Di Marco Petrelli*
ROMA (nostro servizio particolare). Non è da tutti saper raccontare le Forze Armate con una preparazione salda su argomenti e storia militare. Né è una capacità diffusa fra i giornalisti italiani dei nostri tempi.
Complici decenni di indifferenza mediatica, per molti italiani la conoscenza della res militaria si limita ai ricordi di chi ha fatto la Leva, o resta ben salda a pregiudizi duri a morire.
Pregiudizi ai quali, sovente, si è attaccati più per opportunità che per convinzione: ammettere l’errore non è mai facile, ancor meno accettare di porsi in discussione specie quando le proprie credenze sono monolitiche.
Il nuovo scacchiere internazionale impone tuttavia una riflessione sul ruolo, sempre più importante, di un professionista dell’informazione preparato e capace di comunicare, con chiarezza e con correttezza, situazioni e contenuti coniugati al mutevole scenario geopolitico europeo e mondiale.
La crisi ucraina, ad esempio, è stata accompagnata dalla nascita di “analisti” improvvisati che, da casa o da studi televisivi, pretendevano di spiegare cosa stesse accadendo fra Mosca e Kiev.

Soldati ucraini
Colleghi che, non ce ne vogliano, erano e sono soliti chiamare carro armato qualunque cosa abbia una corazza.

Un Carro armato che acquisisce il bersaglio
Così un BTR ed un T70 sono la stessa cosa; quanto a ciò che vola, il MiG29 ce l’ha solo la Russia perché è di fabbricazione russa.

I Mig-29M Fulcrum polacchi
No, è in dotazione anche ad ex membri del Patto di Varsavia ora parte dell’Alleanza Atlantica.
Non sono caccia di ultimissima generazione né di prima linea ma, all’occorrenza, sanno ancora fare il proprio dovere. Colleghi che, non ce ne vogliano ancora, pretendono di capire senza conoscere il passato degli scenari che analizzano.
La corretta analisi di un Teatro di crisi e degli attori che ne calcano il palco richiederebbe infatti tre cose: conoscenza della storia di quell’angolo di mondo e del suo potenziale militare, un’informazione costante sugli sviluppi sociali, economici e diplomatici che lo interessano ed una valutazione del contesto quanto più obiettiva possibile.
A prescindere dalle linee editoriali, dalle aspettative dei lettori e da posizioni prettamente personali.
L’obiettività è sempre la prima cosa: dico e scrivo ciò che è, non ciò che vorresti leggere. Regola che vale dal cronista di nera all’embedded.
Ruolo complesso del mondo giornalistico, l’embedded è un reporter poliedrico e multi-tasking.
Formato sulla storia e sulla politica internazionale, non applica le sue conoscenze ai soli conflitti, raccontando invece il mondo militare a prescindere dall’impiego operativo di una Forza Armata o di una unità.
Si può essere infatti embedded anche sul territorio nazionale, in caso di calamità o seguendo militari in addestramento.
Elemento chiave per il suo lavoro è il P.I. (Public Information), ufficio/persona incaricata di seguire il giornalista aggregato nel corso dell’attività in Teatro, base, caserma, etc.
Una figura militare non nuova: i primi P.I., infatti, si affacciarono alla finestra della storia nell’ultimo anno della Prima Guerra mondiale, come elementi del Nucleo “P” fortemente voluto dal Generale Armando Diaz.

Il Generale Armando Diaz
Tuttavia, è dopo la Missione IBIS in Somalia che il ruolo del P.I. palesa la sua importanza, sia per informare il pubblico sull’attività in Patria ed all’estero, sia per facilitare la conoscenza di un ambiente ancor oggi molto poco noto.
“Da sempre e dovunque le relazioni tra i media ed i militari sono state tese. La tentazione militare di controllare i media ed il desiderio dei giornalisti di emanciparsi da questo controllo per portare a termine la loro missione d’informazione resteranno sempre la fonte di una tensione irriducibile tra le due organizzazioni” scrive il veterano del giornalismo di guerra Fausto Biloslavo, in Mass-Media e Forze Armate. Evoluzione dei rapporti fra militari e giornalisti Il ruolo strategico del giornalismo embedded pubblicazione del 2010, disponibile sul sito della Difesa (https://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMISS/Pubblicazioni/Documents/80005_Mass_medipdf.pdf)
Controllo, che brutta parola! Per esperienza, è opinione di chi scrive che non sia una linea di condotta generale delle Istituzioni: il lavoro embedded ti porta infatti a confrontarti con ufficiali di Pubblica informazione la cui cultura, curiosità e rispetto per te e per la tua attività ti spingono ad amare ancora di più ciò che stai facendo.
Le sacche di resistenza sopravvivono invece a causa di pregiudizi duri a morire che, manco a dirlo, ammantano anche l’ambiente giornalistico.
Parliamoci chiari: non si fa l’embedded o il P.I. inseguendo un’idea di carriera, specie in un Paese nel quale le Forze Armate hanno sempre avuto poco spazio sull’informazione generalista. Lo si fa per amore e per passione. E’ soddisfacente e duro nello stesso tempo.
Tentare di tenere tutto sotto controllo può funzionare con i giornalisti che non alle spalle grossi network e che, per continuare a fare ciò che amano, volenti o nolenti lo accettano.
E non è detto che funzioni: alle corde, per il reporter del piccolo giornale come per il decano del giornalismo, il Direttore è sempre quello che ha l’ultima parola. E’ lui che decide se il pezzo sia idoneo. Nessun altro.
Se il preconcetto del giornalista “carogna” non si può sconfiggere a tutti i livelli, è lecito almeno che fra professionisti dell’informazione si impari ad andare oltre.
Le eventuali “brutte esperienze passate” sono una scusa che non regge più.
In questo momento, mentre scriviamo, vi è una nuova crisi fra Pechino e Taiwan, droni ucraini hanno colpito il suolo russo ed in Kosovo le tensioni si stanno riaccendendo.

Continua ancora la crisi tar Pechino e Taipei
Fiducia vuol dire prontezza e la prontezza garantisce buona copertura mediatica e, perché no, qualità dell’informazione.
All’alba del 2023, sorge dunque la necessità di rendere ancor più fluido il rapporto collaborativo fra figure strategiche auspicando che, quanto prima, tramontino definitivamente deleteri pregiudizi.
*Giornalista
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