Israele, la pena di morte come pericolosa deriva politica

Di Bruno Di Gioacchino
GERUSALEMME. Il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato in prima lettura un disegno di legge che introduce la pena di morte obbligatoria per chi provoca la morte di un cittadino israeliano per odio, razzismo o intento di danneggiare lo Stato e la rinascita del popolo ebraico.
Una norma che, se dovesse superare le due ulteriori letture necessarie per diventare legge definitiva, segnerebbe una svolta drammatica nel sistema giuridico israeliano.
Fino ad oggi, la pena capitale era prevista solo per crimini eccezionali – genocidio, crimini contro l’umanità, tradimento – e nella pratica quasi mai applicata: l’unico caso resta quello di Adolf Eichmann nel 1962.
Israele aveva scelto, dopo il 1954, di abbandonare la pena di morte per i delitti ordinari, affermando un principio di civiltà giuridica in linea con le grandi democrazie occidentali.
Oggi quella scelta viene rimessa in discussione. Il ministro della Sicurezza interna, Itamar Ben-Gvir, leader dell’estrema destra religiosa, ha spinto per una legge che “tagli alla radice il terrorismo” e impedisca gli scambi di prigionieri.
Ma questa spinta punitiva appare più come un gesto politico che come un reale strumento di sicurezza.
La pena di morte non ha mai dimostrato di essere un deterrente efficace contro il terrorismo, e rischia invece di trasformarsi in una miccia accesa in un contesto già esplosivo.
Introdurre l’esecuzione obbligatoria per reati motivati da odio o da intenti politici rischia di creare un sistema giuridico a due velocità, dove la linea tra giustizia e vendetta si fa pericolosamente sottile.
Una seduta della Knesset
Le organizzazioni per i diritti umani, come Amnesty International, hanno già denunciato il carattere discriminatorio di un provvedimento che colpirebbe in larga misura cittadini palestinesi o persone provenienti da territori occupati.
È difficile non vedere in questa legge un segnale politico destinato più a rassicurare la destra radicale israeliana che a garantire una maggiore sicurezza alla popolazione.
In una fase storica in cui Israele è chiamato a difendere la propria legittimità internazionale e la propria democrazia interna, una legge simile rischia di minare entrambe.
La giustizia israeliana, da sempre orgogliosa della propria indipendenza, verrebbe privata di discrezionalità, mentre il potere politico si attribuirebbe il diritto di decidere chi vive e chi muore in nome della sicurezza.
Sul piano regionale, l’effetto potrebbe essere devastante.
Una norma del genere verrebbe inevitabilmente percepita dai palestinesi come un ulteriore atto di repressione, alimentando risentimento e violenza.
Sul piano internazionale, Israele rischierebbe un isolamento crescente, specie nei rapporti con i paesi europei, dove la pena di morte è considerata un tabù etico e giuridico.
L’impressione è che questa proposta, più che un passo avanti nella lotta al terrorismo, sia un passo indietro nella civiltà del diritto. Sembra voler offrire un contentino ideologico a chi da tempo invoca misure estreme, come lo stesso Ben-Gvir, più interessato a compiacere il proprio elettorato che a costruire sicurezza duratura.
In un momento in cui l’antisemitismo cresce nel mondo, una legge che lega la pena di morte all’identità ebraica rischia paradossalmente di alimentarlo.
Presentare l’esecuzione come difesa dello Stato ebraico significa confondere il piano politico con quello religioso e morale, e dare a chi odia Israele un nuovo argomento per giustificare il proprio odio.
Israele ha sempre saputo difendersi con intelligenza, diritto e democrazia.
Tornare alla logica del patibolo non è forza, è paura travestita da giustizia.
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