Di Cristina Di Silvio*
WASHINGTON D.C. “È venuto il momento di porre fine a questa carneficina senza senso”.
Con queste parole, pronunciate in occasione dell’anniversario dell’indipendenza di Kiev, il Presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, ha sintetizzato in modo secco e brutale la tragedia ucraina.

Un conflitto che ha riesumato i meccanismi della Guerra Fredda, riattivato dispositivi militari sopiti e riconfigurato equilibri geostrategici globali, con un’Europa tornata a dipendere dal perimetro protettivo della NATO e una Russia definita unilateralmente come Stato canaglia.
In questo contesto, ogni morte civile viene denunciata come un atto disumano, ogni attacco a strutture mediche come crimine di guerra, ogni aggressione alla stampa come offesa alla libertà. Una narrazione coerente, puntellata da un linguaggio bellico-morale codificato: aggressore e aggredito, carnefice e vittima, resistenza e invasione.
Ma se per l’Ucraina il paradigma è chiaro e indiscutibile, se ogni bombardamento è carneficina e ogni civile è tragedia, perché la stessa chiarezza lessicale e politica svanisce quando si parla di Gaza?

L’asimmetria tra la reazione globale alla guerra in Ucraina e quella all’offensiva israeliana su Gaza non è un’anomalia casuale: è il sintomo sistemico di un ordine internazionale governato da una giustizia selettiva e da una moralità geopolitica condizionata dagli interessi strategici.
Il diritto internazionale umanitario – in particolare le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Protocolli Addizionali del 1977 – vieta espressamente gli attacchi contro civili, personale medico e giornalisti.
L’articolo 18 della IV Convenzione di Ginevra tutela esplicitamente le strutture ospedaliere, mentre l’articolo 79 del Primo Protocollo Addizionale garantisce la protezione dei giornalisti che operano in zone di conflitto.
Inoltre, la Carta delle Nazioni Unite all’articolo 2, paragrafo 4, proibisce l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato o popolo.
Gaza, pur non essendo uno Stato sovrano riconosciuto universalmente, è considerata dalla comunità internazionale un territorio occupato, e come tale soggetto alla protezione piena del diritto bellico.
La distruzione sistematica della Striscia non è più configurabile come “legittima difesa” – concetto invocato da Israele facendo riferimento all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite – ma come attacco sproporzionato e punitivo, che configura le caratteristiche della punizione collettiva, vietata dall’articolo 33 della IV Convenzione di Ginevra.
La Corte Internazionale di Giustizia, nel gennaio 2024, ha accettato il ricorso del Sudafrica che accusava Israele di violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948), stabilendo l’obbligo di misure provvisorie per evitare un danno irreparabile alla popolazione palestinese.
Tali misure, fino a oggi, non sono state implementate.
Eppure, a differenza del caso ucraino – dove la solidarietà occidentale è compatta, articolata e mobilitata – Gaza è diventata il paradigma dell’impunità politica e del silenzio mediatico.
Le stesse potenze che sanzionano Mosca per l’invasione dell’Ucraina sono quelle che supportano Israele, ignorando oltre un centinaio di risoluzioni delle Nazioni Unite.
Tra le più rilevanti: la Risoluzione 242 del 1967, che chiede il ritiro israeliano dai territori occupati; la Risoluzione 338 del 1973, che sollecita l’attuazione della 242; la Risoluzione 194 del 1948, che sancisce il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi; la Risoluzione 2334 del 2016, che condanna la costruzione di insediamenti illegali nei territori palestinesi; e, da ultimo, la Risoluzione 2728 del 2024, che ha chiesto un cessate il fuoco immediato a Gaza, approvata con 140 voti a favore, tra cui Francia, Cina, Brasile, Giappone, Spagna, Irlanda, Belgio, Norvegia, Sudafrica e numerosi Stati del Sud globale.
Israele, spalleggiato dagli Stati Uniti, ha ignorato la risoluzione senza conseguenze pratiche.

Contro questa normalizzazione del massacro, diversi Paesi hanno scelto di rompere il silenzio diplomatico. Spagna, Norvegia e Irlanda hanno ufficialmente riconosciuto lo Stato di Palestina nel 2024, seguendo l’esempio già dato in passato da Svezia, Islanda, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria e Malta.
A livello globale, oltre 140 Stati membri delle Nazioni Unite hanno formalmente riconosciuto la Palestina, inclusi Brasile, India, Cina, Russia, Sudafrica, Turchia, Egitto, Indonesia, Argentina, Messico, Algeria, Arabia Saudita, e quasi tutta l’Africa subsahariana.
Questa legittimazione internazionale, tuttavia, resta priva di efficacia concreta in assenza di una volontà collettiva di far rispettare i principi fondamentali del diritto internazionale.
Nel frattempo, la semantica del conflitto continua a operare come strumento di delegittimazione.
A Kiev, i combattenti sono definiti “partigiani della libertà”, a Gaza sono invece considerati “terroristi”.
In Ucraina, ogni morte civile è un atto barbarico; in Palestina, è un “effetto collaterale”. Il diritto alla resistenza, sancito dalla Risoluzione 37/43 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1982, vale solo per alcuni popoli.
La difesa dei diritti umani, se selettiva, è un esercizio di potere, non di giustizia.
Il diritto internazionale, se non è universale, diventa strumento di dominio. Finché la vita palestinese verrà considerata sacrificabile, mentre altre vite vengono protette e difese con vigore, nessuna retorica sulla pace, sulla sicurezza o sulla democrazia potrà più essere credibile.
Perché il diritto alla vita non è una concessione: è un fondamento.
E ogni carneficina, ovunque e comunque, è e resterà senza senso.
La geopolitica, senza coerenza morale, è cinismo istituzionalizzato. Il diritto internazionale, senza applicazione universale, è propaganda.
*Esperta Relazioni internazionali, istituzioni e diritti umani (ONU)
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