Gaza: il comodo svilimento nel mito dei principi del diritto

Di Vincenzo Santo*

GAZA. Nel momento in cui scrivo, non è ancora chiaro come progredirà l’ultima proposta di pace marcata Trump. Ha un retrogusto più “armistiziale” che altro? Nasconde il desiderio irrefrenabile di un Nobel? Chissà.

Ne ho lette tante di proposte e ne ho anche scritto un libro.

Le occasioni per arrivare a una pace non sono mancate.

Sappiamo come tutte siano fallite, ma non è detto che debba essere così anche adesso.

Il pessimismo è d’obbligo, ma tante volte ci siamo trovati dinanzi a un qualcosa di inaspettato.

Comunque, le scuse di Netanyahu all’Emiro del Qatar potrebbero essere state utili perché il mondo arabo che conta si accodasse a Trump.

il primo ministro Netanyahu presiede una riunione operativa

Persino in quella parte in cui il Presidente americano ha minacciato apertamente del definitivo go ahead a Israele, per proseguire nella sua opera distruttiva, ove Hamas non si fosse adeguato.

Pertanto, un ultimatum che anche i Paesi arabi hanno voluto indirettamente intimare ad Hamas.

Guerriglieri di Hamas

Ma lo vedremo.

Lungo tutto il corso della Storia, l’uomo ha sempre cercato di porre limiti alla violenza umana e al ricorso alla guerra.

Abbiamo fissato dei principi, infatti, molto ben riportati nelle pagine dei pesanti volumi del diritto internazionale.

Consolidatosi via via nel tempo, ben oltre le semplici e anche banali parole del momento e gli slogan, che troppo spesso tendono a piegare quei principi ai propri desideri o inclinazioni politiche.

Vero è che nella storia chi esce vincitore è colui che veste i panni del giudice dei misfatti perpetrati.

Dobbiamo fare pace con questo “principio non scritto”.

Perché le guerre sono sempre orribili e lo sono anche in questo sviluppo.

Tuttavia, riflettendoci, non si può non trovare banale il voler attribuire loro un qualsivoglia appellativo come, appunto, orribile oppure terribile, tremenda e, peggio, sanguinosa.

Ciò che di bello c’è in una guerra è solamente la sua fine.

Tutto il resto è retorica.

Come retorica è la conta dei morti giornalieri sbattuti in faccia dai media.

Una sorta di rendicontazione della morte con cui non si perde occasione di specificare quanti bambini e quante donne ne abbiano fatto parte.

La guerra, purtroppo, è indifferente al dolore e alla compassione che si generano nell’animo umano.

È indifferente al genere e all’età.

Donne e bambini purtroppo non beneficiano di un particolare “salvacondotto” che li protegga da morte violenta in una guerra.

Vale per ogni conflitto.

E in ogni conflitto, piaccia o no, le strutture civili possono essere obiettivi.

Quindi lo sono anche porti, aeroporti, scali ferroviari, depositi di carburante, ponti, strade o centrali elettriche e così via.

Basta solo che siano ritenuti, a torto o ragione, di utilità militare per il proprio avversario e il principio che vieta gli attacchi indiscriminati (articolo 51 del Protocollo Aggiuntivo I) perde consistenza.

E su quegli obiettivi o nei pressi ci può essere chiunque.

Divengono legittimi obiettivi persino i sottoscala dei condomini dove, come riportato tempo fa da incauti giornalisti per la guerra in Ucraina, donne e bambini fabbricavano molotov per colpire i carri armati russi.

Disumano? Sì, ma anche la disumanità è assolutamente umana.

Esempio da scuola è Gaza.

Nella Striscia è proprio la necessità di generare la compassione nell’opinione pubblica mondiale, e da qui eccitare la classe politica, il cercato obiettivo strategico della propaganda di Hamas. Nella certezza di poter cambiare il corso degli eventi e, soprattutto, isolare il proprio avversario trasformandolo in un volgare carnefice.

Allo stesso tempo, elevando se stessi a resistenti liberatori, forti nella loro indifferenza verso la carneficina dei propri concittadini, il cui sangue versato rende grande soddisfazione alla giustezza della strategia scelta.

A conferma che Israele non è in guerra contro i palestinesi, è in guerra contro Hamas.

Sia chiaro.

Però la compassione, pur umanamente comprensibile, rischia di non far comprendere la differenza tra un’operazione di polizia e una guerra.

E a Gaza c’è una guerra, voglio ricordarlo.

Allo stesso tempo, quel moto dell’animo disorienta le menti facendo loro sfuggire l’indiscutibile altra differenza, importantissima, tra crudeltà e violenza.

Gli autori della prima da perseguire e punire, se ci si riesce.

La crudeltà indigna, mentre la violenza in una guerra c’è da aspettarsela.

Ora, pur ammettendo che ci sia stato tra le fila dell’Esercito israeliano qualcuno che si sia macchiato di azioni orrende, non basta che qualcuno parli e avanzi accuse di genocidio perché si creda che, anche grazie alle corti della giustizia internazionali, sfortunatamente facili prede della voglia di consenso e, quindi, troppo spesso pilotate dalla necessità di dare il segno di esserci, che di genocidio effettivamente si tratti.

Soldari israeliani a Gaza (Foto IDF)

O di una strategia volta ad affamare una comunità.

In questo contesto virulento appare impossibile contrastare la dominante narrazione lacrimevole.

La ricerca trascendente della salvezza, di chiara origine cristiana, con il suo risvolto morale nell’affermazione del giusto e con quello etico persino nell’imposizione del bene, ha generato questo impulso laico rivolto alla redenzione delle proprie colpe prendendosi cura del debole, cioè adottando una vittima.

Senza in realtà aver ben chiaro chi veramente sia la parte forte e quale sia quella debole tra Israele e Hamas.

Mentre è certo che tanto i palestinesi quanto i cittadini israeliani sono le vittime.

Una narrazione semplicistica ma accattivante, che prende via via vigore in virtù della modalità vincente della “storia breve”, modulata sulla cronaca.

Cioè sull’incessante presentazione dei fatti e delle loro immagini, semplificandone o addirittura tralasciandone il senso e quasi sempre non facendo attenzione alle fonti.

Una storia breve che prende il posto del mito, assumendone però la medesima funzione. Peggio, piegandovi i dettami del diritto internazionale.

L’accusa di genocidio va provata.

Soprattutto, va provato “l’intento” di stare attuando un genocidio. Ciò che i giuristi chiamano “dolo speciale”, cioè proprio l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo protetto.

Il fatto che per cause contingenti non si riesca a distribuire aiuti ai civili bisognosi, prigionieri essi stessi dei propri “amici”, di per sé non dimostra che ci sia una pratica genocida né tantomeno l’intento. Genocidio non è qualsiasi uccisione, massacro o eccidio pur raccapriccianti che siano stati.

Per esempio, pur essendoci state delle sentenze in questi termini, i sanguinosi fatti accaduti con Pol Pot al potere in Cambogia non possono essere classificati come genocidio, ma come crimini contro l’umanità.

Il Tribunale Speciale per la Cambogia (ECCC – The Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia) io credo abbia preso un abbaglio, perché in quel paese si ebbero, è vero, persecuzioni e uccisioni, ma non c’è stato un gruppo etnico, religioso o razziale preso di mira con la volontà di distruggerlo.

Cosa diversa in Ruanda o in Bosnia.

Inoltre, che anche taluni giornalisti – o presunti tali – vengano uccisi, anche questo fa parte della guerra.

Ma non deve sorprendere che tanto i media quanto le varie agenzie ed NGO operanti possano essere state infiltrate da agenti di Hamas.

Così come non deve sorprendere che l’analisi condotta durante il processo di targeting (Collateral Damage Estimate – CDE) possa non lasciare spazio ad alternative in termini di “tempo e luogo” dello “strike”, ivi inclusa la scelta del munizionamento da utilizzare, pur volto questo, ove possibile, a minimizzare i danni collaterali.

Scelta che ha a che fare con il rispettivo Collateral Effects Radius (CER).

E in una guerra che si svolge in un’area fortemente urbanizzata, che costringe a un combattimento “porta a porta”, e in cui i “civili innocenti” vengono utilizzati come scudi umani, perché il loro sangue serve alla “resistenza”, pur con tutta la buona volontà nel minimizzare le morti civili, anche “donne e bambini” ne pagano le tristi conseguenze.

Hamas ha da sempre continuato senza tregua a colpire Israele e i civili israeliani senza che questi attacchi generassero analoghe ondate di sdegno o compassione.

Pertanto, se di cronaca si deve vivere, essa va letta tutta.

E ricordata. Il 7 ottobre del 2023 è stato l’apice dell’orrore, non l’apice della resistenza palestinese.

Semmai la giornata della vergogna per quel povero popolo.

Bisogna conoscere bene la storia dell’ultimo secolo per capire come siano andate realmente le cose.

E la realtà rimane, anche se c’è sempre chi la intende evitare o disconoscere.

Inoltre, il terrorismo non può presumere di avere protezione “estera” e farsene una copertura difensiva o una garanzia di immunità.

La lotta al terrorismo postula che le porte non possano che essere aperte, che si parli di raid mirati di terra o dal cielo, non fa differenza. Chi alberga e protegge questi assassini, magari assegnandosi un equivoco ruolo da mediatore, forte dei legami anche finanziari con la leadership statunitense, a parte l’averle concessa una grande base militare, ne è complice.

Così come i turisti che credevano di veleggiare spensierati verso Gaza, con il pretestuoso slancio umanitario di portarvi aiuti. Sono complici. Hanno manifestato da subito e apertamente l’intenzione di forzare il “legale” blocco navale israeliano – in vigore dal 2009 perché da quel tratto di mare ad Hamas arrivava di tutto, per lo più da Teheran, e forse anche da Ankara – contando sull’altrettanto colpevole supporto dell’opinione pubblica mondiale. Una sfida forte, che ha rafforzato in loro la certezza di possedere la superiorità morale per portare a termine la missione. Che nulla aveva a che fare con il proposito vaneggiato se non con l’obiettivo dal forte impatto mediatico di farsi bloccare, magari con la violenza, per dimostrare ancora una volta chi in questa contesa è il male, cioè Israele. Come noto, le acque internazionali non li hanno messi al riparo dall’inevitabile azione di forza israeliana. Se ne sono lamentati. Però, se avessero studiato avrebbero saputo che l’azione condotta in quelle acque per bloccare le loro aspirazioni non è stata altro che la trasposizione “marittima” di un intervento “preemptive”. Pertanto, tutto nella regola quanto fatto da Israele. Missione fallita per loro: nessun morto, come invece accadde con Nave Marmara anni fa, e nessuno uscitone ferito in modo serio.

In soldoni, portare aiuti con qualche decina di barche da diporto con a bordo un paio di centinaia di attivisti dovrebbe dire molto su quale fosse il reale volume di aiuti trasportato. Una buffonata. Ma “affamare un popolo” è una buona utile accusa. Un altro mito. Per mesi, infatti, ha occupato la cronaca di questa guerra.

Con la relativa incriminazione da parte dell’ICC (International Criminal Court) di Netanyahu e del suo precedente ministro della difesa, Gallant.

Di questa fattispecie di crimine sino al 1977 importava molto poco. Fu solo durante l’elaborazione dei protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra che si arrivò ad “accettarlo” ma solo per le vicende “tra stati”. E la Palestina non lo è. Quindi, spiacente, non vale per le questioni “interne”. Ancorché la suddetta ICC l’abbia preso tanto a cuore. Uno degli oppositori, infatti, a che il crimine venisse ritenuto tale anche per le questioni interne, fu la Nigeria, appena uscita dalla vicenda del Biafra.

Fatto interessante, inoltre, è che tanto gli Stati Uniti quanto la Gran Bretagna avevano da sempre opposto resistenza, almeno sino al 1977, per il fatto di possedere delle forti marine da guerra che proprio nei blocchi potevano sfruttare la propria “potenza coercitiva”.

Il Vietnam ne fu un esempio.

Resta comunque la reale incapacità di verificare e provare un simile atto e, per le eventuali vittime, facile ricondurle alle inevitabili perdite dovute alla guerra e alle attività militari.

D’altro canto, altrettanto facile strumentalizzare gli eventi. Tra l’altro, a quanto mi risulta, le incriminazioni per Netanyahu e di Gallant sono scaturite quasi esclusivamente sulla base delle loro pur avventate e rabbiose dichiarazioni. Personalmente non credo che il procedimento potrà mai chiudersi con una condanna.

Non v’è dubbio che la spinta mediatica, l’affollamento manifestante per le strade e la conseguente accondiscendenza dei governi spingano pretestuosamente in un riconoscimento dello Stato di Palestina per cui tutte le accuse presenti e passate, occupazione, aggressione e via dicendo prenderebbero maggiore vigore giuridico. Per colpire l’odiato sionista. Senza valutarne le conseguenze.

Non si scordi che la spinta umanitaria di Sarkozy portò all’assassinio di Gheddafi, con l’inevitabile e perdurante instabilità della Libia. Persino Obama si pentì di aver appoggiato quell’iniziativa militare.

In un conflitto di tal fatta, come per il genocidio o la forzata carestia, è anche problematico parlare di mancanza di proporzionalità. Un altro mito. E un’altra idiozia diffusa è che Israele sia da condannare perché non combatte contro un esercito. Un filone ragionativo che non merita alcuna ulteriore attenzione. Israele combatte contro Hamas, come detto sopra, che è una forza militare.

Come Hezbollah, del resto, lo è in Libano.

 

Se poi chi ragiona in questi termini lo fa perché crede che la proporzionalità consista essenzialmente nel raffronto bilanciato delle “perdite” sul terreno, civili e militari che siano, si può comprendere come l’ignoranza galoppi a briglia sciolte.

Sia chiaro, la proporzionalità svolge un ruolo fondamentale nel diritto internazionale umanitario.

È essenziale per regolamentare la condotta delle ostilità, richiedendo che il danno incidentale non sia eccessivo in relazione al vantaggio militare atteso. Un principio riportato qui e là tra le righe delle Convenzioni di Ginevra e dei Protocolli Aggiuntivi.

Tutto sta a capire cosa significhi quella parola: eccessivo.

I principi giuridici sono caratterizzati dal loro elevato grado di generalità. I principi prescrivono azioni non specifiche, mentre le regole sono formulate con maggiore precisione. Si parla di specificità delle norme, infatti. Un principio può anche avere un ambito di applicazione indefinito anche se, contrariamente alla norma, è “indefettibile”, mantenendo peraltro un carattere astratto e generale.

Il principio di proporzionalità compare in molte disposizioni e assume quindi una serie di forme diverse.

Ma quello che in questo contesto viene richiamato è quello applicabile agli “attacchi” e, in questo, fa sistema con quelli di distinzione e precauzione.

Ora, non si può tacere quanto possa essere importante questo principio ma, allo stesso tempo, mancando di una norma specifica, che peraltro in guerra sarebbe davvero complicato specificare, quanto sia diversamente interpretabile e adattabile alla realtà dei fatti.

Certo, esso è volto a disciplinare in qualche modo la protezione dei civili e dei beni civili nella condotta delle ostilità, sempre che i cosiddetti civili e beni non ne siano parte attiva. Vuole avere un ruolo limitante che incide, come accennato righe sopra, sul targeting, anche sulla scelta delle armi utilizzate, sulle misure precauzionali da adottare e sul danno incidentale, secondo un delicato equilibrio tra la necessità militare e il principio di umanità.

Tutto chiaro e inattaccabile.

Tuttavia, come già accennato sopra all’articolo 51 del Protocollo Aggiuntivo I, stessa cosa vale per l’articolo 57 del medesimo Protocollo, in merito alla necessità di prendere “precauzioni” allo scopo di aver cura “costantemente di risparmiare la popolazione civile, le persone civili e i beni di carattere civile”. Insomma, si tratta di “requisiti di ottimizzazione” caratterizzati dal fatto che possono essere soddisfatti in varia misura. Perché un obiettivo prefissato può sempre essere dichiarato conseguito a prescindere dai danni incidentali, che siano o no quelli preventivati. La sproporzione di un attacco, quindi la sua condotta indiscriminata rispetto al vantaggio atteso, non è facilmente imputabile. Di contro, suscettibile di essere facilmente e strumentalmente enfatizzata. É quindi evidente come il verificarsi o meno di atti contrari a tale principio, come per gli altri,  possa essere comprovato, e se mai perseguito, solo a posteriori. E dal vincitore il più delle volte. Già detto.

La questione della proporzionalità riemerge con forza oggi con la guerra a Gaza. Un conflitto che inevitabilmente si accanisce in aree densamente popolate, dove è altamente probabile che si verifichino vittime civili a causa della mescolanza di obiettivi militari e persone e oggetti protetti. Come si sarà ormai compreso, la verità sta nel fatto che i concetti di “danno eccessivo” e “vantaggio militare” sono indefiniti e, come tali, soggetti ad interpretazioni differenti. O strumentalizzazioni.

Peggio accade quando si opera la trasposizione tra il principio più comunemente noto in tempo di pace, nel contesto dell’autodifesa, con quanto invece può accadere e accade sul campo di battaglia.  Così, ad esempio, quando i cittadini o la polizia usano la forza letale, spesso ci si chiede se quell’uso sia stato “eccessivo”, al contrario di proporzionale, perché era più di quanto fosse ragionevolmente necessario. In questo contesto, il principio protegge l’aggressore, limitando la forza impiegata in risposta alla minaccia illecita.

Ma la guerra è ben altra cosa. E anche se può sembrare frustrante, semplicemente non c’è un’equazione matematica. Fintanto che non è valutato come eccessivo, il rischio per i civili è considerato proporzionale. In poche parole, è il giudizio di chi “preme il grilletto” che conta in termini di uso eccessivo o no, quindi se ci sia stata o meno proporzionalità. Conseguentemente, le condanne di un attacco come un crimine di guerra “basate sugli effetti” non hanno alcun senso. E, mi viene da dire, neanche sotto l’aspetto legale. Il condannare è solo un fatto istintuale, pur comprensibile. Ma di nessun valore. Perché, ripeto, è pressoché impossibile concludere che un attacco in guerra abbia violato il principio di proporzionalità senza considerare la situazione che ha condotto alla decisione di condurre quell’attacco e il momento in cui è stata presa. Può far rabbrividire i cultori del diritto e gli operatori di pace, ma è la realtà. Specialmente quando si affronta un nemico che cerca deliberatamente di aumentare il rischio di perdite tra i civili, nascondendosi tra di loro e facendosene scudo.

E dovremmo finirla di accarezzare il pelo ai cultori del bene assoluto con affermazioni secondo cui è eccessivo quello che sta facendo Israele oppure che Israele ha superato ogni limite. O che lo abbia fatto Netanyahu. Al riguardo, sono ancora alla ricerca di qualcuno che mi spieghi come Israele debba condurre questa guerra e che cosa Netanyahu, o chiunque altro al suo posto, dovrebbe invece fare. Nella mia convinzione che chiunque altro, anche dell’opposizione, non se ne discosterebbe granché. A meno di non ricondurre, temo dopo qualche tempo, la partita della violenza alla casella di partenza.  

Paradossalmente, nel contesto di Gaza, la mancata proporzionalità potrebbe essere ora quell’arma emozionale, e giuridica, in più nelle mani di Hamas, che contava su questo per lavarsi la coscienza dal sangue dei suoi connazionali. Sangue che, secondo la strategia seguita, come detto, Hamas ha imposto di versare. E anche dichiarato di volerne tanto. Ma anche questo passaggio lo si è dimenticato.

Nel voler addomesticare i principi del diritto internazionale umanitario a norme o regole, che la narrazione corrente impone di incanalare ormai in un’unica direzione, ci si allontana dalla realtà.

La si rigetta di fatto.

Essa, come diceva lo scrittore Philip Kindred Dick,  è ciò che non sparisce quando smetti di crederci, perché non sente l’obbligo di adeguarsi a ciò in cui i “fedeli del mito” credono.

E il mito cardine è che sia Israele il nemico dei palestinesi. Non lo è!

È Hamas.

*Generale di Corpo d’Armata Esercito (ris)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna in alto