà più complessa. Xi Jinping, alle prese con una crescita economica rallentata e con un malcontento sociale crescente, utilizza il successo simbolico di Busan per rafforzare la legittimità interna del Partito comunista.
La diplomazia diventa così un’arma di distrazione di massa, un modo per consolidare il consenso patriottico mentre l’economia fatica a riprendere slancio.
L’inflazione, la disoccupazione giovanile e il calo della fiducia dei consumatori restano nodi irrisolti che neppure la propaganda riesce a nascondere.
Gli Stati Uniti in difensiva
Per Washington, il summit rappresenta un segnale di debolezza tattica. Trump, che aveva costruito il suo consenso interno sulla promessa di “sconfiggere la Cina”, si ritrova a dover accettare un compromesso per evitare una nuova crisi commerciale che avrebbe potuto far crollare i mercati e alimentare il malcontento elettorale.
Il Presidente americano ha così preferito cedere sul terreno economico pur di non compromettere la stabilità finanziaria in un anno preelettorale.
Pechino, dal canto suo, interpreta la mossa come una vittoria strategica, un passo verso la parità globale che da tempo ambisce a conquistare.
Tra retorica patriottica e realtà geopolitica
Il regime cinese esalta la “fermezza nazionale” e la rinascita della potenza orientale.
Ma dietro l’orgoglio dei monumenti patriottici e dei parchi della memoria, come il Ponte Marco Polo, dove nel 1937 iniziò la resistenza al Giappone, si nasconde un Paese in affanno.
La leadership cinese cerca di coniugare autoritarismo e modernizzazione, ma la stagnazione tecnologica, la fuga dei capitali e la crisi immobiliare minacciano il sogno del “rinascimento cinese”.
La forza militare e diplomatica non basta più a mascherare le crepe di un sistema che, pur celebrando vittorie simboliche, resta fragile sul piano strutturale.
L’equilibrio del nuovo ordine mondiale
Il vertice di Busan sancisce il passaggio a una nuova fase della competizione globale: la guerra economica non è finita, ma ha cambiato forma.
La Cina ha ottenuto un vantaggio simbolico, gli Stati Uniti hanno guadagnato tempo.
L’ordine multipolare che si sta delineando non conosce vincitori netti, ma solo compromessi temporanei. Xi Jinping mostra al mondo che Pechino non è più il partner junior di Washington, bensì un attore capace di piegare, almeno per un momento, la volontà americana.
Trump, pragmatico più che ideologico, ha dovuto riconoscere che il potere oggi si misura non solo in carri armati e missili, ma nella capacità di dettare le regole del commercio e della tecnologia globale.
*Presidente Centro Studi Cestudec
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