Cosa sta succedendo in Catalogna

Di Pierpaolo Piras

Barcellona. Continuando di questo passo i disordini in Catalogna sono destinati a durare al lungo e quindi ad inasprirsi.

La recente condanna dei nove esponenti separatisti catalani, a pene varianti da nove a tredici anni, ha suscitato accese manifestazioni in tutta la Catalogna, specie a Barcellona, capitale di questa regione nordorientale della Spagna.
Accanto ai manifestanti pacifici si sono viste barricate in fiamme, atti vandalici e lanci di pietre contro la polizia locale antisommossa, i noti Mossos d’Esquadra.

I capi separatisti sono stati condannati dalla più elevata Corte di Giustizia spagnola per il grave reato di sedizione e malversazione di fondi pubblici, avendo tentato di eseguire un referendum illegale sull’indipendenza catalana.
A tutt’oggi i disordini non accennano a diminuire

Ma, cosa c’è dietro i tumulti in Catalogna?
La tesi principale dei nazionalisti catalani riguarda fondamentalmente due aspetti.
1) la propria storia che essi giudicano distinta da quella della Spagna, che risale a circa 1000 anni fa
2) Il Governo sfrutta eccessivamente le risorse fiscali catalane per destinarle alle regioni più povere della Spagna
La Catalogna è la regione più industrializzata e più ricca della Spagna con 7,5 milioni di abitanti, con inno, parlamento e bandiera propri.

Le proteste continuano con la partecipazione costante di centinaia di migliaia di persone, anche sotto l’inclemenza del clima.
A questo punto la questione non è più quante persone partecipano scendendo in piazza, ma per quanto tempo manterranno tale attivismo. È come se sia stato aperto un confronto con le Forze dell’Ordine per dimostrare chi resisterà maggiormente dell’altro.
Ma, stavolta trovano i Mossos d’Esquadra provati ma decisamente reattivi a seguito delle gravi accuse di infedeltà per la debolezza ed inerzia operativa assunte nella passata azione di contrasto verso il referendum abusivo del 2017.
Ad aggravare la situazione si registra l’intervento di gruppi politici irregolari, compresi i “black bloc”, che intendono osteggiare la prassi non violenta verso l’indipendenza, compiendo essi stessi vandalismi di ogni sorta ed incendi di autovetture.

Il sentimento più diffuso nella popolazione è la paura. Paura di non sapere che cosa accadrà.
La Classe politica non si dimostra all’altezza della situazione. Quimm Torra, 57 anni, Presidente della Generalitat de Catalunya dal maggio 2018, eletto nella coalizione filo-indipendentista “Junts per Catalunya” (JxCat) , si dissocia e condanna la violenza ma rifiuta di prendere le distanze dai manifestanti.

“Stiamo cercando di forzare lo Stato a sedersi ad un tavolo di dialogo”, dice Torra, ignorando che uno Stato sovrano, inteso come massima Istituzione giuridica, non riconosce nessuno al di sopra di sé stesso.
Le forze di polizia si stanno dimostrando efficienti e godono del chiaro sostegno sia del socialista Pedro Sanchez, Presidente del Governo spagnolo, che di Miquel Buch , ministro degli Interni della Generalitat catalana. Questi ultimi avvertono sulla volontà di applicare la massima severità contro ogni comportamento illegale.
Su scala nazionale, le forze politiche sono divise.

Il partito della sinistra radicale (Podemos) si pronuncia per una qualche forma di libertà condizionale per i nove condannati. Il socialista Pedro Sanchez si è già posto frontalmente contro ogni forma di secessionismo e rifiuta il dialogo e l’incontro con gli indipendentisti. Il conservatore Pablo Casado ed il liberale Albert Rivera applaudono al verdetto dell’Alta Corte opponendosi all’ eventuale decreto di amnistia dei condannati.

Una manifestazione indipendentista a Barcellona

Dagli indipendentisti e dalla sinistra radicale giungono altre ipotesi per ridurre la durezza del verdetto tramite una specifica riforma del Codice penale spagnolo oppure una amnistia generale per tutti i detenuti (prerogativa, però, del Capo del Governo Pedro Sanchez) o al limite un regime carcerario di semi-libertà per i condannati.
Mentre ferve questa dialettica tra le parti, il giudice Pablo Llarena ha rinnovato il mandato d’arresto internazionale contro Carles Puidgemont, ex capo della Generalitat, tuttora malgradito ed ignorato ospite in Belgio.
È chiaro che l’applicazione del Codice penale da parte della Corte suprema non risolverà la crisi istituzionale causata da questa strategia, che è senza dubbio politica, sebbene sostenuta dall’illegalità, ma è pur sempre la più esasperata della democrazia spagnola dalla data della riforma costituzionale del 1978.

Secondo la sentenza di condanna, i leader secessionisti hanno violato la legalità democratica per costringere il Governo ad accettare un referendum sulla propria autodeterminazione, minacciando, come poi ha fatto Puidgemont, di procedere alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza il 27 ottobre 2017.
È in tale momento che i capi del partito secessionista hanno reso inefficace la propria strategia confondendo il libero diritto di espressione politica con il rifiuto e respingimento della “Autoritas” statale.
Il medesimo atteggiamento ben poco si concilia con l’esercizio dei diritti civili al solo fine di convocare arbitrariamente un referendum di autodeterminazione, peraltro incompatibile con le Leggi costituzionali della propria nazione, la Spagna.

Dopo tanti giorni di proteste, l’opinione pubblica è profondamente divisa tra il desiderio di collegare l’arresto dei propri esponenti al proseguo indefinito della protesta politica di piazza o invece prendere atto che l’ambizione secessionista è al momento attuale non realizzabile.
Nel primo caso le conseguenze negative per l’economia, il turismo e la concordia sociale si tradurranno in danni elevatissimi e in qualche caso irreparabili.

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Autore