Di Valeria Fraquelli
Roma. Il continente più pericoloso per svolgere attività giornalistica è senza dubbio l’Africa.
Il Continente detiene il triste primato di reporter che hanno perso la vita o sono stati arrestati oppure hanno dovuto subire ricatti e intimidazioni.
Stiamo parlando di 1.300 unità, dal 1998 ad oggi.
Essere giornalisti non significa solo apparire in televisione o parlare alla radio, scrivere qualche articolo mentre si è nel proprio ufficio o nella propria casa ma vuole dire andare nei luoghi di conflitto, cercare informazioni corrette e attendibili, essere embedded con i militari, partecipare alle missioni di salvataggio e tanto altro ancora.
Non è sempre facile raccontare la realtà senza filtri, così come la vediamo e andare oltre alla apparenze, oltre la propaganda.
Il mestiere del giornalista in Africa è ancora più ricco di pericoli e sono tanti coloro che, nel tentativo di raccontare la realtà dei fatti, hanno perso la vita.
Sparatorie nelle sedi di radio, televisioni e giornali, intimidazioni, minacce e soprusi di ogni tipo nei confronti dei giornalisti sono all’ordine del giorno e in molti casi Governi corrotti e dittatoriali sono i mandanti.
Secondo i dati forniti da “Reporters sans frontieres “a causare il peggioramento globale dello stato di salute dell’informazione sono sicuramente i conflitti sia aperti sia quelli non dichiarati, i quali creano instabilità e trasformano i media in obiettivi strategici per il controllo sociale.
Di conseguenza si vanno a creare i presupposti per violare sistematicamente le convenzioni internazionali sulla libertà di stampa.
Un’ulteriore causa viene rinvenuta nella tendenza di molti Paesi a interpretare le esigenze di sicurezza nazionale in maniera troppo rigida, a scapito del diritto di informare e di essere informati che finisce con l’essere sacrificato.
Infine l’attività dei gruppi ribelli fa si che le minacce e le aggressioni siano state più numerose ed è per questo che l’indice segna comunque un peggioramento”.
Nella sola Somalia, 8 giornalisti sono stati uccisi. Sono rimasti coinvolti in attentati dinamitardi o gli obiettivi diretti di omicidi, rendendo il 2012 l’anno dove si sono avuti i maggiori attacchi nella storia dei media del Paese africano.
Il Corno d’Africa è stato il secondo Stato più pericoloso al mondo per chi lavora nel campo dell’informazione. Il primo è stata la Siria.
In Ciad si sono registrati atti di violenza nei confronti dei reporter.
La pubblicazione del giornale “N’Djamena Bi-Hebdo” è stata temporaneamente sospesa e il suo editore è stato condannato.
Anche in Zimbabwe si è registrato un rallentamento dell’informazione.
In Burkina Faso di recente sono stati uccisi 3 reporter europei colpevoli solo di fare bene il loro lavoro.
Anche in Sud Sudan, Camerun e Niger la situazione non è affatto delle migliori con giornali chiusi e gli arresti.
Esemplare poi è il caso di una piccola televisione indipendente del Kivu (Repubblica Democratica del Congo) che mantiene a fatica e a prezzo di grandi sacrifici aperta una voce di verità, contro la propaganda del regime.
I giornalisti sono stati arrestati, incarcerati, malmenati e di recente la loro redazione è stata bruciata. Ma la voglia di questi giovanissimi reporter di resistere nonostante tutto è più forte di qualsiasi minaccia o intimidazione.
Per un giornalista è un dovere seguire le regole ma è un dovere anche denunciare tutto quello che è sbagliato, tra corruzione, dittature che usano il loro popolo come merce di scambio per ottenere il proprio tornaconto.
Il dovere del giornalista è informare, anche se questo va contro i potenti.
Non ci può essere vera informazione senza bravi giornalisti che raccontano la verità senza filtri.
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