Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Il 1° giugno scorso la nave “Madleen”, battente bandiera della Freedom Flotilla Coalition, ha lasciato il porto di Catania con destinazione Gaza.

A bordo, tra proclami umanitari e bandiere della resistenza, vi era anche Zaher Birawi, cittadino britannico-palestinese, giornalista, attivista, fondatore della coalizione e figura controversa, riconosciuta dal Regno Unito come legata ad Hamas.

La sua presenza – insieme ad altri militanti di chiara appartenenza ideologica – solleva dubbi legittimi sulla reale natura della missione.
L’episodio della Madleen non è isolato, ma parte di un paradigma emergente che si inserisce nella cosiddetta nuova guerra ibrida contro le democrazie.
Come delineato in recenti analisi sulla strategia geopolitica contemporanea, stiamo assistendo a un progressivo spostamento della conflittualità verso il piano narrativo.
Non più (o non solo) scontri militari, ma campagne di delegittimazione, manipolazione semantica e uso strumentale dei diritti umani.
Gli attori non statuali – ONG ideologizzate, fondazioni “umanitarie”, attivisti radicali – si pongono come veicoli di messaggi ostili, pur camuffati da iniziative civili.
Nel caso specifico, la Freedom Flotilla si presenta come una missione di aiuto alla popolazione palestinese, ma nei fatti assume i contorni di una operazione di propaganda politica.
L’attività di Zaher Birawi tramite l’EuroPal Forum ne è un esempio emblematico: la costruzione di una rete filo-palestinese in Europa, incentrata sulla delegittimazione dello Stato d’Israele, si fonde con istanze radicali globali – dalla giustizia climatica all’antimperialismo – in un fronte trasversale che supera il Medio Oriente per colpire simbolicamente l’intero “Occidente oppressore”.
L’intersectional propaganda, come viene definita, unisce istanze diverse sotto un’unica bandiera: quella della resistenza contro un presunto ordine globale ingiusto.
E in questo schema, Hamas e Hezbollah non sono più percepiti (in certi ambienti) come organizzazioni terroristiche, ma come “attori della liberazione”.
La presenza a bordo della Madleen di Thiago Ávila – attivista noto per le sue simpatie verso Hezbollah – rafforza questa percezione.

Non si tratta di ingenuità pacifiste, ma di militanza consapevole, spesso in contatto diretto o indiretto con gruppi radicali.
Il gesto degli attivisti di lanciare in mare i dispositivi elettronici prima di salpare è un chiaro segnale operativo: non si tratta solo di solidarietà, ma di strategie da zona grigia, dove si evitano intercettazioni, si cancellano prove, si protegge la costruzione di un racconto.
Una narrazione calibrata per i social, per l’opinione pubblica occidentale, per sfruttare le contraddizioni interne delle democrazie.
E l’Italia? È parte integrante di questo scacchiere.
Crocevia geopolitico del Mediterraneo, vulnerabile proprio perché garante di libertà civili, si trova oggi davanti a una sfida complessa: difendere i propri valori democratici senza cadere vittima del loro abuso.
La penetrazione di gruppi radicali nei movimenti civici – con linguaggi sempre più “mimetici” – rischia di minare la fiducia pubblica, creare fratture sociali e offrire sponde ideologiche a potenze ostili.
Serve un salto di qualità nell’intelligence civile e giudiziaria, capace di distinguere tra genuino attivismo umanitario e operazioni mascherate.
Serve un coordinamento europeo per monitorare le reti transnazionali che agiscono sotto copertura ideologica.
Ma serve soprattutto una consapevolezza culturale: capire che la libertà di parola e di protesta non può essere trasformata in scudo per chi vuole distruggere le fondamenta stesse della democrazia.
La Madleen non è solo una nave.
È un simbolo galleggiante di una sfida più ampia, che si gioca oggi più sulle parole che sulle armi.
E in questa sfida, la capacità dell’Occidente di proteggere la verità senza censurare il dissenso sarà la chiave per resistere – e vincere – la nuova guerra narrativa.
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