Di Bruno Di Gioacchino
WASHINGTON D.C. Donald Trump ha di nuovo alzato il tono. In vista delle elezioni per il sindaco di New York City , ha minacciato di tagliare i fondi federali alla città se dovesse vincere Zohran Mamdani, il candidato progressista socialista. “New York non avrebbe alcuna possibilità di successo, o addirittura di sopravvivenza”, ha dichiarato.
Una frase che, più che un avvertimento politico, suona come una vera e propria sfida di potere.

Ora, la domanda è inevitabile: si tratta di una normale schermaglia elettorale o di qualcosa di più profondo? Forse di un primo segnale di quella che, nel linguaggio delle relazioni internazionali, si chiamerebbe “guerra asimmetrica”?
Nel campo della sicurezza e della geopolitica, con “guerra asimmetrica” si indica lo scontro tra forze molto diverse tra loro: uno Stato contro un gruppo non statale, un Esercito contro un movimento clandestino, o anche una potenza che usa strumenti economici e informativi per piegare un avversario più debole.
Tradotta in chiave politica interna, l’espressione può servire a descrivere una dinamica altrettanto chiara: l’uso di strumenti non convenzionali – economici, legali o simbolici – da parte di un potere dominante contro chi viene percepito come ribelle o oppositore.
È quello che sembra accadere oggi negli Stati Uniti.
La minaccia di Trump non è un semplice slogan da campagna: è l’uso del potere federale come leva di pressione. Storicamente, i rapporti tra Washington e le città non sono mai stati idilliaci.
Dalle battaglie per i diritti civili agli scontri sulle politiche ambientali, gli Stati Uniti hanno conosciuto spesso tensioni fra governo centrale e amministrazioni locali.
Ma in questo caso c’è qualcosa di diverso: la contrapposizione si è fatta personale, quasi tribale. New York, città simbolo del progressismo, diventa agli occhi di Trump il “nemico interno”, la roccaforte da punire.
L’immagine che ne esce è quella di una “guerra politica” a tutti gli effetti: da un lato il potere federale, dall’altro una città globale che rivendica la propria autonomia.
Certo, non ci sono armi né carri armati, ma gli strumenti di pressione sono altri: fondi pubblici, minacce, delegittimazione.
Il bilancio federale diventa un’arma, la città un campo di battaglia simbolico.

Sul piano ideologico, lo scontro racconta la spaccatura tra due Americhe: quella urbana, cosmopolita e progressista, e quella più conservatrice, che vede in Trump il proprio interprete. Minacciare New York significa colpire il cuore dell’élite liberal, trasformando la campagna elettorale in una resa dei conti culturale.
È una strategia di mobilitazione: l’attacco alla metropoli serve a galvanizzare la base, a contrapporre “il popolo” alla “città dei privilegiati”.
Dal punto di vista istituzionale, invece, la questione è più concreta.
Le grandi città americane dipendono in parte dai fondi federali: senza quei finanziamenti, i servizi pubblici, le infrastrutture, i programmi sociali rischiano di andare in crisi. Ecco perché la minaccia di Trump pesa come una spada di Damocle: non è solo propaganda, è un messaggio preciso di subordinazione politica.
È una guerra asimmetrica, allora? Non nel senso classico: non ci sono conflitti armati, né una rottura formale dell’ordine costituzionale.
Ma se allarghiamo la definizione, includendo anche l’uso del potere economico e istituzionale per piegare l’avversario, la risposta può essere sì.
È una guerra asimmetrica “a bassa intensità”, combattuta con altri mezzi.
E le conseguenze non si faranno attendere.
Le città progressiste, sentendosi minacciate, potrebbero cercare nuove forme di autonomia, magari alleanze con altre metropoli del mondo su temi come clima, diritti e innovazione. Il potere federale, dal canto suo, potrebbe continuare a usare la leva economica per disciplinare le amministrazioni locali. Il risultato?
Una società americana ancora più polarizzata, in cui le città diventano isole assediate e il conflitto fra centro e periferia assume tratti sempre più duri.
In definitiva, ciò che accade a New York è più di un episodio elettorale: è un segnale d’allarme per tutte le democrazie avanzate.
La politica, oggi, non si combatte solo con le idee o i voti, ma anche con le risorse e con la minaccia di toglierle.
È la nuova forma di conflitto che abita le società democratiche del XXI secolo: senza armi, ma con la stessa logica di potere di sempre.
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