Israele: Decostruire la narrazione pro-palestinese tra slogan, guerra ibrida e realtà geopolitica

Di Bruno Di Gioacchino

TEL AVIV. C’è una guerra che si combatte sotto le bombe, tra le macerie di Gaza e le sirene del Sud di Israele.

Una mappa di Israele e dei suoi confini

 

Ma ce n’è un’altra, silenziosa e pervasiva, che attraversa le aule delle Università, dilaga nei talk show, “incendia le piazze” e si insinua negli algoritmi dei social: è la guerra delle parole, delle immagini, degli slogan.

Una manifestazione pro palestinesi all’Università di Bologna

È la guerra per il controllo della verità.

Dal 7 ottobre 2023, giorno dell’attacco brutale sferrato da Hamas contro civili israeliani, il conflitto israelo-palestinese ha assunto una nuova, inquietante dimensione: la dimensione dell’inganno narrativo.

In Occidente, il vocabolario dell’attivismo si è trasformato in un’arma.

Frasi come “Palestina libera dal fiume al mare”, “genocidio a Gaza”, “apartheid israeliano” non sono semplici slogan: sono “missili semantici”, lanciati per delegittimare uno Stato e occultare la realtà.

Free Gaza scritto su un muro

 

Ma cosa si cela dietro queste parole?

Lo specchio infranto della realtà

Hamas non è un movimento di liberazione nazionale.

Milizie di Hamas sequestrano soldati israeliani nel 2017

È un’organizzazione jihadista, figlia della Fratellanza Musulmana, che nel proprio statuto rivendica la distruzione di Israele.

Non cerca il compromesso, non contempla la pace. E non agisce da sola.

È il braccio operativo di un disegno più ampio, orchestrato da Teheran, che punta a trasformare Gaza in una base avanzata della “Mezzaluna sciita” iraniana.

Un’avanguardia ideologica, armata, fanatica.

Eppure, in Occidente, Hamas viene spesso presentata come una voce del “popolo palestinese”.

Ma quale popolo? Quello che non vota da 18 anni? Quello che vive sotto un regime che giustizia oppositori, usa le scuole come depositi di armi, trasforma gli ospedali in centrali militari? Siamo davvero disposti a confondere la resistenza con il terrorismo?

La fabbrica della disinformazione

Il campo di battaglia non è solo fisico. È soprattutto simbolico.

Ogni immagine di distruzione, ogni cifra di vittime, ogni grido ripreso dalle telecamere è parte di una strategia.

Prendiamo la cifra “50 mila morti a Gaza”. Da dove proviene? Dal Ministero della Salute di Gaza.

Ma chi controlla quel Ministero? Hamas. Nessuna distinzione tra civili e combattenti. Nessuna verifica indipendente. Solo numeri urlati, ripetuti, amplificati, fino a diventare “verità”.

Nel frattempo, si tace sul contesto: la guerra urbana, la presenza di tunnel sotto case e scuole, l’uso deliberato della popolazione civile come scudo umano.

Perché? Perché la verità è troppo complessa. E la propaganda, invece, è semplice, binaria, funzionale.

Genocidio: la parola usata come proiettile

C’è una parola che spicca tra tutte: genocidio.

È l’accusa più grave, la più infamante. Ma anche la più falsa. Secondo la Convenzione ONU, il genocidio implica l’intenzione di sterminare un popolo.

Dov’è la prova che Israele voglia annientare il popolo palestinese? Non c’è. Le operazioni militari sono finalizzate a distruggere Hamas, non a cancellare una popolazione.

Eppure, l’accusa si diffonde, penetra nei campus universitari, nei media, perfino nelle aule parlamentari.

È una perversione del linguaggio che ha un prezzo altissimo: la banalizzazione della Shoah.

Un cortocircuito morale in cui la vittima per eccellenza della storia diventa il nuovo carnefice. Un tradimento della memoria, una colpa che l’Occidente dovrebbe riconoscere prima che sia troppo tardi.

L’occupazione che non c’è

“Gaza è occupata”. Ancora uno slogan. Ma è falso.

Israele si è ritirato nel 2005. Ha smantellato insediamenti, rimosso forze militari, lasciato spazio a un’autonomia palestinese.

Cosa ne è stato? Un colpo di Stato interno, la presa di potere di Hamas, l’instaurazione di un regime integralista che ha trasformato Gaza in un arsenale. Il blocco? È una misura di sicurezza, non una forma di controllo coloniale.

E allora, perché questo mito persiste? Perché serve.

Serve a costruire un immaginario in cui il responsabile di tutto è Israele. In cui la violenza non ha origine, non ha ideologia, non ha registi internazionali.

Dietro la retorica, la geopolitica

Dietro le bandiere e le lacrime ci sono strategie precise. C’è l’Iran, che vuole minare gli Accordi di Abramo.

I protagonisti degli accordi di Abramo

 

C’è la Russia, che alimenta la polarizzazione in Europa. Ci sono le autocrazie che sfruttano ogni frattura nelle democrazie occidentali per misurarne la resistenza.

Gaza non è solo Gaza. È uno specchio deformante in cui si riflettono le debolezze dell’Occidente. È il teatro di una guerra ibrida dove chi urla più forte spesso ha torto, ma vince comunque.

Ribellarsi alla menzogna: una responsabilità morale

Non è più il tempo dell’ambiguità. Chi difende la verità non è “di parte”: è libero.

Chi smaschera la propaganda non è un fanatico: è un cittadino vigile. Chi difende Israele non nega la sofferenza dei civili palestinesi: la riconosce, ma non la strumentalizza.

Rivendicare la complessità è un atto di coraggio. Significa distinguere tra diritto e ideologia, tra aspirazione e fanatismo, tra umanità e cinismo.

Significa affermare che solo nel riconoscimento reciproco – due popoli, due Stati, due verità – può nascere una pace duratura.

E allora sì, Palestina libera, ma non dal fiume al mare – libera dall’odio, dal fondamentalismo, dalla menzogna.

E libera anche l’Occidente da sé stesso: dalla sua codardia morale, dalla sua retorica a senso unico, dalla sua amnesia storica.

Solo così si potrà tornare a parlare di pace. Con onestà. Con coraggio. Con verità.

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