Di Cristina Di Silvio*
LONDRA. La scorsa settimana, durante una conferenza stampa congiunta a Londra con il primo ministro britannico Keir Starmer, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha rilasciato una dichiarazione che ha immediatamente scosso i centri decisionali internazionali e le sale operative militari: l’intenzione di riacquisire il controllo della base aerea di Bagram, situata a Nord di Kabul e attualmente sotto l’autorità del Governo talebano.

“Stiamo cercando di riprendercela – ha affermato Trump – perché hanno bisogno di qualcosa da noi. Ma uno dei motivi per cui vogliamo la base è che, come sapete, è a solo un’ora di distanza da dove la Cina produce le sue armi nucleari”.
Parole che, al di là della retorica presidenziale, sembrano celare una strategia ben più ambiziosa: riportare una presenza militare statunitense nel cuore dell’Asia centrale, con l’obiettivo implicito di contenere l’espansione cinese e ristabilire un punto d’appoggio avanzato in una delle aree più sensibili del globo.
Tuttavia, ci si chiede: si tratta di una prospettiva concretamente realizzabile o solo di un’espressione di forza in chiave elettorale?
Per comprendere la portata della proposta – o della provocazione – è necessario analizzare la natura strategica della base di Bagram.
Situata nella provincia di Parwan, a circa 40 chilometri da Kabul, fu costruita dall’Unione Sovietica negli anni Cinquanta e successivamente trasformata dagli Stati Uniti in uno dei più avanzati hub militari al mondo durante i due decenni di presenza in Afghanistan, dal 2001 al 2021.
Dotata di una pista in cemento armato lunga 3.600 metri, capace di accogliere velivoli strategici come C-17 Globemaster, bombardieri B-52, UAV e aerei da ricognizione, Bagram era molto più di una base: era il fulcro operativo e logistico dell’intervento NATO in Afghanistan.

Era anche sede di centri di comando, depositi, ospedali militari, hangar rinforzati e sofisticati sistemi radar.
Ma non è soltanto l’infrastruttura a conferirle valore: è la sua posizione. Bagram rappresenta una piattaforma geostrategica proiettata sull’Eurasia, a ridosso dei confini con Iran, Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan e – soprattutto – la Cina.
In un’epoca di rinnovata competizione tra grandi potenze, riacquisire Bagram significherebbe per Washington tornare a presidiare un crocevia nevralgico tra Medio Oriente, Asia meridionale e Asia centrale.
Trump ha motivato la sua intenzione richiamando la vicinanza della base a presunti siti nucleari cinesi.
Ha affermato che Bagram si troverebbe a “un’ora” dalle installazioni dove la Cina produrrebbe armi nucleari.
Tuttavia, questa affermazione non trova riscontro nei dati geografici.
Il sito cui Trump probabilmente si riferisce è Lop Nur, nell’area desertica dello Xinjiang, storicamente utilizzato dalla Repubblica Popolare Cinese per test nucleari sin dagli anni Sessanta.
Ma Lop Nur dista circa 2 mila chilometri da Bagram: ben oltre il raggio operativo di qualsiasi asset convenzionale ospitato in Afghanistan.
Inoltre, le strutture cinesi più accreditate per la produzione e l’assemblaggio di testate nucleari si trovano in altre regioni, come il complesso nucleare del Sichuan o le aree industriali di Jiuquan, ben più a Est.
La dichiarazione, dunque, appare più funzionale alla costruzione di una narrativa di deterrenza e contenimento della Cina – elemento ricorrente nel discorso strategico trumpiano – che a una pianificazione concreta fondata su dati militari verificabili.
Al di là della retorica, resta una questione fondamentale: in che modo Washington potrebbe tornare in possesso di una base oggi controllata dal regime talebano?
Gli Stati Uniti hanno completato il ritiro da Bagram nel luglio 2021, lasciando dietro di sé infrastrutture, attrezzature e ingenti risorse abbandonate durante il caotico disimpegno supervisionato dall’Amministrazione Biden.

I segnali provenienti da Kabul non lasciano spazio a facili ottimismi.
Zakir Jalaly, funzionario del Ministero degli Esteri talebano, ha dichiarato: “Gli afghani non hanno mai accettato la presenza militare di nessuno nel corso della storia”.
Tuttavia, ha anche aggiunto: “Per altri tipi di coinvolgimento, tutte le strade restano aperte”.
Un’apertura, seppur vaga, a forme di cooperazione politica ed economica. Ma nulla che suggerisca la disponibilità a una nuova presenza militare americana.
Decisamente più netto il tono del vice ministro Muhajer Farahi, che ha pubblicato sui social un criptico verso poetico: “Coloro che un tempo sbattevano la testa contro le rocce insieme a noi, non hanno ancora trovato pace nella loro mente”.
Un chiaro riferimento ai costi del conflitto passato e al rifiuto di qualsivoglia ritorno alla condizione precedente.
Al momento, né la Casa Bianca né il Dipartimento di Stato hanno commentato ufficialmente la questione.
Il Pentagono, attraverso il portavoce Sean Parnell, ha dichiarato che il Dipartimento della Guerra “esamina regolarmente scenari globali e risponde a indicazioni presidenziali”.
Una formula standard, che lascia intendere che Bagram rientri tra i possibili dossier di interesse strategico, ma senza che vi sia alcun piano operativo concreto.
Tuttavia, alcuni movimenti recenti fanno intravedere una possibile riapertura del dialogo.
La visita a Kabul di Adam Boehler, inviato speciale dell’Amministrazione Trump per la questione ostaggi, rappresenta un evento di rilievo: è uno dei primi incontri ufficiali tra rappresentanti statunitensi e autorità talebane dalla presa del potere nel 2021.
Nulla è trapelato sui contenuti, ma è lecito supporre che il dossier Bagram sia stato almeno menzionato nei colloqui riservati.
Un eventuale ritorno degli Stati Uniti a Bagram non sarebbe soltanto un riposizionamento tattico: sarebbe un atto dirompente dal punto di vista geopolitico.
La Cina vedrebbe nella mossa una provocazione diretta ai propri interessi nella regione dello Xinjiang. L’Iran percepirebbe una minaccia lungo il suo confine orientale.
Il Pakistan, già instabile, verrebbe risucchiato in un nuovo equilibrio di forze.
E la Russia, da sempre attenta all’Asia centrale come zona d’influenza storica, non resterebbe a guardare.
Anche sul fronte interno americano, un ritorno a Bagram solleverebbe interrogativi non banali.
L’opinione pubblica statunitense è ancora segnata dalle conseguenze del conflitto afghano – il più lungo della storia americana – e difficilmente accetterebbe un nuovo impegno militare, anche se limitato a una base strategica. Resta quindi una domanda chiave: quale sarebbe il costo – politico, strategico e diplomatico – per ottenere nuovamente Bagram?
Se Trump intende davvero negoziare con i talebani, dovrà offrire contropartite significative: riconoscimento politico, aiuti economici, rimozione di sanzioni o altro ancora. Un compromesso che potrebbe generare profonde spaccature sia all’interno della NATO sia tra le potenze regionali.
Ad oggi, la prospettiva di un ritorno statunitense a Bagram appare più come una provocazione strategica che una concreta possibilità.
Ma la storia dell’Afghanistan ci insegna che ciò che oggi sembra improbabile può domani divenire realtà.
Il Paese, crocevia millenario di imperi e ambizioni, potrebbe ancora una volta tornare al centro del “Grande Gioco”. E questa volta, la posta in gioco non sarà soltanto una base militare, ma l’intera architettura di sicurezza dell’Asia centrale.
FOTO DI COPERTINA: Di
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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