Elisabetta II: grande Regina di una lunga (ma dignitosa) fase di declino

Di Fabrizio Scarinci

LONDRA. Venuta a mancare dopo 70 anni di regno, la Regina Elisabetta II è stata sicuramente uno dei personaggi più iconici della nostra epoca e, senz’altro, i popoli che l’hanno avuta come sovrana (tra cui quello britannico, quello canadese, quello australiano, quello neozelandese e quelli di molti altri piccoli Stati sparsi nel mondo) ricorderanno a lungo la dedizione e la sobrietà che l’hanno sempre contraddistinta.

Capo di Stato di tipo essenzialmente formale e cerimoniale (ricordiamo che a partire dal “Bill of Rights” del 1689 i poteri dei sovrani britannici sono stati ampiamente ridimensionati), ella ha esercitato le sue prerogative con cautela, gestendo quasi sempre al meglio (o, tutt’al più con qualche errore, comunque comprensibile in un periodo così lungo) i suoi rapporti con le altre Istituzioni degli Stati parte del Commonwealth.

Un primo piano della sovrana

Grazie a tale condotta è senz’altro riuscita a risparmiarsi molte di quelle feroci critiche a cui normalmente (almeno in democrazia) vengono sottoposti i titolari effettivi dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, diventando col tempo un vero e proprio punto di riferimento per la quasi totalità dei suoi sudditi, che ha accompagnato nel corso di un’epoca piuttosto complessa e difficile da giudicare, specie per quanto riguarda la vicenda storica del Regno Unito.

Infatti, se da un lato la Gran Bretagna risulta ancora oggi uno dei Paesi più importanti e, in certo senso, “visibili” al mondo (basti pensare al grande fermento culturale che la caratterizza, al prestigio dei suoi Istituti universitari o all’importantissimo ruolo giocato dalla City di Londra in seno al panorama finanziario internazionale), dall’altro risulta anche evidente come nel giro di un secolo essa sia passata da una condizione di grandissima potenza detentrice di un Impero esteso su un quinto dell’intera superficie delle terre emerse ad una di semplice “semi-grande potenza” europea, che pur disponendo di un arsenale nucleare, di un posto nel G7 e di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sembrerebbe ben lontana dal possedere gli stessi livelli di influenza che deteneva fino alla prima metà del novecento.

L’Impero britannico nel 1921

Iniziato, se vogliamo, anche prima che la Regina Elisabetta nascesse, tale declino sembrerebbe dovuto a molteplici cause, che combinandosi tra loro avrebbero progressivamente iniziato ad erodere la “felice” posizione conseguita dal Paese nel corso dell’era moderna.

Tale posizione derivava soprattutto dal fatto che, avendo finalmente raggiunto l’obiettivo di unificare l’intero arcipelago delle isole britanniche, gli inglesi erano riusciti ad ottenere un elevato grado di stabilità interna e la possibilità di sfruttare al meglio la propria posizione insulare sia al fine di proteggersi da eventuali attacchi da parte di altre potenze europee, sia come base di partenza per la conquista di territori di altri continenti.

Tutti questi fattori avrebbero contribuito non poco a favorire lo sviluppo di quel fenomeno che noi oggi conosciamo come “Rivoluzione Industriale”, che, tra il XVIII e il XIX secolo, avrebbe reso il Paese un gigante economico senza pari.

D’altro canto, però, se qualcuno fosse arrivato ad egemonizzare l’intera Europa, che a quel tempo rappresentava la più vasta area ad elevato sviluppo umano del pianeta, presto o tardi la Gran Bretagna avrebbe rischiato di slittare in una posizione di secondo piano.

Per tale regione, in quel periodo il principale obiettivo strategico di Londra era quello di favorire il mantenimento di un adeguato livello di “balance of power” tra gli altri maggiori Stati del continente, nella speranza di evitare l’ascesa di qualche potenza egemonica che potesse sfidarla sui mari e mettere a rischio la sua indipendenza.

Fino alla seconda metà dell’ottocento, se si eccettua il periodo napoleonico (in cui Bonaparte andò effettivamente molto vicino a realizzare l’incubo di Londra), gli inglesi riuscirono pienamente a perseguire i loro intenti.

Alla fine del secolo, però, il loro schema venne progressivamente messo in crisi dalla contemporanea ascesa della potenza tedesca e di quella statunitense, con la prima che si presentava come il nuovo potenziale egemone del continente e la seconda che era addirittura arrivata a costituire essa stessa un’area dall’elevato sviluppo umano di dimensioni paragonabili a quelle dell’Europa.

Alla fine la guerra sarebbe scoppiata con la Germania, che dal 1914 al 1918 avrebbe costretto l’Impero Britannico e suoi alleati ad uno sforzo bellico di proporzioni gigantesche.

Nell’ambito del conflitto Londra poté però avvalersi del supporto di Washington, che sembrava vedere nell’eventuale egemonizzazione dell’Europa (ossia dell’altra “area core”) da parte tedesca una minaccia ben maggiore rispetto a quella costituita dalla presenza della marina britannica nei vari oceani del pianeta.

Un’immagine della battaglia navale dello Jutland, che nella primavera del 1916 vide contrapporsi la Royal Navy e la marina imperiale tedesca

Nel 1918 la guerra si chiuse con la sconfitta della Germania e dei suoi alleati, ma non senza aver mostrato come i rapporti di forza tra inglesi e americani si fossero ormai invertiti.

Negli anni successivi l’economia britannica avrebbe iniziato a scricchiolare pesantemente e, con essa, anche le fondamenta dell’Impero; non a caso, nel 1922 venne concessa l’indipendenza allo Stato Libero d’Irlanda (di cui gli inglesi avrebbero conservato solo una piccola parte) e nel 1931 sarebbe stato varato lo Statuto di Westminster, che avrebbe conferito ai Dominions di Canada, Australia, Nuova Zelanda e Unione Sudafricana un livello di autonomia talmente ampio da renderli, di fatto, Stati indipendenti dotati di Forze Armate separate da quelle di Londra e del potere di dichiarare guerra.

Il colpo di grazia sarebbe, poi, arrivato con il secondo conflitto mondiale, dove gli inglesi dovettero affrontare non solo una rinata potenza tedesca rivelatasi in grado di occupare una larghissima fetta del continente europeo, di mettere in serio pericolo l’integrità dello stesso territorio britannico e di minacciare, con l’aiuto dell’Italia fascista, il Canale di Suez (considerato da Londra come la giugulare dell’Impero), ma anche con un Giappone che sarebbe riuscito a conquistare una larga fetta delle loro colonie asiatiche.

Una sentinella della Royal Air Force scruta il cielo di Londra alla ricerca di aerei tedeschi durante la battaglia d’Inghilterra dell’estate 1940

Nonostante fosse venuto a trovarsi in questa palese condizione di “overstretching”, l’Impero, guidato in quel fatidico momento dal Premier Winston Churchill, trovò comunque la forza di battersi in modo tenace, ma ancora una volta la sua salvezza sarebbe arrivata solo grazie agli Stati Uniti, il cui intervento sarebbe risultato ancor più determinante rispetto a quello messo in atto durante il primo conflitto mondiale.

Alla fine della guerra la Gran Bretagna appariva ormai come una potenza assai ridimensionata, del tutto incapace di impedire che il devastato continente europeo (ormai periferico rispetto alla sua stessa centralità) finisse nell’orbita sovietica e priva delle risorse necessarie per la conservazione di un Impero costituito in larga parte da popolazioni di cultura non europea e sempre più vogliose di autodeterminarsi.

In tale situazione, Londra non poté far altro che accettare il ruolo di alleato minore di Washington (anch’essa preoccupata dalle intenzioni di Mosca) con cui avrebbe cercato di mantenere la “special relationship” nata in occasione del precedente conflitto.

Churchill, Roosevelt e Stalin durante la Conferenza di Yalta. In tale circostanza Churchill avrebbe definito il suo Paese come un “asinello in balia di un orso e un bisonte”

La strategia della superpotenza americana era, però, caratterizzata da una “narrativa” ancor più “liberale” di quella britannica, che annoverava tra i suoi punti cardine il concetto di autodeterminazione dei popoli.

Per tale ragione, soprattutto in un contesto come quello della Guerra fredda, in cui facilmente le rivolte di tipo anticoloniale avrebbero potuto essere strumentalizzate dalla propaganda marxista facente capo all’Unione Sovietica, risultava piuttosto improbabile che gli inglesi (così come gli altri attori europei ancora in possesso di colonie) ottenessero l’appoggio di Washington al fine di conservare i loro possedimenti oltreoceano.

E fu, quindi, così che anche l’Impero di Londra avrebbe iniziato a dissolversi, con India e Pakistan perse già nel 1947 (anno in cui, come promesso durante la guerra, sarebbero assurte al rango di reami del Commonwealth, per poi diventare due repubbliche completamente sganciate dalla corona rispettivamente nel 1950 e nel 1957) e diversi altri Paesi afro-asiatici che si sarebbero sganciati proprio durante i primi decenni del regno di Elisabetta.

Il (neanche troppo) progressivo rimpiazzo della presenza britannica nel mondo da parte degli USA (che nel secondo dopoguerra sarebbero entrati in possesso di una rete globale di basi militari che ricalcava molto fedelmente quella delle stazioni della Royal Navy dei decenni precedenti) avrebbe certamente potuto costituire un passaggio molto doloroso, ma il fatto di risultare comunque tra i vincitori del secondo conflitto mondiale, di essere riusciti ad inserirsi in un solido sistema di alleanze guidato da una potenza portatrice di valori simili ai propri e di poter ancora vantare (malgrado i durissimi anni seguiti alla fine del conflitto) di un elevatissimo livello di sviluppo economico e sociale sembrerebbe aver fatto sì che gli inglesi ingoiassero senza troppi problemi l’amaro calice del declassamento.

Tuttavia, malgrado il palese ridimensionamento delle sue potenzialità strategiche (ormai neppure lontanamente paragonabili con quelle in possesso di USA e URSS), nei decenni che seguirono la fine del secondo conflitto mondiale, oltre ad avere successo nello sviluppare il proprio arsenale nucleare, Londra sarebbe stata in grado anche di conservare un livello di capacità militari relativamente elevato.

Bombardieri britannici Avro Vulcan in volo verso la fine degli anni 50. Malgrado il suo ridimensionamento il Paese era ancora in grado di realizzare strumenti dall’elevato impatto strategico come questi

Negli anni della Guerra fredda, esse sarebbero state utilizzate sia al fine di contribuire allo sforzo statunitense finalizzato al contenimento del blocco comunista, cosa che avrebbe spinto Londra a partecipare alla Guerra di Corea e a mantenere per decenni un corposo contingente permanente in Germania Ovest, sia allo scopo di gestire in modo utile alla causa occidentale alcune delle crisi di carattere bellico derivate dal progressivo scioglimento del suo Impero e di quelli di altri Paesi europei; come avvenuto durante la cosiddetta “Emergenza malese”, nel corso del conflitto indocinese o in occasione della rivolta scatenata in Kenya dai Mau Mau.

Particolare eco avrebbero, poi, avuto le azioni condotte insieme a Francia e Israele nei confronti dell’Egitto durante la cosiddetta Crisi di Suez (da cui sarebbe, però, scaturita una gravissima crisi diplomatica con gli USA, che avrebbero colto la palla al balzo al fine di chiarire a Londra e Parigi il fatto di essere ormai slittate in una posizione di secondo piano) e quelle della Guerra delle Falklands (o, secondo gli argentini, Malvinas), in cui le Forze Armate di Sua Maestà sarebbero riuscite a dimostrare di avere ancora la capacità di difendere gli interessi del Paese a grande distanza dal territorio nazionale (anche se, a scanso di “equivoci”, due anni dopo si sarebbe comunque deciso di concordare con la Cina la restituzione di Hong Kong).

La portaerei HMS Hermes la fregata HMS Broadsword riprese durante la guerra delle Falklands del 1982

Lo strumento militare britannico sarebbe stato largamente utilizzato nell’ambito di operazioni militari a guida statunitense anche in seguito al crollo del muro di Berlino, generalmente allo scopo di mantenere il ruolo di partner privilegiato della superpotenza americana.

Ricordiamo, a tal proposito, la partecipazione di Londra all’Operazione Desert Storm, posta in essere al fine di liberare il Kuwait occupato delle forze dell’Iraq di Saddam Hussein, alle altre azioni condotte dall’Amministrazione Clinton contro l’Iraq nel corso degli anni 90, alle varie operazioni poste in essere della NATO nei Balcani nel corso degli stessi anni (dove, peraltro, sarebbe riuscita a svolgere, almeno sul piano diplomatico, un ruolo da vera protagonista), all’Operazione Enduring Freedom, condotta al fine di rispondere agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001, a Iraqi Freedom, lanciata dall’Amministrazione di George W. Bush al fine di eliminare una vota per tutte il regime di Saddam, all’iniziativa della NATO contro il regime libico di Muammar Gheddafi (di cui, a dire il vero, il principale promotore sarebbe stato il governo di Parigi) e le varie azioni multilaterali condotte nei confronti dell’ISIS a partire dal 2014.

Anche nell’ambito dell’attuale conflitto ucraino Londra starebbe facendo moltissimo al fine di dar seguito alla linea tenuta dall’Occidente, con l’invio a Kiev un quantitativo di armi che, secondo alcuni analisti, sarebbe al momento addirittura superiore a quello fornitole dall’intera Unione Europea.

Ciononostante, risulta assai probabile che, nel corso degli ultimi decenni, l’elemento che impreziosisse maggiormente Londra agli occhi di Washington fosse la sua capacità di incidere sul processo di integrazione europea secondo i desiderata statunitensi.

Questa capacità, acquisita grazie all’ingresso britannico nella CEE (avvenuto nel 1973), sarebbe però stata persa in seguito alla Brexit del 2016, che avrebbe spinto gli ultimi governi di Sua Maestà ad elaborare il concetto strategico di “Global Britain”, con cui intenderebbero rilanciare il Commonwealth e, soprattutto, ricercare una collaborazione strategica ancor più approfondita con l’alleato d’oltreoceano, che sembrerebbero disposti a supportare con molte più risorse praticamente in ogni teatro del globo.

Le due nuove portaerei classe Queen Elizabeth. Benché progettate in tempi “non sospetti” oggi sembrerebbero rappresentare il simbolo del nuovo concetto strategico improntato alla “Global Britain”

Ma il brand “Global Britain” (perché al momento non sarebbe molto più di questo) dovrebbe servire anche a rinsaldare le fondamenta stesse della società del Regno Unito, che, oltre ad affrontare tutti i problemi derivanti dalla mancata (o, quantomeno, non piena) integrazione di alcuni gruppi di cittadini di origine non europea (basti pensare a quanto le varie organizzazioni terroristiche di matrice islamista abbiano fatto proseliti all’interno delle comunità pachistane, bengalesi e mediorientali presenti nel Paese), deve anche fare i conti con il fatto di non essere una nazione in piena regola, bensì un sorta di impero in formato ridotto composto da quattro nazioni, ovvero quella inglese, quella scozzese, quella gallese e quella (nord) irlandese.

Per almeno tre secoli, il grosso delle tensioni che inevitabilmente scaturiscono in circostanze simili sembrerebbero essere state placate dall’azione comune volta alla creazione e al mantenimento dell’Impero coloniale, ma ora che questo è scomparso, il mai sopito sentimento identitario di queste popolazioni, dimostrato dagli avvenimenti degli ultimi decenni in Irlanda del Nord e dal costante successo dei partiti secessionisti scozzesi (che nel 2014 sono anche riusciti ad ottenere un referendum sull’indipendenza, che fortunatamente per Londra sarebbe stata poi bocciata) potrebbe, nel medio termine, anche arrivare a dividere il Regno, ridimensionando il controllo della “predominante” nazione inglese sulle isole britanniche.

Come specificato in aperura, dal 1952 al 2022 Elisabetta II ha accompagnato i suoi sudditi con estrema dignità lungo questo percorso, in cui, almeno finora, pur declinando, il Paese sembrerebbe comunque essere riuscito a rimanere in piedi e a restare un esempio positivo in moltissimi ambiti.

Alle prossime evoluzioni di questo processo assisterà invece suo figlio Carlo, a cui, inevitabilmente, spetterà anche il compito di cercare di proseguire l’operato della madre, che, tra le altre cose, sembrerebbe essere riuscita a conservare, anche a dispetto di quanto possa apparire anacronistico al giorno d’oggi, il profondo legame affettivo che lega la stragrande maggioranza del popolo britannico (in questo caso senza distinzioni di appartenenza territoriale) alla sua monarchia, con non pochi benefici anche per la stabilità politica del Paese.

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