Europa, destinazione Asia: il caos precostituito per un punto di non ritorno

Di Vincenzo Santo*

PORDENONE. È il caos. Riprendendo Josè Ortega y Gasset, noi non sappiamo cosa stia accadendo ed è proprio ciò che ci sta accadendo. Giorni fa, la Harris, vice di Biden, quella che ride sempre, ha ribadito che gli USA “… si opporranno a ogni cambiamento unilaterale dello status quo di Taiwan … continueranno a sostenere l’autodifesa di Taiwan …” e, inoltre, che le attività militari cinesi intorno all’isola sono “… inquietanti e minano l’ordine internazionale basato sulle regole …”. Ecco, le regole. Ma sono proprie queste “regole” che tanto Pechino quanto Mosca vogliono rivedere in una realtà che non è più bipolare né unipolare, ma pericolosamente multipolare. Pericolosamente per l’egemonia americana che vede quella sua utopia della Liberal Hegemony ormai traballare.

Le regole vanno riconosciute da tutti in un sistema internazionale, e quando iniziano ad andare strette a qualcuno che vuole diventare o è già divenuto uno che conta è un problema. La loro accettazione si basa sulla convenienza, oppure le si accetta perché non si può fare altro. Il rivederle è un problema per chi se n’è finora avvantaggiato, ma è risolvibile in due soli modi: rimettendosi attorno a un tavolo oppure lavorando ai fianchi, minando le basi al proprio avversario, mettendolo in trappola e accettando persino che questi possa scegliere di portare la discussione sul campo di battaglia. Non ci sono alternative.

La Vice-Presidente degli Stati Uniti Kamala Harris

Far finta di nulla e continuare sul medesimo refrain è solo perdere tempo. Alle affermazioni della Harris è chiaro che Pechino non può che ribattere affermando che Washington deve tornare ad “… aderire alla politica dell’unica Cina e chiarire in modo inequivocabile che si oppongono a tutte le attività separatiste di Taiwan …” e il fatto che la lei l’ha fatto da Seul fa innervosire i cinesi, in prossimità di un rinnovo, che io credo certo, di Xi, in barba alle regole post Mao fissate da Deng Xiaoping. Si tratta, comunque, di messaggi chiari che non possono né devono passare inosservati. Come invece del tutto “vacui” sono ormai quelli rilasciati da qualsiasi leader europeo e nazionale, attuale o nuovo che sia. Li possiamo mandare al macero dell’inutile cronaca mondana, anche per il fatto che per la maggior parte riecheggiano quanto ci arriva da oltreoceano. Incluse le dichiarazioni del solito tardo pomeriggio da parte del Segretario della NATO. Chi mi segue sa perfettamente che cosa io abbia sempre scritto e pensato su Stoltenberg, il comodo portavoce europeo di Washington. Il Generale Tricarico deve aver letto il mio pensiero su di lui date le sue affermazioni rilasciate al Messaggero questa scorsa domenica.

L’Unione Europea è in subbuglio. Non riesce a mettersi d’accordo in tempi ragionevoli su cosa fare dinanzi ai costi energetici e gli eventi costringono i suoi governanti a frettolose rincorse. Un’indecisione che tutto sommato tradisce la pur ammirevole determinazione dimostrata durante la pandemia. In questo quadro, la lettura dei danneggiamenti delle due pipeline Nord Stream può condurre a conclusioni opposte che potrebbero ciascuna avvalorare nella stessa misura un interesse per Mosca, nell’aumentare la pressione sui paesi energivori oppure per ragioni volte a aggirare questioni legali per mancato rispetto dei contratti. Ma anche per Washington, incluso, in questo caso, il voler indurre Mosca a mettere in atto ritorsioni su “altre condutture” e quindi innescare un coinvolgimento occidentale più marcato invocando l’articolo 5. Ma non è successo.

Ma è un gioco che ancora per un po’ non riusciremo a comprendere. Quindi, ognuno la pensi come più gli piace. Purtroppo, la questione centrale che credo oggi sia molto rilevante sottolineare è la mancanza di una guida europea. Una nuova Signora Merkel, insomma. Ed è un dato oggettivo secondo me che tutto questo bailamme sull’Ucraina sia venuto fuori proprio con la sua uscita di scena. “Anghela”, come la chiamava Renzi, dandosi delle arie, poche volte è intervenuta in questi mesi. Ma giorni fa l’ha fatto e ha spiegato che prendere sul serio le minacce nucleari di Putin non è un segno di debolezza ma di “saggezza” politica. Ha richiamato quel Kohl, altro gigante della politica, per il quale, come ho scritto su altre pagine, è importante “capire” gli altri e a guardare più lontano senza perdere di vista il giorno dopo.

Ecco, l’attuale leadership europea ha mancato nel vedere “l’insieme del problema ucraino”, fermandosi al presente e trascurando pericolosamente di metterlo in sistema con il passato e il futuro per cercare, proprio al presente, una via d’uscita. Gli europei, nessuno escluso, ma anche Draghi, sono corsi all’impazzata per tentare di star dietro ai fatti, questi ancora più veloci, sul terreno, confondendo tattica e strategia in un tutt’uno e muovendo passi, io credo mai a denominazione di origine protetta o controllata, a seguito degli eventi sul terreno.

Siamo quindi giunti a un punto di non ritorno? Mosca ha annesso regioni non ancora tutte controllate dai russi stessi: Donetsk, Luhansk, Kherson e Zaporizhzhia. Saranno pezzi “nuovi” di una “vecchia Patria”, quella “Madre Russia” di un bel tempo “ritornato”, l’impero. Avrà gli stessi ritorni propagandistici ed entusiastici del 2014 o della guerra patriottica contro i nazisti? Vedremo. Comunque, significa che quelle aree, essendo ora territorio russo, devono e possono essere difese con tutto ciò che si ha a disposizione, anche l’impiego di armi di distruzione di massa, e non è detto che debbano essere solo nucleari, esistono anche le chimiche.

Inoltre, il fatto che siano russe apre la strada all’impiego delle unità del ministero dell’interno, quelle che hanno vinto le altre guerre di Putin in Cecenia e Daghestan. Anche se esistono rapporti che ne testimoniano l’impiego già dai primi giorni dell’attacco. L’operazione militare speciale è di fatto terminata e la parola “guerra” è entrata nella realtà russa con la mobilitazione, parziale o no che sia.

Militare russo su un mezzo blindato dell’esercito di Mosca

Noi, da questa parte del mondo dei “giusti”, possiamo continuare a raccontarci che il referendum organizzato non è legale, che i numeri sono farlocchi e che non ne riconosceremo mai i risultati. Va benissimo, ma la domanda è: quindi? Che cosa può interessare a un Putin tutto questo? Di certo, l’attacco al ponte di Kerch alzerà il livello dello scontro. E abbiamo già visto l’inevitabile reazione rabbiosa di Mosca.

Dal 25 febbraio, non da ieri, che si paventa il nucleare. Non lo si può prevedere. Tuttavia, se mettiamo insieme tutto ciò che ci è stato e ci viene tuttora comunicato, dal fallimento delle operazioni iniziali alle ritirate disastrose sino alla defenestrazione ripetuta di comandanti e ministri o di personaggi dell’intelligence, ci sarebbe da chiederci perché non l’abbia ancora compiuto questo temibile passo.

A proposito di defenestrazione, una pratica a quanto pare comune dalle parti del Cremlino, magari svegliandoci una delle prossime mattine, scopriremo che anche a Putin sia capitata la medesima sorte. Ma potrebbe capitare anche a Zelenski. Impossibile prevederlo, seppure le voci di dissenso nel circolo del presidente russo, per come ci vengono propagandate, lo darebbero in vantaggio per questa sorte. Tutto può accadere, ma quanto probabile?

E su questo, da sempre ammiro tutti coloro che invece sembrano sapere tutto, sotto l’aspetto economico, del consenso, delle manovre militari e persino di come stia andando la parziale mobilitazione e di quanta gente stia fuggendo per non combattere, persino i due in barca scappati in Svezia mi pare. Chissà, mi chiedo, cosa accadrebbe da queste nostre parti se ci si dovesse mobilitare. In guerra la gente muore, civili e militari, i ponti crollano e le case anche. Da sempre. Trovo veramente ridicolo che si senta il desiderio di raccontare la guerra, che da sempre si basa su tracciati politico-strategici “invisibili” ai più, come se si trattasse di una cronaca di una partita di calcio.

L’occidente, nell’insieme, è più potente della Russia, ma dirselo non basta. È banale l’affermazione per cui se Putin minaccia di avvalersi dell’arma nucleare lo faccia solo perché si senta alle strette. La domanda ritorna: quindi? Noi occidentali viviamo, oscillando tra speranza e terrore, nella convinzione che tutto vada male per Putin, senza pensare minimamente, ma lo comprendo, che proprio nell’andare tutto male sta il problema e il pericolo più grande, per tutti noi. Perché il campo di battaglia è proprio l’Europa. Ed è proprio in questo il significato del “PUNTO DI NON RITORNO”. Ci siamo già? Forse, ma purtroppo ci si trova nelle condizioni di non sapere più che cosa augurarsi per il meglio.

Perché noi guardiamo, o ci fanno guardare, solo su questo limes europeo.

In realtà, è dall’altra parte del mondo che la conflittualità più “drammatica” cova sotto la cenere. Stati Uniti e Cina fanno a gara per chi aggancia più favori in quei mari. Lo stretto di Taiwan è al centro di questo braciere e le vendite di armamenti da parte di Washington irritano Pechino così come le avventate promesse di Biden che Taiwan verrebbe aiutata ove i cinesi tentassero di invaderla. Ma gli USA interverrebbero veramente in difesa di Taiwan? È un’ipotesi da prendere sul serio o data la nuova realtà strategica dei contendenti è solo una vuota promessa?

Ecco, la Cina è molto vicina a divenire la potenza dominante nel Mar Cinese Meridionale e gli USA lo sanno. Solo che non lo possono ammettere ovviamente per non spaventare gli amici. Lo devono nascondere ma lavorare sodo per recuperare influenza convincente. Le capacità che Pechino ha sviluppato, infatti, sembrano notevoli, unitamente alle “basi di appoggio” realizzate con la costruzione di isole artificiali. Già l’allora comandante del Comando Indo-Pacifico, Phil Davidson, nel 2018 aveva dichiarato che la Cina era in grado di controllare il Mar Cinese Meridionale in tutti gli scenari a meno di una guerra con gli Stati Uniti. Era il 2018, ripeto, ora la situazione è ancora più critica. Insomma, nelle fasi iniziali di un conflitto, pur contro le forze americane, Pechino prenderebbe il controllo di quel mare. Almeno per il tempo necessario per prendersi Taipei con “un colpo di mano operativo”.

Navi da guerra cinesi in esercitazione (AP Photo) CHINA OUT

Sempre che la Cina ricerchi il conflitto. Ne ha davvero bisogno? In realtà, forse, con quelle componenti che sono la sua guardia costiera e quella strana “forza marittima”, costituita da un’enorme flotta di pescherecci, una vera e propria forza paramilitare, sarebbe in grado di impedire a mano a mano l’accesso in quelle acque ai suoi vicini, nelle loro acque territoriali, riconosciute tali a livello internazionale, ma che Pechino reclama sue. Non basterebbe questo stillicidio di azioni violente a sminuire la funzione americana di garante della sicurezza regionale? In realtà, come alcuni correttamente osservano, la “presenza avanzata” degli Stati Uniti, cioè la strategia di avere costantemente forze schierate all’estero per rassicurare gli alleati e scoraggiare i nemici, si basa proprio sull’accesso fornito dai loro partner nella regione. Se ne riconoscono il vantaggio.

Ora, infatti, un partner potrebbe chiedersi cosa riceva in cambio da Washington per quell’accesso, visto che, nei fatti, viene ripetutamente escluso dal libero accesso alle proprie acque territoriali dalle azioni cinesi. Pertanto, più si va avanti in questo modo e più il legame di amicizia con gli Stati Uniti non sembra avere un tornaconto favorevole. Ma lasciare definitivamente spazio a Pechino significherebbe consentire il libero sfruttamento delle risorse marine in termini di idrocarburi e pesca, a favore delle compagnie energetiche cinesi e con l’impoverimento del commercio ittico da parte dei vicini. Costringendo questi a stipulare qualsiasi accordo con Pechino. Strategicamente, Washington, di contro, perderebbe qualsiasi posizione di vantaggio nei confronti di un pericoloso avversario, in ascesa.

Ma Taiwan è cinese e Xi la vuole prendere. Quindi, l’approccio seppur aggressivo finora messo in campo, una volta che lui verrà tra pochi giorni confermato, potrebbe mutare. Ed è questo che gli americani temono. E ci hanno lavorato per tempo. Intanto spingendo Mosca in una sanguinosa avventura per renderla “inutilizzabile” da Pechino in caso di conflitto. Mosca deve essere messa in ginocchio, occorre sfiancarla. Il regime al potere deve collassare. Certo che una strategia, pur pensata bene e messa in campo per tempo deve poi anche funzionare.

Tuttavia, come anticipato, sotto l’aspetto strettamente della postura militare Pechino è in vantaggio. Almeno “localmente”. Le forze americane sono troppo lontane dall’area. Gli aerei da combattimento statunitensi più vicini hanno sede a Okinawa e Guam, rispettivamente a 1300 e 1500 miglia nautiche dalle Spratly, dove i cinesi hanno creato dal niente proprie basi “aeronavali”, e non solo. Un’area che Pechino ha di fatto “armato” e “blindato”, grazie alla quale godrebbe di un deciso controllo dello spazio aereo nelle prime fasi di qualsiasi conflitto, trasformando quelle acque, grazie agli schieramenti delle batterie antinave, in una vera “killing zone”. Una cruda realtà per la flotta statunitense. Neutralizzare inoltre gli assetti cinesi, in termini di forze e installazioni, richiederebbe per gli USA una difficile concentrazione di forze in un tempo utile difficilmente realizzabile e un non indifferente e costosissimo impiego di ogni tipo di armamenti e munizionamento. E Taiwan, se non riuscisse a resistere per alcune settimane, verrebbe persa.

Mappa di Taiwan

Forse in Europa siamo al già a un punto di non ritorno, come accaduto durante la Seconda guerra mondiale quando, sia per la Germania che per il Giappone, venne decisa la “pace senza condizioni”. Quali condizioni infatti potrebbero accettare i due contendenti che non potessero essere pattuite prima di far morire tanta gente e provocare tante distruzioni? Io non ne vedo più. A meno di rinnegare, da parte di Putin e Zelenski, tutti i propri convincimenti iniziali. Tanto la gente dimentica. Oppure, come detto, far cadere da una finestra uno dei due. Putin è stato additato da tantissimi esponenti politici e governanti come criminale e persino meritevole di essere perseguito dal Tribunale Penale Internazionale. Il che equivale ad aver emesso il proponimento di una resa senza condizioni. La storia riecheggia.

Nel Pacifico, per gli americani, Filippine e Vietnam costituiscono “assetti geostrategici” irrinunciabili. La svolta strategica per Washington, infatti, sarebbe soltanto nello schierarvi cospicue forze per far pendere la bilancia dei rapporti di potenza dalla propria parte e mettere sotto scacco la predominanza locale cinese. È quindi in corso, all’ombra del conflitto in Ucraina, proprio un’incessante partita a scacchi, per ora di carattere diplomatico. Per ora.

Perché, secondo me, la guerra in Ucraina è un falso scopo, il caos precostituito per raggiungervi il punto di non ritorno per qualsiasi negoziazione. Noi europei ci siamo finora mobilitati su tutto meno che sull’aspetto militare contro Mosca. Forse qui non servirà, ma magari saremo costretti a farlo per andare dall’altra parte del mondo.

Un colpo da maestri da parte degli Yankees. Applausi!

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)

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