Di Bruno Di Gioacchino
TEL AVIV. Da mesi il dibattito sulle vittime a Gaza è diventato un terreno minato, dominato da accuse reciproche, propaganda e una crescente incapacità di guardare alla realtà nel suo complesso. In molti si interrogano sulle cifre diffuse dal Ministero della Salute di Gaza, controllato da Hamas, mentre altri tendono ad accettarle senza porsi domande.

Ma qualsiasi discussione seria, equilibrata e rispettosa della verità deve partire da un punto spesso rimosso, quasi fosse un dettaglio secondario: il conflitto è esploso dopo il massacro del 7 ottobre, quando Hamas ha compiuto un attacco deliberato, pianificato e sanguinoso contro civili israeliani, uccidendo, rapendo e terrorizzando famiglie nei kibbutz, ai concerti, nelle case.

Quel giorno ha rappresentato un trauma profondo per Israele e ha innescato la reazione militare che ha portato all’offensiva a Gaza.
È un fatto storico e morale che non può essere cancellato, né minimizzato, né relativizzato.
Riconoscere questa realtà non significa ignorare la tragedia che si è abbattuta sui civili palestinesi.
Significa però affermare che le responsabilità iniziali esistono e sono chiare.
Conseguentemente, qualsiasi riflessione sulle vittime di Gaza non può prescindere dal contesto in cui quelle vittime sono state prodotte: una guerra scatenata da un atto di terrore contro un Paese sovrano, un attacco che ha portato a una risposta militare inevitabile nella logica degli Stati e prevedibile nelle sue conseguenze.
Detto questo, il secondo punto da affrontare con lucidità è che, indipendentemente da chi abbia dato inizio al conflitto, la situazione sul terreno nella Striscia di Gaza è umanamente devastante.
Interi quartieri sono stati distrutti, infrastrutture civili sono collassate e il numero dei morti è sicuramente molto alto, anche se non quantificabile con precisione assoluta.
Negare in blocco qualsiasi cifra perché fornita da un organismo legato a Hamas è troppo facile, ma accettarle senza spirito critico è altrettanto superficiale.
In un contesto di guerra, nessuna parte è un osservatore neutrale.
Il tema delle vittime “invisibili”, dei corpi non recuperati o non mostrati, viene spesso portato come argomento per mettere in dubbio i numeri.
Ma la realtà delle guerre urbane moderne, dalla Siria a Mariupol, insegna che centinaia o migliaia di persone possono restare per mesi sotto le macerie, che esistono sepolture di emergenza, fosse comuni improvvisate, evacuazioni incomplete, e che il caos non permette sempre un censimento accurato o immediato.
In molti casi, la presenza di zone completamente distrutte e difficili da raggiungere spiega l’assenza di immagini precise o sistematiche.
Il vero equilibrio si trova dunque nel reggere insieme tutte queste verità, senza strumentalizzarne una per negare le altre.
Le vittime di Gaza non esistono “al posto delle case”, come talvolta si afferma con leggerezza, ma neppure possono essere utilizzate per cancellare la responsabilità chiara e diretta dell’attacco del 7 ottobre, che resta la causa scatenante.
Il dolore israeliano non annulla quello palestinese, e il dolore palestinese non riscrive ciò che è accaduto quel giorno.
Due tragedie possono coesistere e non si annullano.
L’onestà intellettuale richiede di ammettere che non esistono numeri totalmente verificabili, né fonti totalmente neutre.
Richiede però anche di non chiudere gli occhi davanti all’enormità della sofferenza civile, senza trasformarla in un esercizio contabile o in un argomento ideologico.
Richiede di non fingere che tutti gli attori abbiano le stesse responsabilità.
E richiede, soprattutto, di non perdere la capacità di distinguere tra causa e conseguenza, tra aggressione e reazione, pur sapendo che ogni reazione bellica porta con sé a sua volta nuovi drammi e nuovi lutti.
Riconoscere la complessità non significa mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, né negare l’una o l’altra sofferenza.
Significa guardare la realtà nella sua interezza, sapendo che ogni parzialità porta inevitabilmente a una verità distorta.
E significa, in un tempo in cui tutti gridano, provare almeno a parlare con misura, coscienza e rispetto per ogni vita perduta, senza mai dimenticare come tutto è iniziato.
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