Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. È accaduto tutto in una giornata d’estate senza cerimonie né proclami.
Nessuna firma spettacolare, nessun palco.
Solo una nota tecnica, asciutta, che sancisce ciò che a Bruxelles si sussurrava da settimane e a Washington si dava per scontato: l’Unione Europea ha accettato un dazio unico del 15% sulle sue esportazioni verso gli Stati Uniti.

Un compromesso apparente che, letto in controluce, racconta ben altro: la transizione silenziosa dell’Europa da interlocutore strategico a partner condizionato. Un accordo che congela una crisi, ma fissa – nero su bianco – i nuovi confini della sua sovranità economica, tecnologica e militare.
Dietro la patina tecnica del testo negoziale, il significato è chiaro: non è stata una trattativa tra pari, ma un atto di gestione della vulnerabilità.

Il dazio, pur inferiore al 30% inizialmente minacciato da Washington, viene accompagnato da una serie di vincoli non tariffari che spaziano dall’energia ai semiconduttori, dalla regolazione industriale alla Difesa.
In cambio, l’Europa si impegna a garantire flussi energetici statunitensi per almeno 750 miliardi di dollari entro tre anni, GNL, petrolio, nucleare modulare di terza generazione.
Una dipendenza calibrata, formalmente volontaria, sostanzialmente necessaria.
Il linguaggio della “cooperazione” nasconde un riequilibrio forzato. Gli Stati Uniti non mirano più a contenere la Cina tramite una salda alleanza transatlantica: oggi preferiscono frammentare e dominare, assicurandosi che le economie alleate restino agganciate alle proprie filiere strategiche.
L’Europa, incapace di offrire una reale autonomia tecnologica, ha ceduto spazio sul terreno che più contava: quello della previsione e del posizionamento.
In altre parole, ha accettato di negoziare da posizione difensiva in un ambiente già riscritto da altri.
La struttura dell’accordo parla a chi sa leggere la geopolitica dietro il commercio.
La clausola che lega la rimozione di eventuali ulteriori dazi alla “collaborazione tecnico-militare armonica” con il Pentagono segna un salto qualitativo: per la prima volta, elementi di hard power vengono inseriti in un accordo commerciale tra Occidente e Occidente.
Il segnale è inequivocabile.
Washington intende ricondizionare l’interdipendenza economica in chiave di deterrenza: una NATO commerciale sotto forma di supply chain, dove la sicurezza passa per la standardizzazione e il controllo delle interfacce tecnologiche.
Nel frattempo, la Cina consolida la sua sfera d’influenza logistica attraverso la Belt and Road 2.0, Israele riallinea le sue priorità dopo la svolta di sicurezza post-crisi di Suez, l’India tratta simultaneamente con Mosca e Washington, mentre in Africa le infrastrutture sono ormai il vero campo di battaglia tra capitale cinese, logistica americana e contractor europei.
L’Europa, in questo contesto, non detta le regole.
Le interpreta. O, peggio, le rincorre.
Non si tratta solo di economia: il cuore del problema è la ridefinizione della postura europea nel sistema globale.
È il problema della deterrenza, della proiezione, del margine negoziale residuo.
A partire dalla guerra in Ucraina, passando per il rafforzamento del pilastro orientale della NATO, fino alla crisi energetica del 2022, l’Europa ha progressivamente delegato le leve strategiche in nome della coesione interna.
Oggi quel compromesso si paga con una vulnerabilità strutturale: più dipendenza per meno influenza.
E più compliance per meno agibilità politica.
C’è un’Europa industriale, quella del Nord, che guarda all’accordo come a una compressione di margine più che a una svolta.
C’è un’Europa mediterranea che teme il dumping normativo e i colpi diretti su agroalimentare e manifattura leggera.
Ma è soprattutto la Francia strategica – quella di Bayrou, delle alte scuole militari e dei centri di riflessione eurocontinentali – a percepire in questo patto un tradimento della “sovranità strategica europea”, ormai ridotta a lessico senza effetto.
Non si esce da questa nuova configurazione senza una ridefinizione profonda degli strumenti di politica estera e difesa dell’Unione.
Il patto commerciale, in realtà, certifica un vuoto: l’assenza di una postura europea integrata capace di trattare da posizione di forza.
La Difesa resta frammentata, gli investimenti sono ancora nazionali, le leve energetiche si stanno esternalizzando.
E in un mondo in cui le regole si piegano ai rapporti di potere, ogni margine non esercitato diventa spazio ceduto.
La firma di domenica scorsa non è un errore tattico, è un indice della pressione sistemica.
È la risposta razionale di un’Europa che tenta di evitare l’implosione, ma che nel farlo accetta un ruolo subordinato nell’ordine a venire.
Un continente che, pur continuando a produrre benessere, brevetti, cultura e valori, rischia di diventare strategicamente secondario.
Un fornitore qualificato, non un costruttore di scenari.
Il vero interrogativo, dunque, non è quanto durerà questo equilibrio, ma se l’Europa saprà mai rientrare nel tavolo dove si stabiliscono le regole.
Il tempo per farlo si riduce.
Il mondo corre. E ogni accordo che vincola oggi, diventa un confine domani.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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