Energia, questione geostrategica ed economica

Di Giuseppe Gagliano*

Il tema della sicurezza energetica appartiene ai dibattiti strategici ormai da qualche anno. La questione non è solo economica, ma riguarda anche la difesa, con la necessità di passare dalla questione della sicurezza energetica a quella degli approvvigionamenti per estendere l’analisi alla sicurezza dei flussi. È in questo contesto che si inseriscono le cosiddette “guerre del petrolio”, come possono a ragione essere considerate le due guerre del Golfo, la guerra in Afghanistan o la guerra in Libia. Se però il fattore petrolifero è stato sicuramente uno dei fattori determinanti di questi conflitti, le loro profonde motivazioni sono invece da ricercare negli equilibri geopolitici.

Affiancandosi alle complesse questioni riguardanti il cosiddetto oro nero, in questo scorcio di XXI secolo, la questione del gas è diventata preminente e sta assumendo sempre più importanza rispetto a quella del petrolio nei discorsi degli analisti. Ciò è dovuto a vari fattori: se non si può negare l’interesse generato dalle previsioni sul picco petrolifero, è altrettanto vero che la crescita esponenziale della domanda di energia, soprattutto da parte delle economie emergenti, e la parallela difficoltà tecnica di estrazione dai nuovi giacimenti scoperti rendono indispensabile trovare soluzioni alternative.

È in quest’ottica che si assiste sempre più a una pianificazione, da parte dei vari Paesi, del proprio approvvigionamento energetico, da cui dipende la stessa sicurezza energetica: cercando di ridurre i consumi e di migliorare le infrastrutture per una minore dispersione, diversificando le fonti di importazione, sviluppando le fonti di energia rinnovabile e controllando le principali risorse nazionali .

La sicurezza degli approvvigionamenti però, con il suo peso economico non indifferente, non riguarda solo le fonti di energia, ma anche le materie prime come i prodotti agricoli, i minerali o le cosiddette “terre rare”. Queste ultime, in particolare, sono un esempio di come una questione apparentemente solo economica si sposti in realtà molto facilmente su un piano geopolitico: la Cina ne detiene, infatti, più del 90% della produzione e sfrutta questo monopolio per i propri interessi, per esempio ai danni del Giappone verso cui gravano restrizioni all’esportazione a causa delle controversie territoriali che lo contrappongono alla potenza cinese. Infine, nuove tensioni sorgono anche a proposito di beni considerati abbondanti: si tratta delle terre coltivabili, cui è collegato il fenomeno del land grabbing, e di risorse chiamate “beni comuni”, come l’acqua che già alimenta tensioni più o meno latenti, l’aria e la “possibilità” di inquinarla (si vedano i crediti di emissione stabiliti dal Protocollo di Kyoto), la biodiversità, il patrimonio genetico ed altro ancora. .

A fronte dello scenario appena descritto, si pone dunque la necessità per i vari Paesi di assicurarsi l’accesso e l’approvvigionamento delle diverse risorse. Infatti, parallelamente a una scarsità crescente di queste ultime causata anche dalla pressione demografica che non accenna a diminuire, si ha un aumento dei flussi di scambio di ogni genere, materiali e immateriali, di beni e persone o di informazioni e denaro, dovuto alla globalizzazione. È sulla sicurezza dei flussi, soprattutto quelli materiali, che si gioca la sicurezza degli approvvigionamenti, con tutte le implicazioni economiche e militari del caso.

Dal punto di vista economico, si tratta di assicurare la proprietà delle infrastrutture e il controllo tecnico dello sfruttamento della risorsa, di scegliere adeguatamente gli strumenti di trasporto (come nel caso degli oleodotti da privilegiare per il rifornimento europeo) e, infine, di controllare adeguatamente i punti di accesso, come i porti.

Dal punto di vista militare, la sicurezza dipende dalla capacità di dispiegamento delle proprie forze terrestri sia nelle zone di produzione sia in quelle di esportazione, ma anche dalla copertura dei flussi marittimi e dalla capacità di intervento sugli stessi (per esempio, la protezione delle rotte nel Golfo di Aden da parte delle operazioni Atalanta, dell’UE, e Ocean Shield, della NATO).

Per quanto concerne il tema delle “terre rare”, chiamate più propriamente “metalli critici”, va considerato che sono attualmente il problema geoeconomico più stringente. Si tratta di diciassette elementi indispensabili per le industrie di alta tecnologia, che non possono farne a meno nonostante le quantità utilizzate siano bassissime. Per esempio, il lantanio si può trovare nelle batterie delle vetture elettriche e nei sonar, il samario negli elementi dei missili, il gallio negli apparecchi di visione notturna, l’indio negli schermi piatti ed altro ancora.

Queste materie prime, oltre a catalizzare tutta una serie di altre complesse questioni geopolitiche ed economiche, sono anche un elemento di contrasto fra Cina e Stati Uniti, i due principali attori delle relazioni internazionali del XXI secolo. Le cifre sono tutte a favore del gigante asiatico: oggi la Cina deterrebbe fra il 34 e il 50% delle riserve mondiali e produceva nel 2010 il 95% delle terre rare disponibili, cioè 130.000 tonnellate su 133.000 totali.

Questa posizione quasi monopolistica, guadagnata grazie al progressivo abbandono dello sfruttamento dei giacimenti occidentali nel momento in cui la Cina è stata integrata progressivamente nell’economia mondiale, è ovviamente sfruttata al massimo dal regime di Pechino, che infatti è ormai in grado di usare una leva di potenza considerevole, una capacità di imporre la propria volontà alle economie occidentali imponendo prezzi esorbitanti o, peggio ancora, spezzando la loro catena di approvvigionamento. Non vi è dubbio che esista perciò una dipendenza; resta da sapere se sia possibile, e come, eliminarla o almeno ridurla.

È la Cina stessa, però, a vedere a sua volta messa in gioco la propria sopravvivenza, poiché, secondo alcune stime, dovrebbe diventare essa stessa importatrice di terre rare alla fine del decennio; il che non esclude tuttavia la possibilità di vedere il colosso asiatico avanzare la propria legittimità per vincere un braccio di ferro diplomatico.

Fra il 2006 e il 2010 la Cina ha ridotto le proprie quote di esportazione di terre rare dal 5% al 10% all’anno e anche la produzione è stata limitata, sempre per timore che le riserve si esaurissero. È stata però la crisi diplomatica sino-nipponica del settembre 2010, nata dall’ispezione di un peschereccio cinese da parte dei giapponesi in acque contestate, ad aggravare la situazione, inducendo il Ministero cinese del Commercio ad abbassare ulteriormente le quote di esportazione del 30%.

La Cina stava tentando di usare le terre rare come arma di guerra economica, sotto forma di un vero e proprio embargo sulle proprie esportazioni verso l’Unione Europea, il Giappone (che rappresenta d’altronde un quinto della domanda) e degli Stati Uniti. La diplomazia di questi ultimi si è dunque mossa per richiedere un chiarimento ai propri omologhi asiatici, ottenendone un’assicurazione di affidabilità per il futuro. Quest’episodio diplomatico, oltre a ricordare che la relazione sino-americana è oggi un asse centrale degli affari internazionali, testimonia una precisa preoccupazione strategica da parte degli Stati Uniti.

Attualmente, gli USA importano l’87% delle terre rare che importano quasi esclusivamente dalla Cina, mentre il resto del fabbisogno proviene da riserve interne. A questo proposito, considerare le opinioni degli analisti esterni all’amministrazione, anche divergenti, si rivela particolarmente istruttivo. Nel settembre 2009 John Lee, ricercatore all’Hudson Institute, aveva sottolineato l’impossibilità di considerare la Cina come un partner commerciale affidabile mentre Paul Krugman, nel settembre 2010, è stato ancora più duro, accusando Pechino di voler scatenare una guerra economica alla minima provocazione. Al contrario Elisabeth Economy, analista del Council on Foreign Relations, tentava di relativizzare la minaccia e considerare il fatto che il Paese asiatico cercherebbe innanzitutto di garantire il proprio approvvigionamento per il futuro.

La sfida posta dall’embargo cinese alle esportazioni di terre rare ha messo gli Stati Uniti di fronte alla necessità di sviluppare una visione strategica in questo campo, fino a quel momento inesistente vista la situazione di dipendenza che si era venuta a creare. Era perciò necessario attuare politiche che incentivassero l’estrazione, la raffinazione e la trasformazione di questo tipo particolare di materie prime direttamente sul suolo americano, incoraggiando peraltro l’emergere di fonti di approvvigionamento alternative e più ecologiche (vista la notoria assenza di regolamentazione ambientale in Cina). Questo tipo di discorso spingeva perciò nel senso di una maggiore autonomia e differenziazione dei partner commerciali nel settore.

Riaprire le miniere americane per l’estrazione delle terre rare, però, presentava e presenta tuttora alcune difficoltà, di natura sia amministrativa (sono stati a volte necessari nove anni per ottenere l’autorizzazione di riapertura di una miniera) sia politica (le organizzazioni ambientaliste possono contrastare le imprese che desiderano sviluppare un simile progetto).

Il congresso si è allora impadronito della questione: diversi parlamentari di entrambi gli schieramenti hanno presentato, nel corso del 2010, progetti di legge che si occupavano della materia in questione. Di questi, il progetto della senatrice repubblicana Lisa Murkowsi, sostenuto da altri diciassette senatori di cui otto democratici, è stato approvato nel giugno del 2010 e dovrebbe diventare operativo entro l’estate del 2011: esso prevede un coordinamento dei diversi livelli dell’amministrazione federale per la creazione di una politica specifica di approvvigionamento per ognuno dei minerali critici necessari alla sicurezza militare e alla vitalità economica degli Stati Uniti. Tuttavia, l’insufficienza delle riserve americane induce anche a superare la ricerca di autonomia assoluta. Coscienti di questi limiti, gli Stati Uniti si rivolgono soprattutto al Giappone, all’Australia e al Canada.

La vicenda di Molycorp illustra come un’impresa americana è stata in grado di assicurare per sé, e così anche per gli Stati Uniti, l’approvvigionamento di terre rare. Proprietaria della miniera di Mountain Pass, il più grande giacimento di terre rare non cinese al mondo, Molycorp ha ottenuto nel dicembre 2010, cioè qualche mese dopo lo scontro diplomatico con la Cina, l’autorizzazione a rilanciare questo complesso. I lavori sono stati completati alla fine del 2012 e l’azienda è passata da una produzione di 3.000 tonnellate all’anno a 20.000 e ha ricevuto ben 531 milioni di dollari di investimenti. Oggi è il solo produttore statunitense di terre rare indipendente dalle esportazioni cinesi; di seguito si riportano le varie tappe di sviluppo del progetto che ha portato Molycorp ad assumere questa posizione.

Nel giugno 2010 è stato firmato un contratto fra Molycorp e la società canadese NeoMaterial, che fornisce assistenza tecnica e know-how in materia di produzione di terre rare. Nel dicembre 2010 l’azienda ha stretto una joint venture con la giapponese Hitachi, che mirava a fondare una serie di imprese associate per produrre leghe di terre rare e magneti negli Stati Uniti. Nello stesso mese un protocollo d’intesa fra Molycorp e Sumitomo Corporation ha permesso alla prima di portare a termine la sua catena di approvvigionamento e di fabbricazione di prodotti derivati di terre rare, in cambio della fornitura di questi ultimi alla seconda.

Nell’aprile 2011 Molycorp ha acquisito la filiale americana dell’impresa giapponese Santoku per 17,5 milioni di dollari e, per 89 milioni di dollari, l’impresa estone Silmet, produttore europeo di terre rare, ottenendo in questo modo una rete di clienti estesa all’Estremo Oriente e all’Europa. Molycorp si è dunque assicurata un finanziamento, le miniere, il knowhow, una cooperazione logistica e una rete di acquirenti, grazie ad aziende di Paesi che sono partner tradizionali degli Stati Uniti. In definitiva, Molycorp è riuscita, in meno di un anno, a diventare l’unica impresa occidentale a controllare l’intero ciclo di produzione delle terre rare, dalla miniera ai magneti fino alla vendita. Così, nel giro di qualche mese gli Stati Uniti hanno potuto tirare un sospiro di sollievo ed evitare uno scontro diretto con il regime di Pechino, rispondendo alla minaccia dell’embargo o dell’impennata dei prezzi.

Ovviamente l’esclusione della Cina dal mercato delle terre rare non sarà mai assoluta; la vicenda del 2010 ha tuttavia evidenziato come sia necessario ridimensionare il potere del regime di Pechino: minacciando di chiudere il rubinetto nel settembre 2010 ha di fatto incentivato la penetrazione di nuovi concorrenti sul mercato e dunque esortato l’Occidente a trovare nuove fonti di approvvigionamento, il che ha avuto come impatto di aumentare l’offerta e diminuire il potere cinese iniziale.

*Presidente Cestudec (Centro Studi Strategici Carlo de Cristoforis)

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