Di Giuseppe Gagliano
PECHINO. A prima vista, l’inasprimento dei dazi voluto da Donald Trump sembrerebbe il colpo di grazia per un’economia cinese già debilitata dalla deflazione, da una crisi immobiliare senza precedenti e da una curva demografica in declino.
In realtà, l’America del “Make America Great Again” – iperprotettiva, aggressiva e imprevedibile – sta offrendo alla Cina l’occasione che Xi Jinping attende da oltre un decennio: trasformare la pressione esterna in spinta interna alla riforma, e il caos internazionale in leva per ridisegnare gli equilibri geopolitici dell’Asia e del Sud globale.

I nuovi dazi statunitensi, annunciati nei giorni scorsi, portano l’imposizione totale sulle merci cinesi al 65%, e colpiscono perfino le spedizioni di piccola entità, portando al 125% l’imposta su alcuni pacchi.
Di fronte a un simile muro commerciale, le rotte alternative – come il triangolamento via Vietnam o altri Paesi del Sud-Est asiatico – si sono fatte inutilizzabili. Non solo gli Stati Uniti stanno colpendo direttamente la Cina: colpiscono chiunque contribuisca, anche indirettamente, alla sua capacità di esportazione.
Eppure, Pechino non si trova nella stessa posizione di debolezza che aveva nel 2018.
L’autosufficienza tecnologica e industriale, costruita negli anni a colpi di sovvenzioni statali e piani quinquennali, ha iniziato a dare i suoi frutti.
La Cina ha ridotto la propria dipendenza dal dollaro per i pagamenti internazionali, spingendo sempre più l’uso dello yuan nei circuiti bancari alternativi.
L’industria dei veicoli elettrici e quella dei droni si sono consolidate come settori di eccellenza, e anche l’intelligenza artificiale cinese – come dimostra il caso della startup DeepSeek – progredisce rapidamente, aggirando in parte le restrizioni americane sui semiconduttori.
Xi Jinping non ha mai nascosto la sua lettura del mondo: gli Stati Uniti sono un impero in declino, incapace di tenere insieme il proprio sistema politico, troppo frammentato per sostenere un’agenda globale coerente.

La dottrina del “grande cambiamento” – evocata da Xi come lo spartiacque epocale di questo secolo – trova oggi nuove conferme nei colpi che la leadership americana si infligge da sola: isolazionismo, attacchi agli alleati, guerre commerciali autolesioniste.
Ma le opportunità economiche non bastano se Pechino non corregge i propri errori strutturali. Il Partito Comunista ha ostacolato il settore privato con una campagna repressiva lanciata nel 2021 in nome del “benessere comune”, compromettendo innovazione e fiducia.
Ora Xi sembra aver capito di aver esagerato. Il primo ministro Li Qiang ha recentemente lodato gli imprenditori di Hangzhou, cuore pulsante dell’innovazione digitale cinese, inviando segnali di riconciliazione.

Le Borse cinesi sono in ripresa.
I Governi locali stanno rifinanziandosi attraverso massicce emissioni obbligazionarie, per sostenere spesa pubblica e consumi.
Lo Stato centrale ha lanciato anche titoli “speciali” per stimolare l’economia reale. E mentre i prezzi immobiliari tornano a salire in città strategiche come Shanghai e Nanchino, il partito cerca di rilanciare la fiducia interna, arma indispensabile per contenere l’eccesso di capacità produttiva.
Sullo sfondo, si apre una nuova stagione di opportunità geopolitiche.
La confusione americana è un vantaggio per la diplomazia cinese: mentre Trump insulta la NATO e si disinteressa dell’Ucraina, i partner asiatici degli Stati Uniti – da Tokyo a Manila – si interrogano sulla reale affidabilità della Casa Bianca.
Pechino non mira (almeno ufficialmente) a sostituirsi a Washington, ma può rafforzare la propria influenza nel Sud globale, offrendo tecnologia verde e leadership simbolica nella lotta al cambiamento climatico.
In parallelo, Pechino assiste con interesse agli sviluppi sulla questione Taiwan.
Se gli Stati Uniti dovessero progredire nella produzione interna di semiconduttori avanzati, il valore strategico dell’isola – oggi al centro della filiera globale dei chip – si ridurrebbe, e con esso anche la determinazione americana a difenderla militarmente.
Una deriva che Xi Jinping osserva con attenzione, sapendo che il tempo potrebbe giocare a suo favore.
Naturalmente, i rischi restano. La guerra commerciale potrebbe sfociare in una recessione globale.
Se Trump dovesse intensificare le sanzioni, la Cina si troverebbe costretta a inondare i mercati con un surplus di esportazioni, esacerbando le tensioni.
Ma in un mondo che si frammenta, dove le grandi potenze cercano nuovi equilibri su basi nazionaliste e protezioniste, la Cina ha almeno una strategia, una visione e – soprattutto – un uomo solo al comando.
E se è vero che l’opportunità è nelle mani di Xi Jinping, è altrettanto vero che il merito – o la colpa – di averla creata è in larga misura di Donald Trump.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

