CORNO D’AFRICA: LA TURCHIA NON È PADRONA DELL’AREA. COMANDANO ARABIA SAUDITA ED EMIRATI ARABI UNITI

Di Vincenzo Santo*

Roma. Scrive “Investireoggi” che la Turchia è sempre più nei guai. La moneta perde contro il dollaro e ora si attesta su un rapporto vicino a 7.

La Turchia in Somalia – In basso a sinistra l ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu e il suo omologo somalo, Abdusalam H. Omar.

Le riserve valutarie si stanno prosciugando velocemente con un valore netto pari a circa 26 miliardi, dai 40 di inizio anno.

Ben poca roba per una nazione di 80 e più milioni di abitanti che viaggia con un PIL poco sopra i 750 miliardi di dollari, meno della metà di quello nostro, tanto per fare un paragone.

Un cambio che diviene sempre più debole, con un’inflazione che galoppa. Una crisi quella turca che ne vede la bilancia commerciale in eccesso di importazioni, con la conseguente necessità di intaccare le riserve valutarie, il che denota una grave mancanza di competitività delle imprese locali.

Ma non basta, Ankara presenta anche un’esposizione debitoria con l’estero pari a 168 miliardi di dollari entro quest’anno, di cui la metà in scadenza entro agosto, e un debito che la pone come terza tra i rischi di default dopo Venezuela e Argentina.

La crisi internazionale ha persino accelerato la sfiducia verso la Turchia sui mercati, che ora rischia il bis della tempesta finanziaria di pochi anni fa e dove il tasso di disoccupazione, già prima del Coronavirus, era al 14%.

Per finire, uno spread, per i titoli in divisa turca (ne emette anche in dollari con uno spread dimezzato) che si aggira sui 1300 punti.

Un profilo non entusiasmante per una nazione che ambisce a essere una potenza regionale, pur solo a matrice confessionale come vorrebbe il “sultano” Erdogan, la cui popolarità sembra scemare.

Il Presidente Erdogan saluta i suoi sostenitori

Un bluff, insomma.

Lasciando da parte le argomentazioni sulle modalità della liberazione di Silvia Romano, e se questa sia o meno avvenuta dietro pagamento di un cospicuo riscatto, e se davvero la giovane fosse tenuta prigioniera o meno, e se sì, se davvero da parte degli al-Shabaab oppure di trafficanti di altro genere, l’episodio ha aperto una pagina mediatica qui in Italia sulla Somalia e, quindi sul Corno d’Africa, veramente interessante.

Intanto, perché è fenomenale, anche stucchevole, l’esaltazione che ne è derivata, ancora più eccitante in questo periodo di COVID-19, che pare abbia messo tutte le dinamiche mondiali in una sorta di ibernazione, per riscoprire recessi del globo su cui diviene utile precipitarsi a scrivere di tutto e subito, pur di riempire pagine, senza un’analisi più approfondita.

L’importante è stupire, a prescindere dalla ragione.

E, conseguentemente, tracciando una narrazione che, sottolineando come l’intervento dei Servizi turchi sia stato determinante per la liberazione, poi con chi veramente abbiano questi trattato non si sa, ha inteso persino glorificare il ruolo preminente della Turchia in quell’angolo del mondo.

Un’influenza che dicono abbia scalzato quella italiana.

Ora, che qualcuno arrivi a scalzare una nostra presenza da qualche parte nel globo non ci deve stupire molto, data la pochezza della nostra politica estera per la cui direzione viene chiamato persino un ministro che presenta “zero” titoli per poterlo farlo.

Ma siamo certi che basti questo per determinare lo status di un Paese, la Turchia, quale “influencer di primo piano” in quella parete del mondo? Ne siamo davvero sicuri? Io non lo sono.

Tanto per cominciare, per influenzare qualcuno è necessario che questo qualcuno conti qualcosa, e che “esista”! Erdogan potrà essere influente su Mogadiscio; ma Mogadiscio non è la Somalia e questa non è il Corno d’Africa.

LA SOMALIA NON ESISTE

La Somalia infatti non esiste. Uno dei Paesi più poveri del mondo che dipende quasi totalmente dagli aiuti umanitari e che si presenta con tutti gli indici che lo pongono in coda a tutte le classifiche mondiali.

La mappa della Somalia

Sulla carta uno Stato federale, le cinque punte della stella nella sua bandiera sono rappresentative delle storiche aree geografiche di cultura somala.

Tre di queste, l’Ogaden etiopico, il nord del Kenya e Gibuti, si trovano al di fuori dei confini statali.

Oggi, il pansomalismo è decaduto e anche le rivendicazioni territoriali nei confronti di quelle tre terre irredente sono cessate. Ci sono altri problemi, tantissimi, di stabilità interna determinati da cause diverse: divisioni tra clan inconciliabili; dispute tra le autorità centrali e le amministrazioni locali, quindi una cronica fragilità statale; decise spinte indipendentiste (Somaliland e Puntland nel nord) e autonomiste; una radicata presenza terroristica con gli eredi delle corti islamiche, gli al-Shabaab.

Truppe ugandesi di AMISOM durante una pausa dei combattimenti contro al-Shabaab

La Somalia, dicevo, è un puzzle in cui sarà persino difficile riuscire a organizzare le prossime elezioni presidenziali, previste orientativamente per la fine di quest’anno.

Elezioni che l’attuale presidente vorrebbe a suffragio universale, ma trova in questo l’opposizione tra i vertici degli stati federali, soprattutto quello dello Jubaland, che preferiscono una declinazione storicamente improntata alla rappresentatività di clan.

Il tutto a connotare uno Stato fallito da tempo.

Quindi, ripeto, su chi mai avrebbe influenza Ankara, pur essendo pare il principale finanziatore estero? Forse sul solo Presidente, Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo per via dell’appellativo (formaggio) con cui era conosciuto il padre, il cui controllo del territorio non va oltre i limiti della capitale stessa e solo grazie al sostegno di AMISOM.

Mohamed Abdullahi Mohamed, detto Farmajo

Magari Erdogan ha maggiore influenza sull’attuale primo ministro, Hassam Ali Khayre, ex dirigente della compagnia petrolifera “Soma Oil and Gas”. Del resto, è così che si spera di fare affari.

Ma in campo petrolifero la Somalia, o quello che ne resta, deve vedersela, come dicevamo, con la sua instabilità endemica. Quindi con la mancanza di sicurezza e con le tensioni politiche interne, dal momento che le aree più ricche di idrocarburi corrispondono con i territori controllati dai governi delle regioni semi autonome (Federal Member States – FMS), soprattutto Puntland e Somaliland, ma non solo.

Questi ricercano investimenti stranieri nel settore e reclamano la proprietà dei giacimenti. Pertanto, le compagnie internazionali che cercano affari petroliferi in Somalia, con chi dovrebbero trattare?

Ma deve fare i conti anche con il Kenya, per vie di dispute su promettenti aree marine dai confini incerti, con il quale i rapporti si sono ulteriormente incrinati anche a causa della mancata estradizione dell’ex ministro della sicurezza Abdirashid Janan.

Senza contare che il Kenya ha truppe in AMISOM e sono proprio schierate sulle regioni dello Juba, al confine con il Kenya stesso, più per proteggere il territorio keniota che per attaccamento al mandato dell’Unione Africana e dell’ONU.

La dislocazione dei contingenti AMISOM

Tra Somalia e Kenya c’è di mezzo il mare e il petrolio, ha detto Michele Marsiglia, presidente di FederPetroli Italia e la vicenda di Silvia Romano ha fatto gravitare l’attenzione su Ankara, ma l’occhio deve andare invece sui due contendenti.

Il presidente di FederPetroli Italia, Marsiglia

Soprattutto sul Kenya. E in Kenya la nostra ENI già c’è, come del resto la nostra industria energetica è presente con successo in vari punti del continente africano. E non grazie alla nostra politica estera.

Quindi, a margine, vale veramente la pena perdere tempo e spendere denaro, e chissà cos’altro, in un Paese che di fatto non esiste, la cui produzione di “zero barili” proseguirà chissà per quanto ancora?

E poi controllata da chi? Un Paese il cui governante è pressato da altri immediati attori quali Qatar, Arabia Saudita ed Emirati? Un intreccio di interessi che vede questi ultimi tentare di scalzare Doha dall’orbita somala, e con essa anche l’amica Ankara, e i sauditi sostenere Nairobi.

Dell’Oceano Indiano sono loro, emiratini e sauditi, che hanno interesse a farne un loro hub energetico, e la prossimità geografica ne assicura la preminenza geostrategica.

Seguiamone e, se mai, supportiamone le mosse, ma teniamo duro dove siamo già in Africa, inclusa la Libia. Non cediamo a nessun ulteriore ricatto, anche se ho il timore che la vicenda della cooperante italiana potrebbe nascondere qualche altro triste passaggio al riguardo.

E molliamo il Qatar, finalmente. Cambiamo spiaggia, insomma! Inoltre, stiamone certi, l’EUTM Somalia, confinato e trincerato nella piazza di Mogadiscio, con quel centinaio di nostri militari, non ci riporterà nulla nelle tasche. Insomma, chissenefrega se i Servizi turchi spadroneggiano a Mogadiscio!

La Turchia non domina la Somalia né tantomeno il Corno d’Africa.

Degli aspetti finanziari ho fatto cenno e basterebbero quelli per derubricarne il ruolo. Ma anche la sua sovraesposizione su diversi quadranti, troppi per le sue reali capacità – Siria, Kurdistan, Libia, Mediterraneo, disputa sui rifugiati e sui confini con la Grecia e, certo, anche in questa zona dell’Africa, a Mogadiscio – finirà per procurarle un collasso tremendo.

Nel Corno d’Africa spadroneggiano altri soggetti dallo spessore ben più significativo e in salute migliore di Ankara.

Parliamo di un’identità geografica che è una sorta di ponte verso il Mar Rosso e l’Oceano Indiano e, quindi, dalla enorme importanza. Secondo l’IGAD (Intergovernamental Authority on Development), oltre a Etiopia, Gibuti e Somalia, comprende anche il Kenya, i due Sudan e l’Uganda.

Pertanto, parliamo di un luogo dove si individuano potenzialità geostrategiche derivanti dalla prossimità a rotte imprescindibili per il commercio mondiale, ad aree di crisi e tensioni come lo Yemen, la Somalia stessa, il Sud Sudan e le riserve d’acqua del Nilo e, infine, ai tracciati di accesso alle ricchezze minerarie e petrolifere del cuore del continente africano.

Il tutto ha innescato una corsa verso la regione da parte di attori esterni, vicini e no, grandi e più piccoli, impegnati ad accrescere la propria presenza con la realizzazione di basi militari e commerciali o intervenendo persino in loco per far valere i propri interessi. Diverse sono le agende, ma prendere posizione lungo le coste della regione si traduce nel riuscire a esercitare il controllo delle rotte chiave del commercio internazionale sempre più crescenti in importanza visto la proiezione da quelle parti della Belt and Road Initiative (BRI) cinese e garantire ai propri commerci un certo livello di sicurezza contro le minacce dei pirati e le intemperanze missilistiche degli Houthi dallo Yemen.

Senza trascurare gli interessi volti a stipulare contratti per assicurarsi terreni agricoli e industrie agro-alimentari per soddisfare le esigenze di sicurezza alimentare.

Stati Uniti e Gran Bretagna, e a un livello inferiore la Francia, hanno a lungo fatto la parte del leone e ancora oggi sono importanti partner in termini di mercati da raggiungere e le principali provenienze in termini di assistenza allo sviluppo.

Ad essi si è aggiunta la Cina, di cui abbiamo ricordato la BRI.

La presa cinese sul “Corno” e sull’Africa orientale non fa piacere a Washington che potrebbe limare la sua politica a favore del continente rivedendo le linee preferenziali verso l’Europa e il Pacifico.

E una chiave per farlo è indugiare sulla lotta al terrorismo. Mentre, per Pechino, Gibuti è un ottimo punto di partenza per una possibile espansione militare non necessariamente più a stampo internazionale.

La Russia potrebbe seguire anch’essa con qualche base nel Somaliland.

IL RUOLO DEI PAESI DEL GOLFO

Ma sono i Paesi del Golfo che hanno una diretta influenza nella regione e costituiscono la principale fonte delle remittenze spedite nei paesi del Corno dagli emigrati.

Il coinvolgimento di questi attori ha consentito da un lato la riconciliazione tra Etiopia ed Eritrea e migliorato le opzioni per una migliore cooperazione in termini di sviluppo e sicurezza, dall’altro, i loro non coincidenti interessi hanno anche favorito situazioni destabilizzanti.

Come del resto lo è in Somalia. Rapporti divenuti sempre più stretti per via della sensibilità del passaggio attraverso il Bab el-Mandeb, reso più critico a causa della guerra in Yemen.

Aspetto molto a cuore degli emiratini, i principali operatori nel trasporto per mare e, quindi, i più interessati ai rischi e alle opportunità che la regione presenta.

La secessione del Sud Sudan, ricco di petrolio, aprì gli occhi a Khartoum sulla ricchezza della propria terra arabile. Da qui, l’accordo con i sauditi per l’affitto di 500 mila ettari circa per agricoltura.

Ma anche con gli EAU più a ovest del Paese, per circa dieci mila ettari. E così hanno anche fatto Giordania, Libano, Qatar e persino il Pakistan, lungo il corso del Nilo.

Ma è proprio la guerra in Yemen che ha visto l’incremento del coinvolgimento dei Paesi del Golfo alla ricerca di “stazioni” e amicizie.

Aveva iniziato l’Iran, con le sue relazioni commerciali e diplomatiche con Gibuti, e con la vendita di armi con Eritrea e Sudan.

Fu la stipula del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) con il conseguente timore che Teheran potesse estendere la sua influenza, grazie all’allentamento delle sanzioni, e l’appoggio che gli Ayatollah garantivano agli Houthi, a preoccupare emiratini e sauditi e a incoraggiarli a darsi da fare per cercare basi militari e risorse umane (truppe sudanesi) per quella guerra.

Milizie Houthi

Ci riuscirono, a suon di quei dollari di cui Bashir, l’allora Presidente del Sudan, aveva un disperato bisogno, dopo la secessione di Juba, staccando così Khartoum da Teheran.

Un ulteriore allarme scattò quando Bashir accordò a Doha lo sviluppo di Suakin perché divenisse il più grande porto per container del Mar Rosso e, successivamente, come base militare per la Turchia.

Allarme rosso per gli EAU, ma anche per sauditi ed egiziani, timorosi per una possibile crescente influenza di paesi sponsor dell’Islam politico rappresentato dai Fratelli Musulmani. Bashir doveva essere destituito. Cosa che avvenne nell’aprile del 2019.

L’insediatosi TMC (Transitional Military Council) poté quindi beneficiare di tre miliardi in dollari da parte saudita ed emiratina, e un ulteriore contingente di truppe sudanese partì per lo Yemen.

In Sudan, le elezioni dovrebbero tenersi nel 2022. Tuttavia, sia Riyad che Abu Dhabi hanno ormai preso il controllo sul Paese rispetto a qatarini e turchi.

Conseguentemente, dato il timore che elezioni “libere” potrebbero portare avanti movimenti politici sgraditi, quell’evento è circondato da uno spesso alone di incertezza.

Ovunque nel Corno d’Africa le priorità economiche di Emirati e sauditi combaciano con i rispettivi interessi strategici. Abbiamo già parlato delle rotte commerciali e dell’interesse di Abu Dhabi nel settore, dato che il porto di Jebel Ali è destinato a divenire per il 2030 il più grande porto per container del mondo ed è già ora un hub chiave per l’export/import per l’Africa, dove negli ultimi anni gli Emirati sono stati tra i maggiori investitori dopo la Cina.

Alla ricerca continua di procedere all’acquisizione di aree portuali, gli EAU arrivano a favorire autonomie locali come per i movimenti separatisti dello Yemen del sud, scontrandosi invero con la Cina che, invece, è un determinato assertore, per motivi di politica interna, delle sovranità degli stati.

E la battaglia con Pechino costò alla DP World l’uscita da Gibuti a vantaggio dei cinesi dopo che Gibuti stesso vietò a Emirati e Arabia Saudita di lanciare da lì attacchi verso lo Yemen.

Abu Dhabi passò quindi sul porto di Assab, che dovrebbe divenire anche un nodo petrolifero per il greggio etiope, dove gli eritrei furono più che contenti di concludere un accordo di cooperazione a danno degli iraniani.

Analogo appeal per gli emiratini l’ha avuto l’Etiopia. Non godendo di alcun accesso al mare, dopo la separazione dell’Eritrea, aveva bisogno di un tale sbocco per potere esportare le proprie merci senza quei costi di trasporto aggiuntivi che andassero a inficiare il vantaggio marginale del loro basso costo del lavoro.

Ci hanno pensato gli EAU ad accollarsi, anche in favore di Addis Abeba, che può ora già pensare di mettersi su addirittura una flotta con l’aiuto dei francesi, l’onere di sviluppare, con la famosa DP World, il porto di Berbera, nel Somaliland, infischiandosene di Mogadiscio.

Container nel porto di Berbera (Somaliland)

E per 30 anni. E così Abu Dhabi può ora contare su un’altra base navale e, assieme a Riyad, presentarsi al mondo come l’intermediario che ha facilitato la riappacificazione tra Addis Abeba e Asmara, sempre a suon di qualche miliardo di dollari per ciascuno dei due contendenti.

Ora, l’ostilità del Presidente somalo verso gli emirati, gli ha guadagnato l’ostilità dei vertici degli stessi stati federali somali, il Somaliland in primis, ma i favori di Doha e di Ankara.

Questo è vero. Soldi dal principato e cooperazione da Erdogan. Mogadiscio si beneficia della politica turca del programma “Open to Africa” del 2005, che combina infatti aiuti umanitari, cooperazione militare, commercio e credo non tanti investimenti, data la situazione finanziaria turca.

La più grande ambasciata è quella turca, le principali linee aeree che decollano da Mogadiscio sono turche. E una base militare nella capitale.

Ciononostante, i turchi non sono riusciti a garantire a Farmajo il controllo del Paese, né contro gli al-Shabaab né contro le recalcitranti autorità federali periferiche.

E chissà cosa mai accadrà quando AMISOM lascerà il paese nel 2021, come sembra per mancanza di fondi, nelle mani delle incerte istituzioni di sicurezza somale.

Se questo dovesse materializzarsi, sarebbe da scommettere sul tentativo degli al-Shabaab di riprendere il controllo dei principali centri urbani del Paese, e da lì poi.

Un’eventualità che né Abu Dhabi né Riyad possono accettare è vero. E, pertanto, potrebbero loro intervenire nel rifinanziare la missione.

Del resto, unitamente al timore di un governo islamista, anche l’eventualità di arrivare a un momento in cui l’abilità di Doha nel vestire le parti del mediatore tra Mogadiscio e i gruppi non statali, possa guadagnare al Qatar ancora maggiore influenza, e portarsi dietro i turchi, li spaventa a tal punto che credo farebbero di tutto pur di estromettere Doha da Mogadiscio.

Da sempre snodi fondamentali per il commercio, gli stretti (choke-points) marittimi sono protagonisti di una nuova stagione di competizione geo-strategica nel Golfo ed incidono nella carne della tenuta del quadrante.

La regione, infatti, va considerata come un organismo unico, nel senso che non si può parlare di Somalia come staccata, un corpo a sé stante, dal quadro che la incornicia e che ne fa una delle tante tessere del mosaico del Corno d’Africa e del sistema più ampio che lo sottende direttamente.

Lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo con l’Oceano Indiano, rimane certamente tra i punti più caldi della regione mediorientale, a causa della tensione fra l’Iran e gli Stati Uniti (così come fra la Repubblica Islamica e l’Arabia Saudita). Tuttavia, anche lo stretto del Bab el-Mandeb non lo è.

Lo Stretto di Hormuz

Ma entrambi puntellano il “Corno” e riflettono su di esso queste instabilità. Troppe anime concorrono al non renderlo sicuro ma, al tempo stesso, troppe anime se ne contendono il controllo.

In conclusione, il quadrante che si estende dal Corno d’Africa all’Oceano Indiano occidentale si trova al centro di rivalità commerciali e militari multiple, con implicazioni strategiche per il Mediterraneo e, quindi, l’Europa.

In definitiva, tolti i “grandi del pianeta”, sono l’Arabia Saudita e gli EAU le potenze che dettano i ritmi delle danze più che la Turchia da quelle parti.

E lo fanno, secondo me, anche su mandato di Washington, nella logica che qualcun altro debba assumersi della responsabilità a livello regionale per negarla agli avversari veri, l’Iran, e potenziali, la Turchia stessa.

Sì, come in tanti dicono, forse ci ha soppiantati, ma lo ha fatto in un Paese che ancora non c’è, e non ci sarà per molto tempo ancora. Controllare Mogadiscio o solo un pezzo di Somalia non conta nulla.

Le ambizioni ottomane di Erdogan non gli guadagneranno ciò in cui lui spera, cioè mano libera sulla Somalia per i suoi giacimenti o una grande influenza politica in nome della comune anima musulmana. Non gli verrà concesso. Non detiene un portafogli adeguato allo scopo che si prefigge. Semplice!

Come sempre, è la bravura nel saper mettere in sistema mezzi e scopi alla base della grande strategia.

Ed Erdogan sta bluffando.

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (Ris)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore