Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. La recente dichiarazione del presidente statunitense Donald Trump sulla tregua tra Israele e Hamas – “la tregua tiene, ma Israele ha il diritto di rispondere” – sintetizza con poche parole l’ambiguità costitutiva della politica internazionale contemporanea. Apparentemente è un messaggio di equilibrio: una tregua che regge, ma che non annulla la facoltà di reagire. In realtà, dietro questa formula si nasconde una strategia complessa che intreccia diplomazia, forza e deterrenza, in un contesto dove la pace e la guerra convivono nello stesso spazio politico.

La tregua, promossa dagli Stati Uniti e in vigore dal 10 ottobre 2025, rappresenta il frutto di un accordo fragile, mediato dopo anni di tensioni seguite all’attacco di Hamas dell’ottobre 2023 e alla dura risposta militare israeliana. Trump tenta ora di ridefinire il ruolo americano come garante dell’ordine regionale, riappropriandosi di quella funzione di mediatore che storicamente ha caratterizzato Washington nel conflitto israelo-palestinese. Tuttavia, l’enfasi sul “diritto di Israele di rispondere” introduce un messaggio di potenza che parla non solo a Tel Aviv, ma anche a Teheran, Beirut e Doha. È un modo per dire che la tregua esiste, ma non è una resa; è sospensione della guerra, non rinuncia alla forza.
Per gli Stati Uniti, la posta in gioco è duplice: da un lato la stabilità del Medio Oriente e la salvaguardia della propria influenza, dall’altro la volontà di riaffermarsi come potenza ordinatrice in un mondo sempre più frammentato. Questa duplicità è il segno della nuova geopolitica americana, che alterna i toni conciliatori del negoziato a quelli assertivi della deterrenza. Washington sa che non può più permettersi guerre aperte, ma non può nemmeno apparire debole di fronte ai suoi alleati o ai suoi avversari. La formula di Trump è quindi un compromesso tra pragmatismo e potenza.
Per Israele, la dichiarazione americana è un ombrello politico. Netanyahu ottiene la conferma che ogni reazione militare potrà contare su una legittimazione internazionale preventiva. È una garanzia che rafforza la posizione del governo israeliano, soprattutto sul piano interno, dove la pressione dell’opinione pubblica e delle forze politiche più radicali resta elevata. Per Hamas, invece, si tratta di un monito chiaro: la tregua è un’occasione di sopravvivenza, ma ogni provocazione rischia di essere interpretata come un pretesto per una nuova offensiva israeliana. Il gruppo si trova così in un equilibrio instabile, diviso tra la necessità di mantenere il cessate il fuoco e la tentazione di usarlo come strumento di pressione.
La vera vittima di questa ambiguità resta, come sempre, la popolazione civile della Striscia di Gaza. In un contesto in cui la distinzione tra tregua e guerra è sempre più sottile, i margini di sicurezza si riducono drasticamente. L’incertezza diventa una condizione permanente, e la pace assume i tratti di una pausa tecnica più che di una prospettiva politica. In chiave storica, l’intera vicenda rievoca le dinamiche della Guerra Fredda: un grande protettore che garantisce l’ordine nella propria sfera d’influenza, e un alleato minore che agisce sotto tutela.
Ma oggi la logica è più sfumata: non più blocchi ideologici contrapposti, bensì un mosaico di potenze medie e grandi che competono per la legittimità e il controllo delle narrative. L’affermazione di Trump riflette proprio questa transizione: la diplomazia non si oppone più alla forza, la incorpora. La “nuova guerra” non si combatte solo con le armi, ma anche con le dichiarazioni, i negoziati, le tregue intermittenti e le operazioni di influenza. È una guerra ibrida, dove le parole possono essere armi e i cessate il fuoco strumenti di pressione.
Il futuro di questa tregua dipenderà da un equilibrio estremamente fragile. Ogni episodio, anche marginale, potrebbe far precipitare la situazione. Se Hamas dovesse percepire la pressione americana come una minaccia diretta, potrebbe tentare una “escalation controllata”, ovvero provocazioni limitate volte a rinegoziare i termini della tregua.
Israele, forte del sostegno statunitense, potrebbe rispondere immediatamente, innescando un ciclo di reazioni difficilmente gestibile. In questo scenario, l’Europa e l’Italia non potrebbero restare indifferenti: un nuovo conflitto a Gaza avrebbe ricadute dirette sul Mediterraneo, sui flussi migratori e sulla stabilità energetica.
In definitiva, la frase di Trump non è solo un commento politico. È un segnale di come la diplomazia del XXI secolo abbia interiorizzato la logica della forza. La tregua tra Israele e Hamas non è la fine della guerra, ma la sua prosecuzione con altri mezzi.
La differenza, oggi, è che il campo di battaglia non è più soltanto militare, ma anche simbolico e diplomatico. E in questo nuovo equilibrio, la pace è un’ipotesi momentanea, non una conquista definitiva. Una conquista davvero da desiderare.
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