Francia: fine di un’impronta. Il ritiro dei soldati di Parigi e la ristrutturazione degli equilibri geostrategici in Africa Occidentale

Di Cristina Di Silvio*

PARIGI. Il ritiro definitivo delle forze francesi dal Senegal, ufficializzata lo scorso luglio con la riconsegna cerimoniale del Camp Geille e della Base aerea di Ouakam, non è soltanto una chiusura operativa: è l’epilogo di una stagione geopolitica che affonda le sue radici nel contesto postcoloniale, e rappresenta una discontinuità simbolica e strategica nella proiezione francese in Africa occidentale.

Mappa del Senegal

 

L’uscita, pur avvenuta in modo ordinato e coordinato, è la manifestazione tangibile della volontà senegalese di riappropriarsi pienamente della propria sovranità, come chiaramente affermato dal Presidente Bassirou Diomaye Faye – eletto nel marzo 2024 come espressione di un’ondata anti-establishment e post-francafrique – secondo cui “la sovranità non può coesistere con presenze militari straniere sul suolo nazionale”. Il quadro giuridico su cui si fonda questa transizione è inequivocabile.

Il Presidente del Senegal Bassirou Diomaye Faye

 

Oltre al principio di autodeterminazione dei popoli sancito dall’art. 1(2) della Carta delle Nazioni Unite, il Senegal ha agito nel rispetto delle norme pattizie vigenti: l’accordo di cooperazione militare con la Francia, attivato nel 2010 e aggiornato nel 2014, prevedeva consultazioni regolari ma non menzionava una clausola esplicita di presenza permanente, né un obbligo di mantenimento delle basi.

Il ridimensionamento è dunque stato il frutto di negoziazioni politiche e di una precisa scelta strategica.

Il piano di disimpegno ha avuto carattere graduale e metodico, articolato in fasi tra marzo e luglio scorso: dapprima la chiusura delle installazioni centrali a Dakar, poi il centro trasmissioni di Rufisque (1° luglio), infine la dismissione definitiva delle strutture aeronavali, completata il 18 luglio.

In luogo di una presenza militare permanente, si delinea un modello di cooperazione flessibile, fondato su addestramento specialistico, scambio informativo, consulenza strategica e interventi su richiesta – in linea con il principio della “co-costruzione”, formulato dal Quai d’Orsay come nuova architettura relazionale post-empire. Tale transizione non è però un atto isolato.

Essa si inserisce in una ridefinizione più ampia dei rapporti di forza nel Sahel e in Africa occidentale.

Soldati francesi impiegati nel’Operazione Barkhane

La fine dell’Operazione Barkhane, ufficializzata nel 2022 dopo quasi un decennio di operazioni antiterrorismo transfrontaliere, è stata accelerata dalla crisi sistemica delle relazioni bilaterali tra Parigi e le ex colonie: Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad hanno progressivamente espulso le truppe francesi e abbracciato una narrazione sovranista alimentata dalle élite militari al potere, spesso in rottura con l’Occidente.

A colmare il vuoto è intervenuta la Russia, che, ristrutturata dopo la morte di Prigozhin, ha integrato parte delle attività della Wagner all’interno del Ministero della Difesa attraverso la creazione dell’Africa Corps: un braccio operativo statale con mandato di sicurezza, protezione delle risorse naturali (oro, uranio, bauxite) e influenza diplomatica.

Mosca offre sicurezza rapida in cambio di concessioni strategiche, rifiutando i vincoli normativi del modello occidentale: un approccio spregiudicato, ma spesso più funzionale agli interessi dei regimi locali.

Nel frattempo, la Cina consolida il suo predominio economico-strutturale, non solo tramite la Belt and Road Initiative ma anche mediante accordi bilaterali nei settori logistico, infrastrutturale e digitale.

La complementarità sino-russa è evidente: Pechino porta investimenti e stabilità, Mosca potere coercitivo e deterrenza.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, tentano di rientrare nel gioco con strumenti di soft power – come il programma Prosper Africa e il rafforzamento di EXIM Bank – ma appaiono penalizzati dall’assenza di un ancoraggio militare credibile, soprattutto dopo il disimpegno dal Niger e la crescente vulnerabilità di installazioni chiave come la Base aerea di Agadez.

I lavori alla costruzione di Base 201 americana ad Agadez nel 2018

In tale contesto frammentato, emerge una nuova “guerra fredda a geometria variabile”, in cui la proiezione d’influenza si gioca su molteplici livelli: militare, tecnologico, energetico e culturale.

A sorprendere, nel silenzio dei grandi titoli, è la penetrazione tecnologica di Israele in Africa.

Israele ha firmato negli ultimi anni accordi di cooperazione nel campo agricolo e idrico con Paesi come Ghana, Kenya ed Etiopia, ma sta ampliando la propria influenza nel settore cyber e della sicurezza urbana.

Sistemi biometrici, piattaforme di sorveglianza e software di controllo delle frontiere stanno progressivamente entrando nei centri decisionali di vari governi africani.

Questa presenza discreta ma crescente si profila come un vettore alternativo di sicurezza e deterrenza in aree ad alta instabilità politica.

In questo scenario multipolare e competitivo, il Senegal adotta una strategia di non allineamento assertivo: rigetta qualsiasi forma di militarizzazione esterna permanente, ma non chiude le porte a cooperazioni selettive con attori emergenti.

È significativo il dialogo avviato con la Turchia per sistemi antiaerei a corto raggio, così come con Israele per soluzioni integrate di sicurezza urbana digitale.

In parallelo, il Paese ha rafforzato i rapporti con l’Unione Europea in materia di controllo marittimo, consapevole dell’imminente sfida che porrà l’attivazione del Progetto energetico Greater Tortue Ahmeyim (GTA), primo impianto LNG offshore dell’Africa sub-sahariana.

Dopo l’annuncio del “first gas” a fine 2024, è atteso il primo carico commerciale entro il terzo trimestre di quest’anno.

La sicurezza delle infrastrutture marittime diviene quindi un obiettivo strategico primario, in un’area soggetta a pirateria, criminalità transnazionale e competizione navale crescente.

Il ritiro francese dal Senegal, in conclusione, non è una semplice ritirata, ma la manifestazione di una discontinuità strutturale nel modo in cui l’Africa occidentale ridefinisce oggi la propria architettura di sicurezza, il proprio posizionamento internazionale e la propria identità geopolitica.

Parigi abbandona il simbolo per salvare la relazione, tentando di ricollocarsi come partner e non più come potenza tutelare.

Ma la partita è tutt’altro che chiusa.

Nel vuoto lasciato dalla Francia, si agitano nuovi protagonisti, nuove ambizioni, nuove sfide. Resta aperta la domanda fondamentale: siamo dinanzi a una vera emancipazione del continente africano, o all’alba di un nuovo sistema di dipendenze globali dalle forme meno riconoscibili, ma non meno vincolanti?

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

 

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna in alto