Di Maria Enrica Rubino
Roma. Il legame tra Forze Armate e Servizi è solido e profondo, al punto che ben presto le operazioni armate saranno indirizzate dalle rispettive intelligence e le informazioni diventeranno vere e proprie armi.
È una delle analisi fornite da Marco Giaconi nel suo libro “Le guerre degli altri. Piccoli e grandi eserciti del mondo”, un “glossario” con tutte le informazioni sulla organizzazione delle Forze Armate italiane e dei Paesi più importanti del mondo, le strutture di intelligence internazionali, il flusso degli armamenti e i mezzi a disposizione degli Eserciti.
Marco Giaconi, analista geopolitico, già direttore di ricerca presso il Ce.Mi.S.S. (Centro Militare di Studi Strategici), docente presso lo IASSP e consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha raccontato a Report Difesa di aver realizzato questo volume utilizzando le fonti ufficiali degli Stati e dei Governi, libri delle nostre biblioteche militari, reports sulle Forze Armate estere che è riuscito a ottenere dai nostri alleati, ma soprattutto le preziose informazioni riportate dai nostri addetti militari all’estero.
Professor Giaconi, come e quando è nata l’idea di scrivere il libro “Le Guerre degli altri”?
E’ nata quando ho scoperto che non esisteva, in italiano e nella letteratura più diffusa del settore militare, un testo che parlasse brevemente ma con qualche dato tecnico, degli scontri attuali presenti nel globo. Credo nella buona divulgazione, credo che la gente debba sapere anche cose che appaiono superficialmente “occulte”. Poi, data la mia collaborazione, per molti anni, al sito lookoutnews e poi oltrefrontiera, e poi ancora Babilon, ho deciso, con l’editore dei siti e di “Paesi Edizioni”, di mettere insieme, aggiornandoli, alcuni testi che erano apparsi nei siti stessi e nella rivista.
Nel suo libro parla di un “nesso solido e profondo” tra Forze Armate e Servizi al punto che, in futuro, le Forze Armate saranno indirizzate dalle rispettive intelligence. Ritiene che questa sia la tendenza anche nel nostro Paese?
Certamente. Le guerre del futuro, o comunque le azioni militari, saranno sempre più in pieno e stabile coordinamento tra Servizi e Corpi Speciali. Lo vediamo, proprio noi italiani, in Libia. Certo, si tratta soprattutto di azioni di stabilizzazione e monitoraggio delle aree a rischio, ma anche addestramento delle milizie locali, oltre alla neutralizzazione della minaccia jihadista.
E’ una evoluzione che si vede anche nella dottrina di altri Paesi NATO e che è inevitabile, data la ristrettezza universale dei fondi e la riduzione del numero delle forze convenzionali in campo. Ma, in futuro, andremo anche noi, nell’Alleanza Atlantica e nei vari Paesi che la compongono, ad una nuova dottrina della “guerra ibrida”, una prassi in cui il rapporto tra Servizi e Forze Armate sarà ancora più stretto di quanto oggi non lo sia.
Uno dei capitoli del libro è incentrato sulla descrizione di alcune condizioni di debolezza di cui risentirebbero le nostre Forze Armate e che sono collegate a una riduzione degli investimenti nel settore Difesa. Stando alla sua analisi, a che punto è lo stato degli armamenti e dei mezzi militari italiani rispetto agli Eserciti degli altri Paesi? E relativamente al flusso di armi?
Non stiamo molto bene, ma siamo in buona compagnia, anche in area NATO. Il bilancio della nostra Difesa vede, di nuovo, l’aumento forte delle spese per il personale, poi una forte riduzione delle risorse disponibili per gli investimenti. Con 169,6 milioni di euro che sono spostamenti nel futuro di pagamenti e altri tagli alle spese.
Sessanta milioni di euro di tagli, quindi, ai quali si aggiungono ulteriori riduzioni, per 531 milioni di euro, nel periodo 2019-2032.
E’ vero che il Bilancio della Difesa sale quest’anno, a 21.432, 2 milioni di euro, con un aumento di 463,3 milioni rispetto all’anno precedente. Ma siamo ancora alla consueta esplosione dei costi per il personale (+3% annuo) e a un aumento dei fondi per l’esercizio, che sono, di fatto, “tolti” agli investimenti.
Calano sia i fondi per l’operatività che per il funzionamento, mentre è sempre più difficile raggiungere, anche con i fondi MISE, l’obiettivo del 2% di spesa militare annuale stabilito dalla NATO. Anzi, siamo in effetti all’1%. Per le vendite di armi, che dal 2012 sono regolate da licenze piuttosto “strette”, vendiamo soprattutto elicotteri da guerra, soprattutto al Qatar, poi Pakistan e Turchia. Niente, rispetto ai nostri colleghi della NATO.
Cosa intende per “mancanza di una dottrina strategica” nella Difesa italiana?
Siamo il terzo fornitore di truppe della NATO, ma l’ultimo libro Bianco della Difesa stabilisce solamente che l’area euro-mediterranea è “primaria per gli interessi dell’Italia”. Benissimo, è vero, ma c’è un divario costante tra i principi, gli strumenti e la prassi. Abbiamo mandato la nave-spia “Elettra” in Mar Nero, ma, anche qui, pochi risultati.
Un lavoro che va in termini “alleati”, anche con le nostre missioni in Iraq, ma che non serve alla necessaria proiezione di potenza nazionale, non alleata. Per la cybersecurity e, soprattutto, il cyberattack, spendiamo meno della metà dei francesi.
C’è in giro l’idea, sostanzialmente, di un sistema-difesa che produce ottime tecnologie ed armi, per venderle ai mercati, ma c’è pochissimo impegno per la definizione operativa delle aree di intervento e perché ci dobbiamo essere. I politici, poi, non ne sanno nulla, il livello del dibattito pubblico su questi temi è decisamente basso.
Nel capitolo dedicato alla Marina Militare italiana parla di un “ridimensionamento” della Forza Armata al punto da farla apparire “solo una parte di altre Marine Militari mediterranee”. A cosa fa riferimento nello specifico?
Il criterio del Documento “duplice uso e resilienza” del 2018 è oggi chiaro. Si tratta di un concetto che esprime, correttamente, l’altissimo livello di complessità delle minacce attuali, ma non c’è niente che riguardi, forse per timidezza, lo scontro tra gli Stati e la sicurezza economica, energetica o, per esempio, quella delle comunicazioni.
Altri Stati, anche nostri alleati, pensano in quel modo la sfida strategica. Marine come quella francese o altre, come accade persino nei Paesi del Maghreb, sono molto più fornite di mezzi, anche se, in questo caso, comprano tutto all’estero. Noi dobbiamo pensare autonomamente le nostre dottrine di difesa-attacco. E non adorare scioccamente l’articolo 11 della Costituzione, ripreso sciattamente dal testo dello Statuto della vecchia Società delle Nazioni.
Nel capitolo “L’Egitto dei militari” definisce l’assassinio di Giulio Regeni un’operazione di “defamation”. Vuole spiegarci la sua analisi sul caso?
Il caso Regeni è quello di un bravo ragazzo che studia, e bene, in Gran Bretagna, a Cambridge, e si trova di fronte a quella che potrebbe essere l’occasione della sua vita: una professoressa egiziana, Maha Abdelrahman, forse legata ad alcuni movimenti della Fratellanza Musulmana, che gli propone una bella ricerca.
Naturalmente, in certi ambienti accademici britannici, la signora Maha Abdelrahman è stata lodata e accettata proprio perché netta oppositrice di Mubarak e, poi, di Al Sisi.
Non mi meraviglierei quindi che l’insegnante egiziano-britannica sia stata attentamente monitorata dai Servizi di Al Sisi e che, poi, le reti dell’intelligence egiziana abbiano trattato Giulio Regeni, a cui la signora Abdelrahman aveva conferito una notevolissima somma di denaro, come un agente coperto della Fratellanza.
Che, poi, ci fosse bisogno di spiegare alla Abdelrahman che i sindacati “liberi” dei lavoratori egiziani siano penetrati come zucchine dal Servizio interno, è roba da non credere.
Giulio Regeni è stato mandato a morire da una rete di dirigenti islamisti egiziani e non. Cosa doveva fare l’Italia? Intanto monitorare tutti i suoi studenti all’Estero e soprattutto in “aree delicate”, poi coprire e informare Giulio Regeni, poi, infine, trattare duramente con Al Sisi per chiudere la questione. Immagino anche che certe reti eterodosse egiziane, ancora presenti nei loro Servizi, abbiano organizzato l’assassinio di Regeni per creare una buona occasione utile per altri competitor dell’Italia. Sapevano benissimo che l’Italia si sarebbe concentrata sull’assassinio del povero Regeni, ma avrebbe perso la bigger picture. Facile coprirsi con il sostegno ad altri concorrenti europei dell’Italia, meno ingenui.
Si sarebbe dovuto chiedere duramente conto ad Al Sisi di quanto accaduto al povero ragazzo, costringere con qualche pressione militare credibile l’Egitto a rispondere e, poi, capire anche che non era tutta colpa di Al Sisi. Roba da artigiani dei Servizi, non da grossisti della politichetta.
L’organizzazione dei Servizi segreti nordcoreani e i legami con gli Stati Uniti. Qual è il suo punto di vista anche alla luce dell’assassinio di Kim Jong-nam ?
Kim Jong-nam è un amico d’infanzia e fratellastro di Kim Jong-Un. Fa l’agente-dirigente dei Servizi nordcoreani, ma poi entra in Giappone illegalmente e viene fermato dalla polizia locale. Roba da ridere, per un operativo dei Servizi di qualunque nazione. Ha, probabilmente, per motivi sia personali (è figlio della seconda moglie di Kim Jong-Un) e per motivi politici, un qualche astio nei confronti della linea familiare vincente a Pyongyang e, forse, si mette in contatto con alcuni elementi dei Servizi Usa. La cosa arriva alle orecchie di Pyongyang, e quindi la questione non può andare altrimenti di come è andata.
Qual è, a suo avviso, la struttura di intelligence straniera più efficiente e meglio organizzata?
Gli italiani, lo dico subito, non sono affatto male. Anzi, all’estero, sia tra i Servizi “collegati” che tra quelli, anche nominalmente, “avversari”, nessuno trascura il ruolo e la qualità delle nostre Agenzie.
Tra quelli esteri, ci sono in primo luogo gli israeliani che, come mi disse anni fa un loro dirigente, alla mia domanda “da quanto vi siete addestrati in Europa?” mi rispose “Dal tempo di Auschwitz”.
Poi, ci sono i Servizi (il termine Agenzia è un po’ riduttivo, a mio giudizio) delle Federazione Russa, decisamente buoni, poi anche quelli cinesi che, comunque, fanno soprattutto intelligence economica e finanziaria.
In Europa, a parte il disastro franco-tedesco, ci sono ancora i britannici, per quel che possono, e gli spagnoli, che sanno tutto, ma proprio tutto dell’America Latina. Niente male nemmeno il MIT turco e le reti informative della penisola arabica.
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