Di Vincenzo Santo*
ROMa (nostro servizio particolare). La frenesia popolare del voler “sapere” quando questa guerra in Ucraina finirà è la cartina al tornasole di come lo stato mentale della gente oscilli tra la speranza e il terrore, in relazione alla fiducia e alla credibilità che si pongono nei protagonisti di politica e stampa.
I primi come fautori degli indirizzi da seguire e i secondi responsabili di come la comunicazione viene veicolata.
Entrambi potenziali diabolici manipolatori dell’opinione pubblica.
Va da sé che ogni governo lavora ai fianchi il pubblico per convincerlo che le scelte operate siano nel giusto, quindi eticamente inoppugnabili.
E approfittarne per far valere le proprie idee, perché qualcosa deve essere fatto, ci fanno capire. Poco importa se quel qualcosa non ha senso o si può traduce in uno spreco di risorse o nel soddisfare l’interesse di una parte.
Mascherandone la pericolosità per via del rischioso gioco delle percezioni tra i contendenti.
È sempre stato così. Eppure, il semplice ripercorrere il tracciato degli eventi che hanno condotto l’Europa verso le due guerre mondiali dovrebbe aiutare nel rendersi conto di quanto sia stato facile allora fare strada a due tragedie incalcolabili e come lo sarebbe anche oggi facendosi sfuggire di mano la partita delle percezioni.
Eppure, molti dei protagonisti politici e militari di allora erano in linea di massima di ben altro spessore di quanto oggi offra il mercato.
Con un Presidente ucraino Volodymyr Zelensky che passa i fine settimana in giro per le capitali d’Europa e del mondo, a quanto pare proprio in concomitanza di una presumibile controffensiva, il cui accadimento viene ormai trattato e atteso come si attenderebbe la messa in onda di una nuova puntata di una serie televisiva, la tensione sale e discende, e gli interrogativi crescono sul perché di questi viaggi a Roma, Berlino, Parigi, Londra, Hiroshima o in Arabia Saudita e chissà ancora dove altro.
E soprattutto su che cosa gli sarà stato promesso o concesso.
Lui, Volodymyr Zelens’kyj, accolto ovunque e in qualsiasi occasione internazionale presente, in carne ed ossa o in remoto, a far credere che la sua causa è globalmente condivisa.
E non è così, invece. Il cosiddetto “global south” o ha altro a cui pensare oppure preferisce Mosca.
Dell’accoglienza “misurata” del Papa credo che tutti si siano resi conto, in evidente contrasto con la pompa magna con cui è stato accolto da altri.
E direttamente al Papa, come gesto di cortesia, lui ha probabilmente rappresentato che l’azione diplomatica del Vaticano, nei termini proposti non gli fosse gradita. Piuttosto che troncare d’autorità qualsiasi ulteriore contatto.
Ma per gli altri? Sta ottenendo di tutto, infatti. Dai sistemi per la difesa aerea a mezzi corazzati, persino allo Storm Shadow britannico e, dulcis in fundo, anche gli F-16.
Di quale tipo poi non è dato sapere. Senza considerare il carico logistico e manutentivo che ne prevederebbe l’impiego, nonché l’addestramento basico di non breve durata, almeno 4 mesi. Da qui molti interrogativi. Ma andiamo oltre.
Lo Storm Shadow, peraltro, un air-launched cruise missile, potrebbe già essere stato utilizzato nei giorni scorsi e, pertanto, c’è da capire se sia stato adattato su qualche pilone di aereo “sovietico”, un qualche Sukhoi ad esempio, o lo sia stato da un aereo britannico in stand-off.
Escludendo quest’ultima eventualità, ma solo in via teorica per la sua bassa probabilità, non possono esserci dubbi che anche il solo adeguamento di un’arma del genere su un aereo non britannico debba aver richiesto tempo e addestramento.
A rafforzare il mio modo di pensare secondo cui questa guerra ha preso fuoco il 24 febbraio 2022, ma la miccia è stata accesa molto prima.
E la manipolazione politica e mediatica ha portato via via a convincere il pubblico che le cause di un evento siano insignificanti, illegittimo persino pensarle, come se la storia non si sviluppasse secondo un’infinita successione di cause ed effetti.
Un condizionamento pervicace che ha un suo pratico risvolto.
GLI EUROPEI E LA FRENESIA MILITARE
Una sorta di frenesia “militare”, e delle belle idee, non necessariamente “buone”, ha colpito gli europei e, fatto inusuale, anche noi italiani.
E quando ci è successo, pochissime volte ne è scaturito qualcosa di buono o di utile. In Europa si è costruita una narrativa “bellicista”, accompagnata da un’impuntatura rabbiosa, sin dalla decisione americana di lasciare l’Afghanistan, quasi a sottolineare il disappunto o la preoccupazione europea per un evidente “abbandono” da parte degli alleati americani.
Cosa vera, peraltro, visto la sorpresa che colpevolmente prese tutti, anche noi italiani.
Segno evidente per me della superficialità con cui si affrontano e si seguono questi impegni dai vertici politici, militari e dell’intelligence nostrani.
Ma il ridicolo sta nel fatto che l’Unione Europea in Afghanistan non ha mai trovato spazio serio.
Parafrasando qualche passaggio acido di Henry Kissinger di qualche tempo fa, non ha mai avuto un numero telefonico a Kabul. Come è stata anche l’impronta della NATO in quel Paese, nonostante i convincimenti contrari in proposito. L’operazione in quel territorio è sempre stata solamente americana.
La NATO è ormai uno strumento in mano a Washington. Mentre per gli idealisti, tra i quali tanti sedicenti “atlantisti”, ignari di questo storico cambio di paradigma, è un fine.
Sbagliato, infatti, è confondere il fine con i mezzi. Si deve fare presto pace con questa realtà.
“Dobbiamo rafforzare la difesa europea” è il grido che chiama all’adunanza gli sparpagliati europei.
Una Difesa Comune è il principio che viene posto a base di un processo che non si capisce se sia mai iniziato e, se lo è, dove si voglia praticamente arrivare.
Se davvero si vuole cercare di capire che cosa sia nella testa di quanti urlano questo slogan, diciamo che l’UE si starebbe riarmando attraverso una serie di iniziative volte a rafforzare la sua difesa e sicurezza, sia interna che esterna. E fin qui, tutto chiaro. Una formulazione di principio.
Ora, fermo restando che riarmarsi non significa organizzarsi, se davvero si ritiene che la creazione di una difesa europea comune passi attraverso la cooperazione tra gli Stati membri dell’UE “per svilupparne la capacità militare”, siamo lontani anni luce da un serio progetto pratico. È solo una di quelle belle idee di cui facevo cenno prima.
Come solo un’idea velleitaria configura tanto l’impegno per una maggiore autonomia strategica dell’UE nel campo della difesa e della sicurezza, riducendo la dipendenza dalle risorse militari degli Stati Uniti, quanto l’attuazione di una politica di sicurezza comune e una più stretta collaborazione tra i servizi di intelligence degli Stati membri dell’UE.
E lo dico per almeno un paio di ragioni.
In primo luogo, gli Stati Uniti non possono permettersi il lusso di non tenere sotto tutela non solo l’UE ma l’intero continente.
Nella maturata logica, suggerita dal fatto che la massa euroasiatica, se compattata, porrebbe a rischio il loro “rimland”. Basterebbe rileggersi Spykman e anche Mackinder.
Due concezioni sempre valide, nonostante gli accanimenti terapeutici di chi straparla di geopolitica e confonde l’analisi geopolitica con la strategia e la geostrategia o, peggio, con le relazioni internazionali.
L’altra ragione, più contingente dalla precedente, ma ad essa strettamente connessa, è l’attuale conflitto in Ucraina. Uno scontro che per gli americani rappresenta un passaggio storico, inevitabile, con proiezione in oriente, per avere poi ragione di un contendente più nerboruto, la Cina.
Una contesa che richiede un fronte occidentale unito e coeso ma anche sottomesso ai loro interessi, per mettere in ginocchio la Russia, il principale alleato ma anche utile vassallo di Pechino.
Il loro è un impero che deve essere mantenuto e salvaguardato, basato su un dominio economico e finanziario, nonché su una superiorità militare indiscussa, e che si avvale di un sistema internazionale a proprio uso e consumo.
Un sistema ora messo pericolosamente in discussione per via di una distribuzione di potenza regionale giunta tutto sommato inattesa, da parte di Russia e Cina.
Già Diodoro Siculo (I secolo a.C.) ci avvertì che chiunque volesse creare un impero deve farlo con coraggio e intelligenza, mentre per crescerlo serve moderazione e clemenza. Infine, volendolo mantenere e proteggere è necessario sorprendere i nemici con il terrore.
Occorre quindi impaurire da una parte la Cina, l’avversario più pericoloso, anche prima che divenga un nemico, ma anche gli europei, creandogli una “vera” guerra nel cuore del Continente.
Come per i Romani, ha scritto Mary Sheldon, anche per gli Stati Uniti l’egemonia e la sicurezza dipendono dal riconoscimento universale della “maiestas” del loro impero.
Quindi occorre pensare al domani per via delle mire imperialiste russe che vogliono riprendersi quanto l’impero sovietico perse, con la non tanto nascosta idea di dirottare gli europei recalcitranti in oriente.
A quel punto Mosca, dopo la guerra contro Kiev, che finisca come finisca, non dovrebbe più essere in grado di nuocere.
Quindi occorre riarmarsi. E chi si sente insicuro e ha paura per la propria incolumità è più facile da convincere nel procurarsi un’arma.
UNA DIFESA COMUNE
Ma armarsi non significa organizzarsi. E se organizzarsi significa andare ben oltre quello che già esiste, io la vedo dura. Dura se davvero, come ormai piace dire o sognare anche da parte di qualche politico o giornalista, si pensa a un esercito europeo.
Certo, esiste la clausola di difesa reciproca, secondo l’articolo 42, al paragrafo 7, del trattato sull’Unione Europea secondo la quale: “Qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri”.
Tuttavia, “aiuto e assistenza con tutti i mezzi”, lo si capisce bene, offre molteplici possibilità interpretative, pur nella porta aperta garantita dalla Carta delle Nazioni Unite in quell’articolo, laddove parla di diritto naturale di autotutela individuale o collettiva.
Viene da lontano il concetto di un’entità statuale europea che avesse ragione degli “stati-nazione”. Era una bella idea ma un bel po’ ingenua; diciamocelo.
Mirava messianicamente a creare gli Stati Uniti d’Europa perché le varie entità statali la smettessero di farsi la guerra, principalmente Francia e Germania.
Dall’unione del carbone e dell’acciaio si pensò persino a un esercito comune cui far seguire l’unità politica. La logica avrebbe suggerito l’esatto contrario.
Ma la Comunità Europea di Difesa (CED) collassò nell’estate del 1954 per l’opposizione francese, ostile al fatto di dover cedere sovranità in campo militare, inclusa, la sua forza nucleare.
Ma sfumò anche l’Unione Europea Occidentale (UEO), assorbita dalla stessa UE nel 2011.
Quindi ci si indirizzò per un modello più pragmatico, se si vuole più tortuoso, quello dell’economia. Se non altro è privo di significati simbolici, quali il sentimento nazionale implica, aggirando le trappole identitarie di vario tipo.
Una scelta anche maliziosa, nell’idea che il mercato unico, la libera circolazione di persone e merci, dei servizi e dei capitali, un complesso giuridico europeo che salvaguarda il mercato stesso dalle intemperanze internazionali, l’unità monetaria e quella bancaria, potrebbero nell’insieme un domani far maturare un’identità europea tale da farne derivare un’unica politica anche in campo estero e da qui un unico eventuale impegno militare.
Ma la strada è ancora lunga. Occorre stare attenti a non far precipitare le cose.
E, inoltre, l’allargamento ai paesi dell’Est europeo, per decenni succubi dell’Unione Sovietica, e con questa idea fissa di una sofferta lunga sudditanza da vendicare, non aiuta.
Tuttavia, al di là di quanto incluso oggi nella Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC), parte della Politica estera e di sicurezza comune (PESC), e cioè l’istituzione di un Comitato Politico e di Sicurezza, di un Comitato Militare e di uno Stato Maggiore dell’UE, ben poca roba di sostanza rimane in termini di “organizzazione”.
Certo, ci sono delle missioni targate UE, denominate EUFOR o EUROMARFOR, ma parliamo di roba francamente “leggera”, che non azzarda andare oltre un limitato uso della forza.
E lo si è visto quando si è tentato di bloccare un mercantile turco al largo delle coste libiche. In buona sostanza, c’è ben poco oltre ai mai utilizzati EU Battlegroups, all’EUROCORPS stesso, questo un doppio cappello tra UE e NATO, il cui impiego mi risulta essersi limitato nel fornire soltanto personale ad altri comandi.
Oppure ai requisiti velleitari di un Helsinki Headline Catalogue.
Certo, esiste anche un concetto per la struttura di comando e controllo in ambito UE, secondo il quale alla bisogna viene designato un comando “operativo”, e da lì tutto il resto in discesa, ma l’Unione non possiede una struttura di comando militare permanente sulla falsariga della NATO.
Eppure, esponenti politici, persino coloro appartenenti a quell’ala che da sempre ha urlato il lamento del “lo vuole o ce lo impone l’Europa” ora sembra aver sposato ben altro convincimento.
Leggo che Guido Crosetto, l’attuale ministro della Difesa, avrebbe detto “nessun Paese europeo può difendersi da solo. I tempi ci stanno obbligando a mettere assieme le Forze Armate dei 27 Paesi dell’Unione sul modello NATO”.
A parte l’esclusione del Regno Unito da questa affermazione, è in errore.
Nell’Alleanza atlantica le singole forze non sono “messe insieme”. Possono avere diversi tipi di “assegnazione” anche in tempo di pace ma va riconosciuto che, come detto, l’Alleanza ha già una matura struttura di comando e controllo, ma niente di più. Peraltro, mai collaudata, fortunatamente, in situazioni di “difesa”.
Laddove, in questo senso, si pensi a uno scontro simmetrico. Persino l’ipotesi di mettere piede in Kosovo, con un’invasione via terra, venne scartato per via delle perdite che ne se prefiguravano.
Peraltro, pur tenendo presente che, per accordi presi tra le due entità, gli assetti NATO possono essere “passati” all’UE, mi viene molto difficile credere nel coinvolgimento degli europei in qualcosa di più complicato, per esempio un “peace-enforcement”, cioè nell’imposizione con la forza della fine delle ostilità, senza che tutta la faccenda non passi velocemente di mano alla NATO.
E, come noto, dire NATO è dire Washington.
Quindi, una duplicazione “europea” sarebbe uno spreco ingiustificato di risorse, umane, materiali e finanziarie.
Per gestire migranti, insegnare a come fare il poliziotto, aiutare la ricostruzione post conflitto in Paesi disastrati dalla guerra e addestrarne le nuove forze di sicurezza non serve una complessa organizzazione, basta quella che c’è già e avanza.
Se si tratta di qualcosa di più serio, nessuno metterà fuori gioco gli americani e i “loro” comandi NATO.
Riesco pienamente a immaginare le facce e i sorrisetti di compatimento dei vertici dell’amministrazione americana a seguito della lettura della “Bussola Strategica”.
Comunque, pur con l’età che ha, neanche in ambito NATO si è mai parlato di un esercito comune. Semplicemente perché è cosa complessa da realizzare per questioni di ordine concettuale e anche pratico.
Le gelosie e le prerogative nazionali, infatti, sono dure da superare e conciliare, persino nelle attribuzioni di comando da attribuire a colui al quale si assegnano le forze e nei “caveats” che vengono posti dagli Stati.
Il problema si pone per tutti i possibili assetti, ma la cosa diviene più delicata per le forze di terra.
Davvero si crede di poter fare molto di più di quanto la stessa Alleanza non abbia mai fatto durante la sua esistenza?
QUALE ESERCITO? QUALI SOLDATI?
Fermo restando la necessità di realizzare un’ulteriore catena di comando e controllo in vita, purtroppo un doppione della NATO, laddove si optasse seriamente per disporre di forze nazionali permanentemente sotto “comando pieno” dell’Unione Europea, con unità che a qualsiasi livello ordinativo siano “multinazionali”, cioè composte da complessi di forze organici dipendenti di diversa nazionalità (per esempio una compagnia formata da plotoni “nazionali”) oppure, all’altro estremo, che vedano al loro interno tutti individui di nazionalità diversa, diciamo unità “plurinazionali”, occorrerebbe tenere presenti alcuni passaggi ineludibili.
Cioè, fissare con chiarezza da chi e come il personale verrebbe reclutato e selezionato, poi addestrato e pagato, quindi equipaggiato e sostenuto logisticamente, accasermato. Inoltre, di quale trattamento pensionistico dovrebbe godere? Tuttavia, si porrebbe un aspetto più problematico, secondo me.
Cioè proprio quello dello “status” di ciascun soldato. A partire dall’uniforme da indossare.
Più semplicemente, a chi o a cosa egli presterebbe giuramento? E se ha già giurato nel rito nazionale in precedenza? Per quanti anni durerebbe questa “assegnazione”?
Chi ne curerebbe gli aspetti matricolari?
E chi le schedule vaccinali, laddove determinati trattamenti vaccinali non fossero previsti dalla propria Nazione?
Tornando per un attimo sull’ipotesi “plurinazionale”, un’idea di cui ho letto su talune proposte, io dubito fortemente che unità così composte possano condurre con efficacia, pur con la migliore approssimazione nella lingua comune, che immagino sarebbe l’inglese, un combattimento dove la dinamica e la ferocia del campo di battaglia rendono la sopravvivenza e il successo dell’azione appesi a un susseguirsi di “gride” analogiche.
E non mi si facciano paragoni con unità mercenarie o della Legione Straniera.
E ancora, quali Regolamenti di disciplina e quali Codici andrebbero applicati? Tutti quelli di ciascuna Nazione?
Se così deve essere, quel povero ipotetico Comandante di Corpo, perché qualcuno lo deve pur essere, sarebbe messo nelle condizioni di navigare in un inferno multicolore di innumerevoli codici e regolamenti a cui fare riferimento. Puro sadismo.
Però, ancora, ammesso di stilarne uno unico di Codice, ripeto, come la si mette con la “cittadinanza” dell’individuo?
Si tratta di domande che non si possono eludere se si vuole perseguire l’obiettivo di un esercito comune. Tuttavia, io auspico che tali avventure rimangano solo nel mondo delle idee e non si vada oltre.
I tempi per arrivare a questo stadio non sono ancora maturi, se mai lo saranno in futuro.
Ma volendo ostinatamente percorrere questa strada, perché capisco che agli slogan occorra poi dare un seguito, è necessario che a questi interrogativi, e forse anche ad altri che ora non mi passano per la mente, si diano risposte serie e con i dovuti risvolti organizzativi.
Si pensi al “soldato” e su come il tutto debba essere organizzato e normato per soddisfare il principale requisito, cioè il disporre di unità realmente pronte e capaci. Il che passa attraverso la fatica quotidiana nell’addestramento e nella preparazione fisica, ma anche basato su un quadro normativo, amministrativo e soprattutto giuridico, chiaro.
L’INDUSTRIA DELLA DIFESA
Il sospetto che tutta questa sensibilità “europeista”, post Afghanistan ed enfatizzata dall’attuale guerra, vera, nel cuore europeo, non sia altro che la coperta narrativa a scopi ben più materiali, quali quelli di ossigenare l’industria bellica, non mi abbandona.
Già, l’apparato industriale. Tutto sommato, al di là degli spot pubblicitari e propagandistici, il filone che più di tutti viene seguito, e se ne trova traccia sulle testate che più si occupano di economia, l’idea di Difesa Comune sembra più spesso associato, in buona sostanza, a come dividere la torta tra le varie realtà industriali del settore.
Passando per il falso ideologico della necessità di “spendere di meno” e di procedere ad acquisizioni comuni.
Che siano soldi nazionali, e questo è un vecchio vizio ormai da noi radicato e colpevolmente assecondato, o “europei”, non importa. E il rifornire Kiev e allo stesso tempo ricostituire le scorte rappresenta una miniera a cielo aperto.
Del resto, basterebbe leggere la già citata “Bussola Strategica” per comprendere come il suo “Nord magnetico” sia la parte “investimenti”, laddove premette che: “Dobbiamo investire di più e meglio nelle capacità e nelle tecnologie innovative, colmare le lacune strategiche e ridurre le dipendenze tecnologiche e industriali”.
Guardandosi bene dal menzionare gli USA come l’amico da cui tecnologicamente dipendiamo di più in questo settore industriale.
Ma Washington è pur contento dell’impegno ad innalzare il tetto della spesa, almeno a quel fatidico 2%, ma di certo non ammetterà di esserne escluso come partner industriale da cui rifornirsi. Il concetto di una “Difesa europea più forte e più capace”, quindi, è legato al mondo industriale.
E qui rientrano altri fattori. Intendiamoci, non è cosa che faccia passare le notti in bianco all’inquilino della Casa Bianca.
Ma la domanda è come renderlo realtà, considerando anche gli stridii tra est e ovest del continente.
La giungla “europea” di procedure, provvedimenti e iniziative, anche alla luce della guerra in Ucraina (European Defence Fund – EDF; Permanent Structured Cooperation – PESCO; Coordinated Annual Review on Defence – CARD; Capability Development Plan – CDP; European Defence Industry Reinforcement through Common Procurement Act – EDIRPA; Act in Support of Ammunition Production – ASAP) non aiuta a capire il punto di stazione da cui poter utilizzare una qualsivoglia “bussola”, strategica o no che sia.
Una giungla che conduce da un lato a individuare un copia e incolla dalla NATO e dall’altro una direttrice ben precisa che conferma il filo conduttore che è la spesa per commissioni industriali.
Ora, l’individuare 11 European Capability Development Priorities oppure, come riportato nella Bussola Strategica, “sviluppare una capacità di dispiegamento rapido dell’UE che ci consentirà di dispiegare rapidamente fino a 5 mila militari in ambienti non permissivi, per diversi tipi di crisi”, sono solo splendide affermazioni di principio ma esclusivamente indirizzate all’investimento.
Purtroppo, poco hanno a che fare con una reale capacità raggiunta sul terreno se si parla, per esempio, di Ground Combat Capabilities, una di esse.
La si dà per scontata, ma non lo è. La riprova sul “terreno” di norma è un fatto nazionale, facilmente addomesticabile e documentabile con una bella esercitazione, il più delle volte solo “bella”.
Mi piacerebbe sindacare sulle reali capacità operative, per esempio nel realizzare una struttura difensiva con tanto di campi minati antiuomo e anticarro, delle nostre unità dispiegate in Bulgaria.
Ah, che sbadato! Scordavo che i nostri politici hanno voluto che delle mine antiuomo facessimo a meno.
Quindi, in caso di guerra, quella “vera”, gli odiati della Wagner possono tranquillamente avvicinarsi alle nostre trincee anche fischiettando, ammesso che i nostri le sappiamo realizzare e siano addestrati a sopportarne la vita.
E poi, quel “5 mila … in ambienti non permissivi … in tutti i tipi di crisi” credo facciano chiarezza dell’indeterminatezza magnetica a cui è sottoposta questa benedetta bussola.
Guardando ai numeri del budget dell’Esercito, viene facile essere preoccupati da parte di coloro che hanno masticato veramente l’addestramento, almeno quello delle Brigate “di manovra”.
Addestramento divenuto irrinunciabile a seguito del cambio di paradigma da risposta massiccia a risposta flessibile.
Venuto meno l’automatismo nucleare, occorreva smettere di fare finta di essere pronti passando il tempo al circolo o allo spaccio.
Con i 370 e rotti milioni di euro per l’esercizio “reale”[1], ancorché poi gonfiati con altre boccate di ossigeno, per missioni all’estero e sul territorio nazionale, fino a circa 920 milioni, non si va da nessuna parte se si vuol garantire quel “pronti e capaci”.
Una sola Brigata per “vivere e addestrarsi seriamente” necessita di 200 milioni di euro l’anno, mal contati. E non ci sono.
Ho già scritto sull’argomento sulle pagine di Report Difesa[2]. Sforzo probabilmente inutile.
E ci sarebbero anche debiti pregressi, via via da sanare, dovuti a IMU non corrisposte ai comuni interessati[3].
Si pensi un po’, l’Italia fa pagare l’IMU alle proprie Forze Armate, uno dei suoi potenziali “strumenti di potere”. Passi per gas, acqua e rifiuti, ma anche l’IMU?
Certo, possiamo prenderci in giro per il fatto che il professionista già conosce il suo mestiere, mentendo a noi stessi e sapendo di farlo.
Si può essere pronti (readiness e responsiveness) anche in 2 ore, ma non è detto che si sia anche capaci.
Fin qui l’esercizio. E per l’investimento? Ben 839 milioni a cui sono da aggiungerne altri 457 concessi dall’ex MiSE. Gli incrementi in percentuale sono interessanti.
Mentre per l’esercizio, rispetto al 2021, la crescita per l’anno successivo è stata dell’ordine del 6%, per l’investimento, leggasi industria, siamo sul 38%. Il tutto all’insegna ormai solidificata e intoccabile dell’innovazione.
Che è cosa buona, si intende, ma temo che si siano superati i limiti della decenza e che la politica industriale sia ormai la normale guida istituzionale per quella militare.
Innovazione come dogma, anche perché utile nel mascherare ciclicamente l’incapacità di “manutenere” ciò di cui si dispone e che, pur avendo ancora utilità operativa, proprio perché impossibile da tenere in servizio, deve essere sostituito da una nuova linea.
Con il rischio di dover acquisire ciò che non serve o che non si è riusciti a esportare.
Le esportazioni ovviamente sono importanti. Un settore da curare e sostenere. La guerra in Ucraina ha indubbiamente dato un’accelerazione all’andamento della spesa per la difesa.
Non solo in Italia, che comunque risulta il sesto esportatore mondiale con il 3,8 del mercato, dopo USA, Russia, Francia, Cina e Germania.
Con Kiev che risulta essere diventata la terza destinazione mondiale, dopo Qatar e India.
E il mercato europeo nell’ottica di questa idea della “Difesa Comune” diviene fondamentale. Ma anche molto competitivo e pieno di insidie.
I tifosi del “buy European” sanno perfettamente che le principali forniture hanno una proiezione lunga nel tempo in termini di sostegno e formazione.
Ciò implica che l’acquirente debba sentirsi protetto e avere fiducia che avrà nel tempo quel tipo di supporto.
Se la Polonia, ad esempio, rileva un freno concettuale nella Germania nel fornire a Kiev carri armati e altre armi, finisce per realizzare di non potersi fidare di Berlino, o di Parigi, o di Roma financo, per il fatto che non esiste evidente condivisione nel ritenere il medesimo grado di minaccia e di allarme per la sicurezza, per cui la massiccia spesa per la difesa polacca viene di fatto a concentrarsi nell’approvvigionarsi di nuovi sistemi d’arma principalmente dagli Stati Uniti, persino dalla Corea del Sud.
E questo potrebbe accadere anche un domani, perché, come accennato in apertura, esistono differenti percezioni tra i Paesi dell’Est europeo e “gli altri” nell’ambito dell’Unione Europea.
Ma le necessità industriali possono far sì che la politica estera, che è sostanzialmente nazionale, con buona pace di un Borrell che cerca freneticamente di marcare un territorio virtuale, si adegui ai turbamenti di una Polonia o di un qualsiasi paese baltico, e magari già oggi di Kiev.
Ma c’è di più. In che termini cioè si parla di integrazione? Quanto può risultare convincente che le principali nazioni esportatrici di materiali d’armamento dell’Europa “storica” possano accordarsi sui reciproci sacrifici con potenziali perdite, anzi certe, per la propria industria nazionale che, in aggiunta, vede nella maggior parte dei casi nei propri governi l’azionista di riferimento?
Accetterebbero a cuor leggero la guida “integrata” da parte dell’UE che può sancire chi vinca un appalto e chi no, soprattutto se da soddisfare con il budget comunitario, come si presume debba essere in caso di una componente militare “europea”?
A dirla tutta, ad oggi, le iniziative europee nel settore, i già citati EDF e PESCO non hanno acceso dispute del genere in quanto focalizzati su obiettivi di piccola scala e focalizzati su progetti di ricerca e sviluppo che consentirebbero ai principali attori industriali di far parte della partita.
Tuttavia, come accennato, i campioni industriali nazionali sono in genere di proprietà statale.
Di conseguenza, le controversie tra aziende tendono a diventare rapidamente dispute politiche tra governi.
Infatti, mi risulta che i programmi come il Future Combat Air System (FCAS), che si presume sia operativo per il 2040, e il Main Combat Ground System (MCGS), il futuro carro armato europeo, probabilmente pronto per il 2030, siano già stati ritardati a causa di controversie sulla proprietà intellettuale e sulla condivisione del lavoro tra i principali appaltatori della difesa, francesi e tedeschi, che hanno richiesto l’intervento dei rispettivi governi per essere risolte.
Pertanto, qualsiasi percorso verso questa integrazione non è privo di insidie di questo genere, a significare che l’identità nazionale è ancora molto forte.
Non è una novità, il comparto industriale europeo del settore è significativo, benché frammentato dalle connotazioni nazionali. E ben presente a livello internazionale.
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), 4 delle prime 8 Nazioni esportatrici di armi globali sono Stati membri dell’UE (Francia, Germania, Italia e Spagna), con il Regno Unito anche tra i primi 10.
La produzione europea vede sistemi apprezzati in tutto il mondo, dai missili agli aerei da combattimento sino alle navi da guerra.
Ma le forze europee sono costrette a rivolgersi altrove, cioè alle aziende statunitensi, per gli elicotteri pesanti o per i sistemi lanciarazzi come l’HIMARS (High-Mobility Artillery Rocket System) e per alcune componenti elettroniche più sofisticate, incluso il settore cyber.
Quindi, come ulteriore spunto, il bacino americano è irrinunciabile e fa la differenza nella scelta di intraprendere, con l’industria americana, partnership industriali da cui trarre benefici economici, come si è trattato per l’F-35 con Cameri in Italia.
Facendo questa scelta la differenza tra il dotarsi dell’F-35 o aspettare il citato FCAS.
Possibile contropartita a che Fincantieri, tramite una sua sussidiaria negli States, facesse adottare alla Marina statunitense una propria linea di Fregate.
Questi sono risultati da festeggiare. Ma vediamo di fare una panoramica su cosa stia accadendo in termini di spesa nel settore.
LA SPESA PER LA DIFESA NEL MONDO. UN VELOCE SGUARDO D’INSIEME
Sempre per il SIPRI, il cui sito è ricco di informazioni sul tema, e ne raccomando l’esplorazione, nel 2022 la spesa globale è cresciuta del 3%, 2240 miliardi di dollari.
Solo in Europa l’incremento è stato del 13%, 345 miliardi, una misura in valore corrente neanche vista durante la Guerra Fredda. Il 30% in più rispetto al 2013 e il 45% solo tra il 2018 e il 2022.
I Paesi della NATO presentano un conto di 1232 miliardi di dollari, quasi l’1% in più dell’anno precedente. La voce più grossa ovviamente è quella di Washington (877 miliardi di dollari).
Ma ciò che va rilevato è la spesa dei Paesi dell’est europeo, i cui timori per un’azione offensiva russa dopo la Crimea, ha spinto a raddoppiare le proprie spese dal 2014 ad oggi.
Con la Polonia che ha ormai portato il suo bilancio al 4% del PIL.
Il 56% della spesa globale è nelle mani di Stati Uniti, Cina e Russia.
L’Ucraina precede l’Italia, ora al 12° posto, con una spesa di ben 44 miliardi di dollari e con un incremento “monstre” del 640%, per un incredibile 34% del PIL dal 3,2% rilevato nel 2021.
E questa percentuale di Kiev deve far riflettere sul fatto che la miccia di cui ho scritto nelle prime righe era stata accesa ben prima.
In Europa il primato compete al Regno Unito con poco meno di poco più di 80 miliardi di euro.
In Oriente, a tallonare la Cina (292 miliardi, il 4,2% in più) c’è l’India, con poco più di 81 miliardi di dollari, con un incremento del 6%, e il Giappone con 46 miliardi di dollari (1,1% del PIL) con un incremento del 5,9%.
Senza contare gli investimenti pluriennali, come quelli annunciati da Parigi (423 miliardi di euro in 7 anni) o quelli speciali colossali, una tantum da 100 miliardi di euro di Berlino.
CONCLUSIONI
Insomma, al di là delle pur facili similitudini storiche, per esempio su come si sia infiammata la Grande Guerra, esiste un moto schizofrenico nel mondo.
Tutti i principali attori si riarmano.
La guerra in Ucraina e i timori per la sicurezza propria e del proprio cortile di casa, generati dalla presunta o reale assertività russa e cinese nel modificare l’attuale ordine internazionale, veicolano verso il pubblico la necessità di un cambio di rotta da parte di stati, finora vissuti, molti di essi, all’ombra della protezione garantita dalla potenza militare e dalla deterrenza nucleare offerte dagli Stati Uniti.
Va da sé che se si arma la Cina, l’India non può fare diversamente e, conseguentemente, il Pakistan.
Allo stesso modo se si parla di Iran e Arabia Saudita, Emirati e ancora Israele. E così via.
Ma non c’è dubbio che il rischio maggiore di un coinvolgimento militare globale risieda più nel Pacifico, leggasi Taiwan, che qui in Europa.
Intrapresa la strada della mobilitazione si rischia di smarrire persino le ragioni per le quali lo si è fatto e l’impulsività, il gioco infernale delle percezioni con le imprevedibili reazioni “umane” possono causare dolori.
Comunque, una ghiotta occasione per l’industria della difesa, la quale si avvale in Europa di una narrativa favorevole, montata ad arte da politici e dal mondo dei media, con il pretesto di appropriarsi di un’autonomia strategica rispetto agli Stati Uniti.
Ed è il cavallo di battaglia mediatico quello dell’Esercito europeo, fascinoso obiettivo, cercato da tempo, ma che maschera ciò in cui io credo veramente consista questo concetto della Difesa Comune, essenzialmente patrocinato dall’industria del settore.
Che poi l’UE possa realizzare una piattaforma condivisa e integrata per raccordare a livello di mercato comune la relativa domanda con l’offerta da parte delle industrie nazionali di vari prodotti, dal munizionamento ai sistemi d’arma, è una cosa, ma se tutto questo va a incidere su quanto un esercito nazionale vada poi a scegliere senza che in quella scelta venga coinvolto il comparto produttivo nazionale la vedo dura.
Come ho scritto, accettare perdite economiche non è cosa facilmente digeribile.
Tuttavia, ove mi sbagliassi e si volesse percorrere seriamente la strada di un esercito europeo, sarebbe necessario dare risposte a molti dei quesiti sopra esposti, allo scopo di garantire un quadro “disciplinare” inequivocabile.
Ma con il rischio di creare costosi e inutili doppioni, illudendosi di credere di potersi affrancare dall’ingerenza operativa americana, e quindi dal suo comando e controllo, ovunque sorgesse un’emergenza sul continente europeo.
Sempre che si sia convinti di mettere nelle mani dell’UE, potenza economica e industriale indiscussa, ma fragile in termini di attività estera, uno strumento militare e, quindi, una politica di difesa e sicurezza che andrebbe a penalizzare con quella nazionale o almeno a entrarvi in conflitto.
A meno che non si decida di potersene privare. Un deciso cambio di prospettiva e di regime, ove ci si riuscisse, rinunciando tutti gli Stati alla propria sovranità. Cosa di cui dubito.
Io non so come finirà questa guerra in Ucraina o cosa accadrà per Taiwan.
Tuttavia, l’aver preso spunto da questa pagina tragica della storia europea per sostenere ipotesi molto vaghe, anche inutili e costose, e forse orientate a soddisfare i fini profittevoli per l’industria, lo trovo sì spregiudicato ma anche eticamente sconveniente.
Se poi non si tiene conto di quanto questo frenetico movimento di pensiero, accompagnato da una comunicazione spesso approssimativa e talvolta rabbiosa, possa proiettare nella controparte una pericolosa percezione di mobilitazione, anche sociale e culturale, lo ritengo da immaturi.
Infine, se il tutto viene detto oggi e domani compiuto senza essersi preoccupati delle reali capacità operative delle nostre unità di manovra, del cui tenore addestrativo non sono per niente convinto, lo reputo da incoscienti.
Perché tutta l’innovazione di questo mondo è sempre benvenuta, ma poi in trincea, sulla “madre terra”, tutto da quasi subito diviene analogico.
Sperando che non ci sia mai un redde rationem.
*Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)
NOTE
[1] Esercizio Finanziario del 2022.
[2] https://www.reportdifesa.it/difesa-spesa-al-2-avvertenze-per-luso-il-soldato-costa-in-ogni-momento-delle-sue-attivita/
[3] Circa 130 milioni per 9 mila immobili su 278 Comuni.
*Generale di Corpo D’Armata Esercito (ris)
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