Di Lodovica Palazzoli
Roma. Destinazione Niger: al tavolo della geopolitica un’importante partita è in corso nel Sahel, la regione che attraversa il continente africano dalla Mauritania al Sudan. E la voglia di essere parte del gioco è grande anche nel Governo Gentiloni, ormai alle ultime battute di legislatura.
La missione italiana, che dovrebbe partire nei primi mesi del 2018, si inserisce nel progetto a guida francese nato a Celle Saint Claud lo scorso luglio, per volontà del Presidente Emmanuel Macron. Lo scenario è interessante quanto complesso e al di là delle buone intenzioni di Palazzo Chigi, in attesa del via libera da parte delle Camere, sono tante le problematiche legate all’impiego dei militari italiani sul territorio nigerino.
Report Difesa ha intervistato Germano Dottori, docente di Studi Strategici all’Università LUISS di Roma.
Professor Dottori che idea si è fatto di questa nuova missione?
Di una missione militare italiana in Niger si è parlato fin dalla scorsa primavera. Apparentemente è in atto un’accelerazione, ma è difficile prevedere quando davvero i soldati italiani saranno sul terreno. L’annuncio del nuovo intervento, infatti, è giunto in un momento difficile, perché per avviarlo, stando alla legge, occorre un via libera dal Parlamento che però dovrà essere sciolto. Di scappatoie procedurali se ne vedono poche e di dubbia praticabilità. Il Governo potrebbe sottoporre la deliberazione dell’intervento a un voto delle Commissioni Esteri e Difesa, che non sarebbe impossibile da ottenere, anche se non manca chi che teme una nostra subalternità alla Francia.
Comunque, bisognerebbe poi andare in Aula e l’esperienza insegna che a Camere sciolte è quasi impossibile assicurare il numero legale. Io sono del parere che andando in Niger noi contribuiremmo a stabilizzare il Sahel, cosa che di certo è anche nel nostro interesse nazionale. Se gli Stati del Sahel si consolidano, potranno aiutarci a contenere i flussi migratori irregolari che ci raggiungono e che probabilmente torneranno ad intensificarsi con il ritiro della Guardia costiera libica dalla sua area marittima di responsabilità per la ricerca e il soccorso dei naufraghi.
Qual è però il rapporto tra costo della missione e utilità che possiamo trarne?
La deliberazione del Governo sulla missione risulta essere già depositata alle Camere che l’hanno messa in stand by a causa dell’esame della legge di bilancio, la quale aveva necessariamente la precedenza ed ha assunto un andamento caotico. A quanto pare, il Governo conta di mantenere sostanzialmente invariata la spesa sostenuta complessivamente per le missioni, alleggerendo la presenza in Iraq che, logisticamente, costa molto. Negli ultimi anni, agli interventi militari all’estero è stato destinato poco meno di un miliardo di euro in sede di bilancio ma si è sempre speso un 30-40% in più. Sarà lo stesso nel 2018. Io mi aspetto una convocazione delle Commissioni per un primo voto d’indirizzo sulla nuova operazione anche a Camere sciolte. Però non è da escludere un rinvio a marzo o ad aprile che tuttavia renderebbe poco comprensibile il recente annuncio della nuova missione da parte del Governo Gentiloni. C’è tanta approssimazione. Dispiace constatarlo ma la politica estera e i suoi aspetti militari continuano a ricevere scarsa considerazione nel nostro Paese.
Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni ha chiarito che la missione avrà lo scopo di combattere il terrorismo e contrastare il traffico di esseri umani. Il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Claudio Graziano, però ne ha sottolineato la natura “no combat”. Come possono coincidere queste due finalità?
Le regole di ingaggio sono sempre segrete, per evitare che il nemico conoscendole possa avvantaggiarsene, quindi non sappiamo con esattezza cosa potranno veramente fare i nostri militari. Il “no combat” del generale Graziano a mio avviso va inteso nel senso che non c’è un nemico ufficiale designato contro il quale operare offensivamente ma senza che ciò implichi l’impossibilità di difendersi per i nostri soldati, che partiranno armati e immagino anche ben equipaggiati.
A proposito di numeri: circa 500 militari, mezzi e velivoli da ricognizione, per pattugliare il confine con la Libia lungo 600 chilometri, dall’avamposto di Madama ed addestrare le truppe nigerine nella capitale Niamey. Sono capacità sufficienti?
Una valutazione precisa potrà essere fatta una volta che la scheda tecnica di accompagnamento alla deliberazione dell’intervento sarà nota. Spero sia previsto l’impiego di droni. I numeri contenuti non debbono comunque spaventare. In molti Paesi africani agli europei bastano poche centinaia di uomini per fare la differenza.
Tutto questo, potrebbe trattarsi di un primo tentativo di tradurre in fatti il progetto di Difesa Comune Europea, in seguito anche alla nascita della PESCO, la cooperazione strutturata permanente?
Assolutamente no, non credo proprio, anche se si farà di tutto per convincere la gente che è così. Qui si tratta semplicemente di una collaborazione intergovernativa messa in piedi da un certo numero di Stati europei che hanno alcuni interessi coincidenti, non di un’espressione della difesa comune europea. Prima che l’Europa riesca a raggiungere il livello di integrazione militare che possiede la Nato, ci vorrà molto tempo; sempre ammesso che ci si riesca e sia desiderabile riuscirci.
Secondo lei stiamo andando veramente a difendere l’uranio della Francia, di cui il Niger è il quarto Paese esportatore al mondo?
Direi di non montarci la testa. Se lei fosse nei francesi, per i quali l’uranio rappresenta una risorsa strategica fondamentale, affiderebbe la difesa di questo patrimonio agli italiani o provvederebbe da sé? I francesi non ci hanno dato a cuor leggero neanche la gestione dei loro cantieri navali, figurarsi la protezione delle miniere d’uranio. Non è sfiducia nelle nostre capacità: è proprio che ci considerano loro competitori e rivali, seppure non alla pari
Dietro la mossa in Niger potrebbe esservi un interesse di scambio di potere legato a filo doppio con la situazione libica, in cui sia noi che i francesi abbiamo forti interessi?
La Francia è politicamente troppo più forte dell’Italia. Apparteniamo a classi di potenza differenti. Loro sono una potenza nucleare, membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ed hanno al vertice un presidente fresco di elezioni che ha pieni poteri in materia di politica estera e di difesa. Macron può usare a piacimento la forza militare francese senza passare per il Parlamento. Noi, di contro, abbiamo un problema a muovere i soldati in questo periodo di interregno tra la vecchia legislatura e quella che verrà. E poi c’è il sistema-Paese, costruito cartesianamente dai francesi per perseguire al meglio i loro interessi nazionali, mentre il nostro è congegnato per facilitare la protezione degli interessi locali e corporativi. Non possiamo pensare di trattare con la Francia da pari a pari. Abbiamo bisogno di un sostegno alle nostre spalle per poterlo fare: idealmente l’America di Donald Trump. Che però Macron corteggia efficacemente, mentre i nostri governanti guardano ancora ai liberal di Washington, che sono all’opposizione. Non abbiamo bisogno di invitare la Francia in Libia, si è già autoinvitata nel 2011, con i risultati che tutti conosciamo. Anche oggi, lì appoggia la parte opposta alla nostra: sta con Haftar e quindi con l’Egitto; mentre noi appoggiamo Serraj che è stato scelto anche perché a noi gradito. Pare, tra l’altro, che prima di dirigere il Governo di Accordo Nazionale si occupasse di un negozio di ferramenta a Roma.
Quindi nessuna intenzione di scambio di potere con la Francia tra Libia e Niger?
Speriamo proprio di no, altrimenti sarebbe uno scambio suicida. Perderemmo la prima, che è per noi essenziale, senza acquisire il secondo, che non ci servirebbe a nulla, non avendo il nostro Paese un’industria energetica nucleare e tanto meno un deterrente nucleare militare.
Perché però decidersi solo ora a intervenire in Niger? La situazione lì era nota da anni e poi è esplosa con la caduta di Gheddafi nel 2011.
Perché sono venute a maturazione gradualmente alcune consapevolezze. In particolare, i Paesi del Sahel hanno capito di essere esposti alle stesse tensioni che avevano destabilizzato il Mali. E sono corsi ai ripari, creando una struttura di cooperazione militare con la quale cercare di aiutarsi l’un l’altro. Si sono accorti però di non farcela da soli. Di qui l’apporto europeo e quello degli Stati Uniti, di cui poco si parla, ma che ha già comportato la perdita di alcuni soldati americani ed il versamento di contributi finanziari. Una cosa non banale, considerata la postura internazionale prescelta da Donald Trump.
© RIPRODUZIONE RISERVATA