Gaza: la guerra fuori dai limiti del diritto internazionale. Un capitolo che urla vendetta ma il diritto grida disobbedienza

Di Cristina Di Silvio*

WASHINGTON D.C.  La guerra ha una grammatica, e questa grammatica è fatta di limiti, proporzioni, vincoli morali e giuridici, che non sono orpelli etici, ma architravi della convivenza tra Stati e popoli.

Quando tali limiti vengono travolti, ciò che resta non è più la guerra, ma il caos organizzato dell’annientamento

Immagini di un attacco israeliano nella Striscia di Gaza

 

A ricordarcelo oggi non sono più le piazze, né le cancellerie, spesso afone o disorientate, bensì due voci potenti, diverse ma convergenti: quella degli accademici israeliani delle facoltà giuridiche, profondamente radicati nella tradizione del diritto internazionale e nella filosofia morale, e quella dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, che, con raro coraggio e lucidità, ha scelto di chiamare per nome ciò che il diritto oggi osserva nella Striscia di Gaza: crimini contro l’umanità, violazioni sistematiche delle convenzioni di Ginevra, e forse, qualcosa che inizia a somigliare alla soglia del genocidio.

Le due dichiarazioni, apparse a pochi giorni di distanza, non sono manifesti ideologici né petizioni emotive.

Sono il frutto di una riflessione radicalmente giuridica, ma non per questo priva di tensione morale.

I giuristi israeliani, nella loro lettera aperta al primo ministro Netanyahu, tracciano con meticolosa precisione i confini tra autodifesa e illegalità armata. Sottolineano come il diritto internazionale riconosca allo Stato attaccato il diritto all’uso della forza, ma a due condizioni inderogabili: necessità e proporzionalità.

Condizioni che devono valere non solo nel momento iniziale di una guerra, ma lungo tutta la sua prosecuzione.

Familiari di alcuni degli ostaggi catturati il 7 ottobre 2023 nel corso di una dimostrazione

 

Oggi, a distanza di quasi due anni dall’attacco del 7 ottobre 2023, affermano con chiarezza che la prosecuzione delle operazioni militari contro Gaza ha varcato quella soglia.

Hamas, dicono, è ormai fortemente ridimensionato nelle sue capacità offensive; la sua funzione strategica come minaccia esistenziale sarebbe già stata neutralizzata. Eppure, i combattimenti proseguono, gli ospedali vengono colpiti, i civili restano sotto assedio, e la devastazione infrastrutturale raggiunge livelli inimmaginabili.

Dall’Italia, l’Associazione degli Avvocati Penalisti, nel suo documento firmato dai più eminenti giuristi del Paese, non si limita a osservare gli eventi da una distanza analitica. Si schiera. Condanna con fermezza le violazioni del diritto penale internazionale, e sottolinea l’abisso che si sta spalancando sotto i nostri occhi: quello dell’impunità.

È un’accusa grave, lanciata non solo contro gli attori del conflitto, ma contro l’intero sistema internazionale che, nel silenzio o nell’ambiguità, sta permettendo che il diritto venga sistematicamente subordinato alla politica, alla propaganda, alla ragione di Stato. A inquietare maggiormente è proprio questo: il fatto che la giustizia penale internazionale – costruita faticosamente nel corso del XX secolo, dall’orrore di Norimberga alla nascita della Corte Penale Internazionale nel 1998, a Roma – venga oggi delegittimata, ostacolata, ridotta a teatro diplomatico.

Un’immagine del processo di Norimberga

 

È significativo che entrambe le dichiarazioni richiamino il ruolo della Corte Penale Internazionale, la stessa che ha emesso mandati di arresto nei confronti di Vladimir Putin per crimini di guerra in Ucraina, ma anche del primo ministro israeliano Netanyahu e di leader di Hamas.

La simmetria di questi atti giudiziari ha un valore fondamentale: afferma il principio che nessun autore di crimini internazionali, da qualunque parte provenga, possa considerarsi al di sopra del diritto.

Eppure, proprio tale imparzialità viene oggi attaccata.

La Corte è sotto pressione, colpita da campagne di discredito che, in nome della sovranità nazionale o della lotta al terrorismo, minano la sua credibilità e la sua operatività. La comunità internazionale, invece di sostenerla, sembra preferire l’ambiguità del doppio standard.

La sede della Corte Penale Internazionale

In parallelo, la Corte Internazionale di Giustizia – massimo organo giurisdizionale delle Nazioni Unite – il 19 luglio 2024 ha emesso un parere consultivo di portata storica.

Ha stabilito, senza ambiguità, che l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, inclusa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, è illegale.

Ha condannato le politiche di insediamento, le espulsioni forzate, la frammentazione del territorio e l’oppressione sistemica della popolazione palestinese. Ha imposto a tutti gli Stati l’obbligo giuridico di non riconoscere né sostenere tali pratiche.

È un verdetto che, pur non essendo vincolante, ha il potere di trasformare la postura diplomatica globale, di ridefinire le alleanze, di esigere coerenza dalle democrazie occidentali che spesso invocano il diritto solo quando conveniente.

In tale contesto, le parole dei giuristi israeliani assumono un significato ancora più potente: non si tratta di un’opposizione politica, ma di un richiamo interno, civile, a non perdere ciò che resta dell’identità di Israele come Stato di diritto.

La guerra, così come viene condotta oggi, non solo mette in pericolo i civili palestinesi, ma espone a rischi morali, psicologici e strategici anche i soldati israeliani, la società civile e l’intero tessuto democratico dello Stato.

La prosecuzione delle ostilità, in assenza di un chiaro obiettivo realistico e conforme al diritto, si trasforma in una spirale autodistruttiva, che erode la legittimità dello Stato stesso agli occhi del mondo e dei propri cittadini.

Ma è proprio qui che il discorso diventa universale. La questione non riguarda più solo Israele o la Palestina.

Riguarda l’intero ordine giuridico internazionale. Siamo davanti a una crisi sistemica che investe i pilastri su cui è stata edificata la comunità globale post-bellica: la centralità dei diritti umani, l’interdizione della guerra come strumento di politica estera, l’obbligo di protezione dei civili, la responsabilità penale individuale per i crimini più gravi.

Tutto questo oggi vacilla. Il rischio è di assistere a una restaurazione dell’impunità, a una regressione verso un mondo pre-moderno, in cui la forza definisce il diritto e la violenza produce verità. Ecco perché le due dichiarazioni rappresentano qualcosa di più di un appello: sono atti di resistenza giuridica, forse gli ultimi argini contro il ritorno del disordine normativo globale.

Sono anche richiami profondamente umani. I professori italiani ricordano con dolore come l’orrore del 7 ottobre, con il massacro dei civili israeliani e la cattura degli ostaggi, abbia innescato una spirale perversa, in cui il dolore di una parte è stato sommerso da una reazione che oggi sembra cieca, sproporzionata, devastante.

Ma ammoniscono: la violenza non si risolve con altra violenza. Il dialogo, la giustizia, la riconciliazione sono le sole vie percorribili per evitare che l’umanità precipiti nuovamente nel baratro.

La geopolitica attuale, segnata da un riassetto multipolare sempre più confuso e da conflitti congelati o espansi – dall’Ucraina allo Yemen, dal Sudan al Caucaso —+- è attraversata da un medesimo interrogativo: il diritto internazionale sopravviverà all’epoca delle guerre asimmetriche e dei regimi illiberali?

O assisteremo al suo lento smantellamento, travestito da pragmatismo?

Gaza, oggi, è più di una tragedia umanitaria. È il campo di prova in cui si misura la tenuta della coscienza giuridica mondiale. In ogni palazzo di giustizia, in ogni aula universitaria, in ogni consesso diplomatico, ciò che si decide — silenziosamente, ogni giorno — è se il diritto sarà ancora la lingua delle nazioni, o solo un residuo retorico per conferenze e comunicati.

Chi scrive, e chi legge, ha una responsabilità ineludibile: non distogliere lo sguardo. Non rimanere muti davanti a un massacro, perché ogni bomba sganciata senza legittimità giuridica e senza un chiaro obiettivo conforme al diritto non è soltanto un crimine contro le vittime immediate, ma una frattura inflitta all’intero edificio della civiltà giuridica internazionale.

Ogni attacco sproporzionato, ogni ospedale distrutto, ogni bambino ucciso o lasciato morire di fame tra le macerie di Gaza, scava un solco profondo nella memoria collettiva del mondo, e rende più difficile — forse impossibile — credere ancora nel principio che l’essere umano, prima ancora che cittadino o nemico, è titolare di diritti intangibili.

La storia, in fondo, non dimentica. Le grandi ingiustizie non evaporano nel tempo: sedimentano nella coscienza delle nazioni, ritornano nei tribunali, nelle aule, nei trattati, nei manuali di diritto. Così è stato per i crimini dell’era coloniale, per i genocidi del Novecento, per le guerre umanitarie degenerati in fallimenti morali.

Gaza, oggi, rischia di diventare uno di quei nomi scolpiti nel lessico dell’orrore, ma può ancora essere, se la comunità internazionale avrà il coraggio di reagire, il punto di svolta da cui ripartire per ripristinare la centralità del diritto.

Ma il diritto non si impone da solo. Ha bisogno di giuristi che lo difendano, di cittadini che lo reclamino, di istituzioni che lo incarnino. Ha bisogno di accademici israeliani che, in un momento di massima tensione, trovano la forza morale di scrivere al proprio governo per denunciare l’illegalità della guerra.

Cucine comuni a Gaza

Ha bisogno di penalisti italiani che, anziché rifugiarsi nel silenzio formale, scelgono la via più esposta: quella dell’assunzione di responsabilità scientifica e civile. Ha bisogno di voci che parlino con rigore, ma anche con empatia, che sappiano coniugare il linguaggio della norma con quello dell’umanità, perché ogni dottrina giuridica è sterile se non sa ascoltare il grido del dolore.

Non si tratta di schierarsi politicamente, ma di riconoscere il limite. Quel limite che distingue la forza legittima dalla brutalità, la difesa dalla vendetta, l’ordine internazionale dalla giungla della prepotenza.

Oggi, quel limite è stato superato. Lo dicono i dati: oltre 38 mila morti, secondo fonti ONU; più di 70% delle infrastrutture civili distrutte; milioni di sfollati in una delle aree più densamente popolate del pianeta. Lo dice la fame, la sete, la mancanza di cure, la disperazione trasmessa in diretta, senza possibilità di smentita.

Lo dice la legge, quella vera, quella che vive nei trattati e nelle Costituzioni, e che oggi chiede conto del perché le sue clausole siano diventate carta straccia sotto il fuoco dei droni.

Ma soprattutto, lo dice la coscienza. La stessa coscienza che spinse i giuristi del dopoguerra a creare norme capaci di impedire il ritorno dell’indicibile.

La stessa coscienza che, ancora oggi, ci chiede di scegliere da che parte della storia vogliamo stare.

Con i carnefici giustificati dalla ragion di Stato, o con chi – tra le macerie –continua a credere che il diritto non sia solo un insieme di regole, ma la sola possibilità di giustizia che ci resta.

Gaza non è soltanto una guerra. È uno specchio.

E in quello specchio, l’Occidente – culla del diritto, dell’umanesimo e delle libertà – deve trovare il coraggio di guardarsi davvero.

Prima che sia troppo tardi.

*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)

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