Di Giuseppe Gagliano
PARIGI. La Francia è a un bivio nella sua guerra contro il traffico di droga.

Da un lato, i Servizi di intelligence arrancano nel fornire supporto all’ufficio antidroga della Polizia, stretti tra vincoli burocratici e un flusso di informazioni che stenta a tradursi in azione concreta.
Dall’altro, un rapporto parlamentare presentato lo scorso 18 febbraio dai Deputati Antoine Léaument (La France Insoumise) e Ludovic Mendes (Ensemble pour la République) all’Assemblea nazionale di Parigi ha gettato benzina sul fuoco di un dibattito già rovente. Il documento, un’analisi impietosa sull’efficacia delle politiche antidroga, non si limita a fotografare il fallimento del “tutto repressivo”, ma osa spingersi oltre: propone la legalizzazione del cannabis e una revisione radicale delle strategie di contrasto al narcotraffico. Intanto, questa settimana, i parlamentari francesi hanno aperto la discussione su un disegno di legge che promette di ridisegnare il campo di battaglia. Ma basterà?
Un’intelligence con le mani legate
Non è un segreto che il traffico di droga in Francia sia un mostro dalle molte teste: un giro d’affari da miliardi di euro, reti criminali che si ramificano dai porti di Le Havre e Marsiglia fino ai sobborghi delle grandi città, violenza in aumento con regolamenti di conti sempre più frequenti.
L’ufficio antidroga della Polizia giudiziaria, sotto la guida dell’Office Anti-Stupéfiants (OFAST), combatte in prima linea, ma si trova spesso a mani nude.

Il problema? I servizi di intelligence, pilastro teorico di questa lotta, arrancano nel passare informazioni utili.
Fonti interne parlano di una “frattura operativa”: i dati raccolti dalle agenzie di sicurezza – dalla Direction Générale de la Sécurité Intérieure (DGSI) alla Direction du Renseignement Militaire (DRM) – restano troppo spesso intrappolati in silos burocratici, lontani dai fascicoli dei magistrati o dalle volanti sul campo.
“È come se avessimo una mappa del tesoro, ma senza la bussola per leggerla”, confida un funzionario di polizia sotto anonimato.
La trasmissione di informazioni criminali dai Servizi segreti alla Polizia giudiziaria è al centro di un dibattito incandescente, con i parlamentari divisi tra chi chiede una deregulation totale dello scambio di dati e chi teme derive liberticide.
Il disegno di legge in discussione questa settimana prova a sciogliere il nodo, proponendo un canale diretto tra intelligence e forze dell’ordine. Ma il diavolo, come sempre, sta nei dettagli: chi deciderà cosa condividere? E con quali garanzie per i cittadini?
Il rapporto Léaument-Mendes: una provocazione o una visione?
In questo scenario di crisi, il rapporto dei deputati Léaument e Mendes è piombato come un fulmine a ciel sereno.
Presentato il 18 febbraio davanti a un’Assemblea nazionale attenta ma spaccata, il documento non usa mezzi termini: dopo decenni di repressione, il traffico di droga non solo resiste, ma prospera.
I numeri parlano chiaro: 600 mila consumatori di cocaina, 5 milioni di fumatori di cannabis, un mercato che alimenta organizzazioni criminali capaci di sfidare lo Stato. “La strategia del manganello e delle manette ha fallito”, scrivono i due parlamentari. La loro ricetta? Legalizzare il cannabis per sottrarre ossigeno ai trafficanti, regolamentare il mercato con un’authority dedicata e spostare il focus dalla punizione alla salute pubblica.
Léaument, voce ribelle della sinistra radicale, e Mendes, macronista atipico, formano una coppia improbabile che ha già fatto storcere il naso a molti. La proposta di legalizzazione – con un tetto di 10 o 25 grammi per uso personale, a seconda delle versioni – ha scatenato reazioni opposte.
Per i sostenitori, è un atto di pragmatismo: “Non possiamo continuare a inseguire fantasmi mentre i narcos si arricchiscono”, tuona Léaument.
Per i critici, tra cui il ministro dell’Interno Bruno Retailleau, è un’eresia: “Legalizzare significa arrendersi, e chi consuma deve sentirsi responsabile della violenza che ne deriva”.

Eppure, il rapporto non si ferma al cannabis: propone anche la depenalizzazione di piccole quantità di altre droghe e un rafforzamento dei controlli nei porti, veri e propri colabrodo per l’importazione di stupefacenti.
Una guerra su più fronti
La discussione sul disegno di legge, iniziata questa settimana, si preannuncia un ring politico. Da un lato, il governo spinge per un approccio muscolare: più agenti, più intercettazioni, un nuovo parquet nazionale anticriminalità. Dall’altro, i promotori del rapporto chiedono un cambio di paradigma, con emendamenti che potrebbero trasformare il testo in una rivoluzione copernicana. Ma al di là delle schermaglie parlamentari, il vero campo di battaglia resta la strada.
A Marsiglia, dove i morti per droga si contano quasi ogni settimana, o a Seine-Saint-Denis, dove i giovani vengono reclutati come vedette dai narcos, la sensazione è che lo Stato stia perdendo terreno.
E poi c’è l’Europa.
La Francia non è un’isola: il traffico di droga è un serpente che attraversa i confini, con hub logistici in Belgio e Olanda e capitali che finiscono lavati a Dubai.
Senza una strategia continentale, ogni sforzo rischia di essere un colpo di spada nell’acqua. “Serve un’Interpol della droga”, suggerisce un esperto di sicurezza vicino al dossier.
Ma per ora, a Parigi, si litiga ancora su chi debba leggere per primo la famosa mappa del tesoro.
Tra speranza e scetticismo
La Francia di oggi si guarda allo specchio e vede un Paese stanco, ferito da una guerra che non riesce a vincere.
Il rapporto Léaument-Mendes, con il suo mix di audacia e provocazione, ha il merito di rompere il tabù del “proibito non si discute”. Ma basterà a invertire la rotta? Tra un’intelligence che arranca e una politica che si divide, il rischio è che il narcotraffico continui a ridere ultimo.
E mentre i deputati dibattono, nei vicoli di periferia un altro ragazzo accetta un’offerta che non può rifiutare. La battaglia è appena iniziata, ma il tempo stringe.
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