Gaza: Hamas accetta il rilascio degli ostaggi, Trump impone la tregua

Di Bruno Di Gioacchino

TEL AVIV. La dichiarazione ufficiale di Hamas di accettare il rilascio degli ostaggi israeliani, vivi e morti, all’interno del quadro negoziale lanciato dal presidente americano Donald Trump, rappresenta una svolta inattesa in un conflitto che sembrava condannato a un logoramento senza fine.

Il Presidente americano Donald Trump

Dopo mesi di bombardamenti, distruzione e stallo diplomatico, la guerra di Gaza conosce ora una possibilità di tregua che potrebbe cambiare radicalmente gli equilibri della regione.

Un’immagine della guerra a Gaza

La liberazione degli ostaggi, tema centrale fin dall’inizio della crisi, è un gesto che contiene molteplici significati.

Un’immagine dei rapimenti del 7 ottobre 2023. Hamas oggi accetta l’accordo di Trump

Per Hamas è la conferma di trovarsi sotto una pressione insostenibile, militare e diplomatica al tempo stesso, ma è anche l’occasione per trasformare quegli stessi ostaggi in strumento di negoziazione.

La loro consegna non avviene a costo zero: è la carta più importante che il movimento islamista ha in mano per ottenere concessioni politiche e militari.

Per Israele, invece, il ritorno dei propri cittadini costituisce un imperativo morale e politico.

Nessun Governo israeliano potrebbe permettersi di ignorarlo, ma la linea ufficiale resta quella della prosecuzione delle operazioni fino al completo smantellamento dell’apparato armato di Hamas.

A rendere questo passaggio storico è soprattutto l’intervento diretto di Donald Trump.

 

Definendo la giornata come “speciale, forse senza precedenti”, il Presidente americano ha imposto a Israele la sospensione dei bombardamenti.

È un gesto che richiama alla memoria i momenti più forti della diplomazia coercitiva statunitense: dal ponte aereo di Berlino nel 1948 agli Accordi di Dayton del 1995, quando Washington assunse la guida delle trattative internazionali.

Trump e Netanyahu alla Casa Bianca

Oggi, la Casa Bianca punta a trasformare la crisi di Gaza in un successo politico che rafforzi l’immagine di Trump come leader globale capace di piegare i conflitti più ostinati a una soluzione negoziata.

Le conseguenze di questa mossa potrebbero essere di ampia portata.

Se il rilascio degli ostaggi si concretizzerà, si aprirà una finestra per una tregua temporanea che permetta di discutere non solo la fine delle ostilità, ma anche la ridefinizione della governance di Gaza.

Israele, tuttavia, potrebbe accettare la prima fase del piano senza rinunciare all’obiettivo di eliminare Hamas, creando così un’ambiguità destinata a minare la stabilità del processo.

Al tempo stesso, il protagonismo americano rilegittima Washington come attore insostituibile in Medio Oriente, almeno sul breve periodo.

Qatar, Egitto e ONU, che fino a oggi avevano gestito i canali della mediazione, si trovano marginalizzati da un intervento muscolare che restituisce agli Stati Uniti il ruolo di ago della bilancia regionale.

Infine, resta l’incognita del contesto regionale.

Se la tregua dovesse reggere, anche Hezbollah, l’Iran e altri attori ostili a Israele sarebbero costretti a ripensare le proprie strategie, aprendo uno scenario di relativa stabilizzazione.

Se invece il meccanismo dovesse incrinarsi, il rischio è quello di un effetto contrario: una radicalizzazione crescente e un’estensione ulteriore del conflitto, capace di travolgere anche i fragili equilibri di potenza mediorientali.

Il passaggio attuale segna dunque un crocevia: potrebbe rappresentare l’inizio di una fase di de-escalation tanto attesa quanto fragile, oppure il preludio a una nuova e più dura escalation. In entrambi i casi, il dato politico è ormai chiaro: la crisi di Gaza non è più solo una questione locale, ma il terreno su cui si misura la capacità degli Stati Uniti – e di Donald Trump in prima persona – di ridisegnare la mappa del potere in Medio Oriente.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

Torna in alto